Salari minimi e disuguaglianza salariale

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Salari minimi e disuguaglianza salariale

 

di Federico Giusti e Emiliano Gentili

Qualcosa non torna nella lettura della dinamica salariale oggetto di un rilevante lavoro del ricercatore B. Fanfani[1].

Manca innanzitutto una valutazione complessiva sui 40 terribili anni neoliberisti caratterizzati da continui interventi in materia di lavoro, fisco e pensioni. Tuttavia, non era quello l’oggetto specifico dello studio e, difatti, a nostro avviso, la criticità principale sta nell’avere assunto dei punti di vista opinabili su quanto avvenuto nel recente passato; ad esempio, dando per scontato che la contrattazione collettiva abbia salvaguardato i lavoratori più poveri, quando in realtà ne ha indebolito il potere di acquisto tramite accordi con aumenti retributivi inferiori al costo della vita.

All’epoca, del resto, era questo l’obiettivo: affermare meccanismi iniqui che avrebbero tenuto a bada pensioni e salari, puntando sulla contrazione del costo del lavoro per incrementare la produttività e pensando di compensare in questo modo i mancati investimenti nell’innovazione tecnologica.

E così, dunque, la contrattazione collettiva non ha tutelato il cosiddetto “lavoro povero”, dal momento che milioni di lavoratrici e lavoratori percepiscono paghe orarie inferiori ai 9 euro e spesso proprio sulla base di contratti nazionali siglati dalle organizzazioni sindacali “maggiormente rappresentative”. Se invece prendessimo a esempio la Pubblica Amministrazione, basterebbe ricordare che i meccanismi che limitano le progressioni di carriera sono stati ampiamente recepiti dai contratti nazionali solo dopo svariati interventi della Magistratura contabile, che per lustri si è sostituita al legislatore soppiantando la contrattazione sindacale vera e propria.

Gli ultimi decenni neoliberisti, a dire il vero, non hanno solo impedito ai salari di crescere, avendo anche acuito le disparità salariali e accresciuto, con ciò, le disuguaglianze sociali. In una prima fase – dagli anni Ottanta fino a circa il 1992 – i salari reali hanno registrato un andamento abbastanza piatto, fatta salva una crescita più marcata nei primi anni Novanta.

Inoltre, le differenze nella crescita dei minimi tra lavoratori ad alta e bassa qualifica erano relativamente limitate. La distruzione della scala mobile e l’accordo del 31 luglio 1992 “sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo del lavoro”, pensati appositamente per contrarre salari, potere di acquisto e di contrattazione, hanno invece creato una società nella quale prosperano le disuguaglianze. Durante il periodo immediatamente successivo – quello tra il 1995 e il 2011, che potrebbe essere definito come la fase delle privatizzazioni e della ubriacatura neoliberista – si sono diffusi gli appalti e i subappalti produttivi e si sono abbassate le retribuzioni ricevute dalla forza lavoro con bassa qualifica, pur in presenza di carichi di lavoro sostenuti e di un progressivo aumento dei ritmi di lavoro.

Un’altra questione su cui dissentiamo, rispetto al lavoro di Fanfani, è quella dell’adeguamento dei salari al costo della vita. Un’impresa ardua per la contrattazione, dato che a indirizzarla erano le politiche della Bce di contenimento dei costi e dell’inflazione, politiche basate sulla (spacciata) convinzione che tenendo a bada la inflazione i salari sarebbero automaticamente cresciuti. L’andamento delle buste paga dice invece l’esatto contrario: una bassa inflazione non è sinonimo di crescita salariale e men che mai di adeguamento automatico dei salari al costo della vita.

Successivamente Fanfani parla di produttività, relazionandola con la questione salariale: “negli ultimi quattro decenni, è aumentata di circa il 50 per cento nella manifattura, di circa il 30 per cento nei servizi, mentre si è ridotta del 10 per cento (fatto salvo un recupero nel 2022-2023 legato agli incentivi fiscali) nelle costruzioni. Tuttavia, queste forti differenze non sembrano riflettersi in modo netto nell’andamento dei minimi salariali tra settori diversi”. Manca in questa analisi qualsiasi riferimento al fatto che la ricchezza prodotta sia andata in prevalenza al capitale e non a salari e welfare. Inoltre, sempre a proposito di diseguaglianza, salariale sarebbe interessante riprendere le numerose ricerche[2] condotte sulla società statunitense che testimoniano come l’aumento della componente salariale legata alle competenze specialistiche abbia prodotto non tanto una crescita dei salari quanto invece un abbassamento delle buste paga relative alle mansioni operaie non specializzate e la crescita della disuguaglianza. In Italia il decadimento delle paghe orarie minime è stato mascherato dalle esenzioni Irpef e da alcuni “Bonus”, con il risultato che la disuguaglianza rispetto ai salari più alti non è aumentata solo grazie ai soldi pubblici, proprio quando le imprese andavano risparmiando e accumulando profitti.

[1] https://lavoce.info/archives/108705/salari-minimi-e-contrattazione-collettiva-cosa-e-successo-in-quarantanni/ 

[2] Skill-Biased Technological Change [Katz e Murphy, 1992; Goldin e Katz, 2008]; Routine-Biased Technical Change [Autor, Levy e Murnane, 2003; Acemoglu e Autor, 2011].

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