Sanzioni alla Siria: tutto quello che devi sapere sulla ferocia (e ipocrisia) dell'UE
di Francesco Santoianni
Il comunicato del Consiglio dell'Unione Europea è un capolavoro di ipocrisia: “Il 29 maggio 2017 il Consiglio ha prorogato fino al 1º giugno 2018 le misure restrittive dell'UE nei confronti del regime siriano. Tale decisione è in linea con la strategia dell'UE relativa alla Siria, in base alla quale l'UE manterrà le misure restrittive adottate nei confronti del regime siriano e dei suoi sostenitori finché continuerà la repressione contro i civili. Al tempo stesso il Consiglio ha aggiunto all'elenco delle persone ed entità oggetto delle misure restrittive tre ministri del governo siriano e ha aggiornato le informazioni relative a talune persone ed entità inserite nell'elenco. Questo contiene al momento 240 persone e 67 entità colpite da divieto di viaggio e congelamento dei beni a causa della violenta repressione contro la popolazione civile in Siria.”
Detta così e rileggendo quello che i media ci avevano raccontato sulle sanzioni alla Siria potrebbe sembrare che questa misura sia fatta per preservare milioni di Siriani. Non è così.
Le sanzioni che dal 2011 l'Unione Europea (e, quindi, l’Italia) sta infliggendo alla Siria sono di una ferocia pari a quelle inflitte all'Iraq di Saddam le quali , si stima, abbiano provocato circa un milione di morti. Sanzioni che – incredibili a dirsi - non riguardano le aree della Siria occupate dai “ribelli” i quali possono così vendere “legalmente” in Occidente il petrolio che rubano dal sottosuolo siriano. Sanzioni (blocco delle esportazioni del petrolio e delle transazioni finanziarie, embargo su assistenza beni di prima necessità...) che hanno prodotto fame, miseria, epidemie, disoccupazione... costringendo innumerevoli milioni di persone a scappare dalla Siria.
Qui di seguito, la sintesi di un dettagliato documento e alcuni videoclip prodotti dal Comitato italiano contro le sanzioni alla Siria che, tra l’altro, supporta un appello di esponenti cattolici siriani che ha già avuto il sostegno del Premio Nobel per la Pace Mairead Maguire, di migliaia di firme, di mozioni parlamentari e di consigli regionali.
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COSA SONO DAVVERO LE SANZIONI ALLA SIRIA
Il 9 maggio 2011, Il Consiglio dell’Unione Europea, con la Decisione 2011/273/PESC dava il via all’embargo nei confronti della Siria. Una misura della cui gravità quasi nessuno parve rendersi conto e che, nei fatti fu la prima mossa di una guerra che anche l’Unione Europea (e quindi il nostro Paese) da cinque anni, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, sta conducendo alla Siria. Una guerra, finora, solo per procura – a differenza di quella alla Libia del 2011 – ma che ha già provocato 250.000 morti, sei milioni di sfollati e cinque milioni di profughi. Profughi che ora tentano di approdare anche verso il nostro continente dividendo un’opinione pubblica che, si direbbe, non si renda conto che il vero problema non è quale “soluzione” trovare per i profughi ma come rimuovere le cause che li hanno resi tali.
L’ipocrisia dell’Unione Europea
Cominciamo analizzando le motivazioni ufficiali che, nel 2011, spinsero il Consiglio dell’Unione Europea a infliggere le sanzioni alla Siria: “…la grave preoccupazione per gli sviluppi della situazione in Siria e per lo spiegamento di forze militari e di sicurezza in diverse città siriane (e la condanna della) violenta repressione, effettuata anche con l’uso di pallottole vere, delle pacifiche manifestazioni di protesta avvenute in varie località della Siria (…)”
Sarebbe opportuno domandarsi perché mai l’Unione Europea, prima di parlare di repressione di pacifiche manifestazioni di protesta (che certamente, in Siria, come in tutti i paesi arabi c’erano state) non abbia preso in esame il perché e il come della loro trasformazione in sparatorie. Ci riferiamo, ad esempio, alla presenza di anonimi cecchini che, dai tetti, colpivano indiscriminatamente sia la folla sia la polizia; cecchini che per i media occidentali non potevano che essere “agenti di Assad” nonostante che, sin dai tempi della prima “rivoluzione colorata”, quella contro Ceau?escu del 1989 (come quella in Ucraina del 2013) l’impiego di cecchini per trasformare i cortei in massacri è stato appannaggio di forze antigovernative, molto spesso foraggiate da potenze straniere.
Parimenti, appare significativo che gli efferati episodi che segnarono il punto di non ritorno della situazione in Siria, come l’incendio del Palazzo di giustizia di Daraa (avvenuto tre ore dopo che l’emittente araba al-Arabiya ne avesse dato “notizia”) o l’assalto alla stazione di polizia a Lattakia (10 poliziotti trascinati per strada e lì uccisi) non videro come protagonisti i partecipanti alle manifestazioni ma, piuttosto, “uomini mascherati venuti dal nulla e scomparsi nel nulla, assolutamente sconosciuti dagli organizzatori delle manifestazioni”. La stessa dinamica, del resto, che nel gennaio 2011 caratterizzò l’assalto alla caserma di polizia di Misurata in Libia come ebbe a dichiarare uno dei leader delle manifestazioni di allora.
Questo, ovviamente, non significa che dietro ogni manifestazione di protesta ci debba essere, per forza, lo zampino di qualche potenza straniera. In Siria c’era, certamente, un diffuso malcontento, dettato da una crisi economica e climatica e aizzato da campagne mediatiche veicolate, soprattutto da network televisivi come al-Jazeera. Quello che, comunque, qui ci preme sottolineare è che – a nostro avviso – in Siria non fu (come molti pensano ancora oggi) il progressivo inasprimento della contrapposizione tra “pacifici manifestanti” e forze governative a determinare i primi morti ma l’attuazione di un preciso disegno, dettato da potenze straniere, che da almeno un decennio avevano pianificato, sommosse, omicidi, assalti a stazioni di polizia… per fare precipitare la Siria nella situazione nella quale si trova oggi.
Ma ritorniamo all’argomento di questo testo. Le Sanzioni dell’Unione Europea del 2011 alla Siria (che riproponevano pedissequamente quanto già stabilito dalle sanzioni USA del 2007) sembrarono essere per l’opinione pubblica una legittima, quanto pacata, risposta alle repressioni di un “regime” già crocifisso su tutti i mass media. L’articolo 4 del documento infatti si limitava a: “(congelare) tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati dai responsabili della repressione violenta contro la popolazione civile in Siria e dalle persone fisiche o giuridiche o dalle entità ad essi associate, elencati nell’allegato.” Allegato che elenca, tra dirigenti dei servizi di sicurezza e della polizia siriani, stranamente, anche un banchiere, tale “Rami Makhlouf (…) Uomo d’affari siriano. Associato a Maher Al-Assad; finanzia il regime che permette la repressione dei manifestanti.” Al di là delle accuse dell’Unione Europea è da evidenziare che Rami Makhlouf gestiva numerosi business tra i quali una compagnia telefonica; la quale, ovviamente, a seguito delle sanzioni, non avrebbe più potuto avere alcun contatto con le aziende europee, neanche per la fornitura di pezzi di ricambio.
Cominciò così una davvero subdola strategia perpetuatasi nelle successive sanzioni che – al di là del dichiarato embargo sul petrolio e sulle attività della Banca centrale siriana – non vietano esplicitamente di esportare in Siria generi o attrezzature indispensabili per la vita delle popolazioni (quali, ad esempio, sementi o generi alimentari). Ma se si ha la pazienza di leggersi gli innumerevoli allegati alle sanzioni (una serie di elenchi continuamente aggiornati e approvati non dal Consiglio d’Europa ma da anonimi funzionari dell’Unione Europea, quali, ad esempio quelli del “Gruppo Mashreq/Maghreb (MaMa)”, si scopre che le sanzioni applicate “ad personam” riguardano “uomini di affari” presentati come “sostenitori di Assad” (a febbraio del 2015 erano 211) che provvedevano, a vario titolo, alla commercializzazione di innumerevoli generi o attrezzature. E così, anche i pezzi di ricambio indispensabili per far funzionare, ad esempio, un forno per il pane, una rete elettrica, un acquedotto, una attrezzatura medicale… non possono essere più esportati in Siria.
L’allegato 2014/C 373/06, poi, chiude il cerchio elencando non solo operatori economici (“uomini di affari”) ma ministri (tra i quali quello per le Risorse idriche e quello della Sanità) che – per fare nostri i termini del documento del maggio 2011 – certamente “controllano” l’approvvigionamento e la manutenzione dei servizi ad essi affidati.
Un altro escamotage dell’Unione Europea per condannare la Siria alla fame, pur mantenendo un alone di “rispettabilità”, è l’embargo (oltre che su attrezzature finalizzate alla repressione che, difficilmente, un qualsiasi “stato canaglia” acquisterebbe all’estero, come ghigliottine, sedie elettriche, catene per contenzione, serrapollici…) di prodotti e tecnologie Dual Use utilizzabili, cioè, per costruire manufatti sia ad uso civile che militare ed elencati nel Regolamento N. 1334/2000 del Consiglio dell’Unione Europea (e successivi aggiornamenti di questo).
Regolamento che oltre a contemplare prodotti chimici indispensabili per attività che dovrebbero essere perfettamente lecite (è, ad esempio, il caso di alcuni nitrati indispensabili per la produzione di fertilizzanti) comprende anche alcuni tipi di circuiti elettronici e di software un tempo utilizzati prevalentemente in ambito militare ma oggi comunemente installati su apparecchiature elettromedicali o su dispositivi di controllo per la produzione industriale. Per di più, chi scrive queste righe ha svolto una piccola inchiesta sull’odissea che devono subire le aziende che chiedono al Ministero dello Sviluppo Economico l’indispensabile Nulla Osta per potere esportare loro manufatti (in questo caso, alcuni relais per una centrale elettrica danneggiata e disinfettanti) in Siria. Nonostante questi relais e questi disinfettanti non figurassero affatto negli elenchi allegati al Regolamento N. 1334/2000, la Commissione che doveva concedere il Nulla Osta, verosimilmente subodorando la possibilità che quanto attestato dalle aziende (tra l’altro, di primissimo piano) che li avevano prodotti non fosse veritiero, ha imposto talmente tante verifiche e lungaggini burocratiche che hanno, infine, determinato l’annullamento della vendita.
Il blocco delle transazioni finanziarie
Ma se anche una azienda europea, per commerciare con la Siria, volesse bypassare l’embargo (un reato penale punito, ai sensi del D.Lgs 96/2003, con la reclusione da due a sei anni e, tra l’altro, una multa fino a 250.000 euro) effettuando, ad esempio una “triangolazione” (utilizzare un paese terzo come fittizio destinatario) come potrebbe essere pagata? Ci riferiamo ad un aspetto della sanzioni alla Siria particolarmente devastante: il blocco delle transazioni finanziarie, stabilito dal Consiglio dell’Unione Europea, con la Decisione 878 del 2 settembre 2011. Anche questa decisione, ipocritamente, si maschera come una provvedimento ad personam: “(…) il congelamento dei fondi e delle risorse economiche di altre persone e entità che ricevono benefici dal regime o lo sostengono. L’elenco aggiuntivo delle persone, delle entità e degli organismi a cui si applica il congelamento dei fondi e delle risorse economiche è riportato in allegato di detta decisione.” E sulla scia della 273, anche la Sanzione 878 contempla un lungo elenco di operatori economici (direttori di Camere di commercio, di società di intermediazione…) etichettati come “sostenitori del regime siriano” da punire. Ne seguiranno altri con altri allegati.
Peggio ancora farà la Svizzera nel 2014 per tutelare i suoi banchieri, facendo sue le sanzioni dell’Unione Europea ma permettendo lo sblocco di soldi di siriani o della Banca Nazionale della Siria depositati nelle sue banche al non meglio precisato fine di “tutelare interessi svizzeri”.
Gli effetti del blocco delle transazioni finanziarie sono così sintetizzati nell’Appello degli esponenti cattolici siriani: “(…) La situazione in Siria è disperata. Carenza di generi alimentari, disoccupazione generalizzata, impossibilità di cure mediche, razionamento di acqua potabile, di elettricità. Non solo, l’embargo rende anche impossibile per i siriani stabilitisi all’estero già prima della guerra di spedire denaro ai loro parenti o familiari rimasti in patria. Anche le organizzazioni non governative impegnate in programmi di assistenza sono impossibilitate a spedire denaro ai loro operatori in Siria. Aziende, centrali elettriche, acquedotti, reparti ospedalieri sono costretti a chiudere per l’impossibilità di procurarsi un qualche pezzo di ricambio o benzina.
“Oggi i siriani vedono la possibilità di un futuro vivibile per le loro famiglie solo scappando dalla loro terra. Ma, come si vede, anche questa soluzione incontra non poche difficoltà e causa accese controversie all’interno dell’Unione europea. Né può essere la fuga l’unica soluzione che la comunità internazionale sa proporre a questa povera gente. (…) E la retorica sui profughi che scappano dalla guerra siriana appare ipocrita se nello stesso tempo si continua ad affamare, impedire le cure, negare l’acqua potabile, il lavoro, la sicurezza, la dignità a chi rimane in Siria. (….)”
Il petrolio
Il 2 settembre 2011 una nuova decisione del Consiglio dell’Unione Europea (la 2011/522/PESC) inasprì le sanzioni alla Siria imponendo, tra l’altro, il divieto di acquistare, importare o trasportare dalla Siria petrolio greggio e prodotti petroliferi.
Per comprendere la gravità di questa misura basti un dato. Nel 2010 la Siria (le sue riserve di petrolio sono stimate in 2,5 miliardi di barili) estraeva ogni giorno 375mila barili di petrolio al giorno, di cui circa 150mila destinati all’export. Con il prezzo del barile sul mercato che superava i 100 dollari, ciò si traduceva in un’entrata fissa pari a circa 16 milioni di dollari al giorno, vale a dire quasi 6 miliardi di dollari l’anno. Una risorsa che insieme al Turismo (6 milioni di turisti stranieri nel 2010) e all’industria farmaceutica (la Siria esportava farmaci in più di 50 paesi) aveva permesso a questo Paese di raggiungere un relativo benessere e il raggiungimento di significativi standard di vita (tra cui un buon sistema sanitario e la scomparsa dell’analfabetismo). In più il petrolio alimentava una notevole produzione elettrica (nel 2010 46 miliardi di Kilowatt all’ora) che riforniva anche il Libano.
Ma l’embargo petrolifero alla Siria ha conosciuto clamorosi risvolti. Intanto, entrò in vigore non il 2 settembre ma solo due mesi dopo, a seguito della richiesta italiana di rispettare alcuni contratti, firmati da aziende italiane con la Siria, che prevedevano forniture di petrolio fino al 30 novembre. Al di là di un polverone mediatico-giudiziario, non è noto (sono andate a vuoto le nostre richieste di un comunicato ufficiale) se questi contratti prevedessero (come è prassi) il pagamento a 30-60 giorni dopo la consegna o se, il pagamento (o un congruo anticipo di questo) era stato versato alla stipula dei contratti; e così non è noto se le aziende italiane abbiano onorato questi contratti o se si siano tenuti sia il petrolio siriano sia i soldi. Di certo l’atteggiamento del governo italiano provocò l’irritazione dei più agguerriti fautori delle sanzioni alla Siria, come la City di Londra e i suoi (consapevoli o no) sponsor.
D’altro canto, i (consapevoli o no) sponsor degli interessi di altre aziende italiane – forse perché memori dei danni all’economia italiana conseguenti alle sanzioni prima e alla guerra poi alla Libia – hanno evidenziato come il nostro paese, tra quelli della UE, risulti essere il più penalizzato dalle sanzioni alla Siria costringendoci a rinunciare ad un interscambio commerciale annuo di 2,3 miliardi di euro e ad accordi già stipulati nel campo dell’estrazione del petrolio e della realizzazione di infrastrutture.
Ma queste polemiche passano in secondo piano di fronte alla davvero scandalosa decisione dell’Unione Europea che permette ai cosiddetti “ribelli siriani” di bypassare le sanzioni potendo così, nelle aree da essi “liberate”, esportare petrolio e importare armi.
I “ribelli” e le sanzioni
Il 13 Dicembre 2012 l’Italia riconosceva come “unica legittima rappresentante del popolo siriano” la “Coalizione nazionale degli oppositori siriani”. Questa decisione – presa, ovviamente, senza alcuna votazione né, tantomeno, discussione in Parlamento: solo una fugace audizione del ministro degli Esteri Terzi, il 12 dicembre, alla Commissione Esteri della Camera – discendeva dall’adesione dell’Italia, avvenuta, anch’essa alla chetichella, già nel luglio 2012 il Gruppo “Amici del popolo siriano” dove l’Italia si impegnava a garantire “un aumento massiccio degli aiuti all’opposizione al regime di Bashar Al-Assad”. Questo Gruppo, del resto, vedeva , tra gli altri, la partecipazione dei rappresentanti dell’Arabia Saudita e del Qatar i quali, già da tempo, stavano inviando in Siria le loro bande di tagliagole autoproclamatesi “Coalizione nazionale degli oppositori siriani”.
Sulle gesta di queste bande (in minima parte composte da siriani; la maggior parte dei miliziani proviene da Giordania, Libia, Afghanistan, Tunisia, Arabia Saudita…) che qualcuno, ancora oggi, si ostina a considerare “ribelli” o “combattenti per la democrazia” esiste una ormai copiosa documentazione. Decapitazioni ed esecuzioni di soldati, poliziotti, inermi civili siriani, “colpevoli” di non opporsi al governo di Damasco; autobombe davanti a scuole, caserme, ospedali; crocifissioni e fustigazioni di “infedeli”; costruzione di ordigni carichi di gas tossici… sono documentati da video posti su internet dagli stessi “ribelli”.
Eppure, per anni, l’Occidente (e i suoi mass media) ha preferito distogliere lo sguardo dalle efferatezze dei suoi “ribelli”, fin quando non fu deciso di dare grande lustro alle imprese dell’ISIS (un’altra banda di tagliagole, anch’essa creata dalle Petromonarchie e dall’Occidente) identificata come il Male Assoluto da estirpare ad ogni costo: anche rifornendo i “ribelli” di armi pesanti o invadendo e bombardando la Siria.
Ma ritorniamo a parlare di sanzioni. Il 31 maggio 2013, il Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea con la Decisione 2013/255/PESC tolse l’embargo del petrolio dalle aree “liberate dai ribelli” i quali, da allora, vendono “legalmente” il petrolio siriano alle compagnie petrolifere occidentali. Avendo già distrutta, nel febbraio del 2012, la raffineria di Bab Àmro (la più grande della Siria, nei pressi di Homs) e ucciso quasi tutte le maestranze, i “ribelli” si affrettarono a far giungere lì tecnici provenienti dall’Arabia Saudita e, soprattutto, autobotti (l’oleodotto dalla raffineria sfocia nel porto di Tartus) per trasportare i prodotti petroliferi in Turchia. Da lì il petrolio dei siriani, certamente, (anche se nessuna informazione ufficiale viene fornita su questo; vedi più avanti) arriva ad aziende europee e i soldi di questo ai “ribelli”.
Le armi ai “ribelli”
Ancora peggio un altro punto della Decisione che tolse l’embargo alle armi destinate ai “ribelli”. E ciò nonostante la protesta di paesi quali Austria, Repubblica Ceca, Finlandia, Olanda e Svezia, sintetizzata dall’allora ministro degli Esteri austriaco: “inviare armi è contro i principi dell’Europa, che è una comunità di pace.” A neutralizzare le proteste per la deroga sulle armi fu certamente l’ambigua posizione di Germania e Italia, finalizzata a “favorire un compromesso”. “Compromesso” che fu interpretato da Francia e Gran Bretagna come un via libera alla fornitura di armi ai ribelli.
Al di là della spaccatura nel Consiglio dell’Unione europea (pudicamente sottaciuta dai mass media) – dettata, verosimilmente, da Francia e Gran Bretagna che speravano di riproporre lo stesso blitz da essi effettuato in Libia nel 2011 e dall’esigenza di Germania e Italia di non trovarsi, ancora una volta, alla finestra – ci sarebbe da domandarsi perché mai l’“elasticità” di allora nel derogare, per le armi, le sanzioni contro la Siria non sia stata poi concessa per altri aspetti di queste. Comunque sia, l’ambiguità tenuta allora dall’Unione europea si è tradotta in un guazzabuglio nella conseguente Decisione che così si esprime:
“Rispetto alla possibile esportazione di armi alla Siria, il Consiglio ha preso nota dell’impegno da parte di alcuni Stati membri di procedere nelle loro politiche nazionali come segue:
– la vendita, la somministrazione, il trasferimento e l’esportazione di attrezzature militari che potrebbero essere usate per la repressione interna saranno per la Coalizione nazionale siriana delle forze rivoluzionarie e dell’opposizione e destinate alla protezione dei civili; (ma che vuol dire??)
– gli Stati membri dovrebbero richiedere, prima di autorizzare, adeguate salvaguardie, in particolare informazioni importanti che riguardano l’uso e la destinazione finale della consegna;
– gli Stati membri dovrebbero valutare le domande di licenza di esportazione caso per caso, tenendo pienamente conto dei criteri indicati nella Posizione comune del Consiglio 2008/944/CFSP dell’8 dicembre 2008 che definisce regole comuni che reggono il controllo dell’export di tecnologia e attrezzature militari. Gli Stati membri non procederanno a questo stadio alla consegna di tale materiale. Il Consiglio rivedrà la propria posizione entro il 1 agosto 2013 sulla base di un rapporto da parte dell’Alto rappresentante, dopo essersi consultato con il segretario generale dell’Onu, sugli sviluppi legati all’iniziativa Usa-Russia e all’impegno delle parti siriane.”
Va da sé che di queste “valutazioni” e di questi documenti che avrebbero dovuto far “rivedere” la posizione dell’Unione europea non si trova traccia in nessuno dei successivi documenti elencati nel, pur ponderoso, dossier inerente le sanzioni alla Siria, nè, tantomeno, nell’ultima Decisione dell’Unione europea che il 31 maggio 2016 ha prorogato le sanzioni alla Siria.
A tal proposito, il giornale on line L’Antidiplomatico ai primi di giugno scriveva all’Ufficio Stampa del Consiglio dell’Unione Europea per chiedere il perché di queste clamorose omissioni (che, tra l’altro, contrastano con la pignola precisione vantata dai burocrati di Bruxelles) e, in particolare domandava se fosse stata confermata o, in qualche modo, regolamentata la revoca delle sanzioni sul petrolio e le armi ai “ribelli”. La risposta è stata, a dir poco, evasiva. Sulla deroga alle sanzioni alle armi non c’è stata data nessuna risposta; peggio ancora sulle modalità della deroga inerente la commercializzazione del petrolio rubato dai “ribelli: “Per quanto riguarda le restrizioni all’importazione del petrolio siriano, a certe condizioni e previa consultazione con la Coalizione nazionale delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, gli Stati membri possono autorizzare deroghe a questo divieto”.
E così, alla faccia della “trasparenza” nella quale pretende di ammantarsi l’Unione Europea, non si può sapere né chi sono gli stati europei che importano oggi petrolio siriano né chi sono i “ribelli” che lo vendono o che lo barattano con armi. Di certo sappiamo che dall’approvazione della sanzione 2013/255/PESC la fornitura di armi pesanti e sistemi missilistici ai “ribelli” siriani sono aumentate in maniera esponenziale , sopratutto da parte della Francia. Non caso, considerato che, già nel 2013, il ministro Laurent Fabius affermava che Al Nusra (una filiale di al Qaeda) “in Siria faceva un buon lavoro”
Gli effetti della sanzioni sulla popolazione siriana
Quante le vittime delle sanzioni imposte dall’Unione Europea? Ci sono già – oltre ad innumerevoli, toccanti, testimonianze di siriani e di giornalisti – alcuni esaustivi studi (in particolare questo, purtroppo datato) sul come le sanzioni si impattano sula società siriana e altri (tra cui questo e questo) che analizzano alcuni aspetti della disastrata situazione della Siria; ma, al momento, nessuna letteratura scientifica sugli effetti delle sanzioni sulla popolazione. Per comprenderli può, comunque, essere utile un raffronto con le sanzioni inflitte all’Iraq (si veda, ad esempio questo studio e questo sintetico documento) che, secondo un Rapporto Unicef, provocarono, tra l’altro, la morte per denutrizione e malattie di 500.000 bambini.
Ma cerchiamo di delineare gli effetti delle sanzioni sulla popolazione siriana, suddividendoli per settori colpiti. Intanto quello medico-sanitario.
Uno dei principali effetti delle sanzioni alla Siria è oggi il dilagare di infezioni che non possono essere adeguatamente affrontate. La Siria, prima del 2012 aveva una fiorente industria farmaceutica (con l’eccezione di quelli per il cancro, la Siria era autosufficiente al 95% in termini di produzione di farmaci) ed un soddisfacente sistema ospedaliero, il cui “fiore all’occhiello” era certamente, il Centro oncologico “Al Kindi” di Aleppo, il più grande del Medio Oriente.
Oggi, senza elettricità e con i gruppi elettrogeni anch’essi privi di combustibile, (e quindi con frigoriferi e apparecchiature di sterilizzazione fuori uso) quello che resta della rete di presidi ospedalieri scampati alle distruzioni è praticamente al collasso. Ne consegue un numero elevatissimo di infezioni ospedaliere che, tra l’altro, non possono essere affrontate per la mancanza di antibiotici.
Ancora peggio per altre infezioni quali tetano e il morbillo. Nel dicembre 2012, una epidemia di morbillo, nonostante l’intervento di mezzi dell’Unicef, si portò via migliaia di bambini; da allora sono state registrate altre epidemie che non è stato possibile affrontare adeguatamente, soprattutto per la mancanza di carburante. Poi ci sono le infezioni gastrointestinali determinate dalla impossibilità di ripristinare acquedotti ed impianti di sollevamento idrico danneggiati dalla guerra o dall’usura. Sulle persone decedute in Siria negli ultimi anni a seguito di infezioni (anche per quelle che in Occidente non costituiscono un problema) non si hanno stime e così pure per persone morte per l’impossibilità di seguire determinate terapie (prime tra tutte quelle contro il diabete o il cancro) come documenta un articolo della rivista medica “The Lancet”.
Poi, c’è il dramma della denutrizione. Secondo alcune stime pubblicate nell’articolo del “The Lancet”, oltre l’80% della popolazione siriana vive oggi in condizioni di povertà, di cui un terzo in condizioni definite di estrema povertà, (impossibilità ad ottenere prodotti alimentari di base); l’aspettativa di vita si è ridotta, quindi, da 75-79 anni del 2010 (uno tra i più alti del Medio Oriente) a 55-57 anni del 2014. Intanto, il tasso di disoccupazione è salito dal 15% del 2011 a 57% del 2014, mentre il costo dei prodotti alimentari di base è aumentato di sei volte dal 2010.
In questa tragica situazione risulta beffarda l’impossibilità per i siriani che vivono all’estero di potere inviare danaro ai loro cari rimasti in patria. E così, bloccato dalle sanzioni il circuito bancario internazionale che serviva la Siria, per molti – anche per alcune ONG – non resta che nascondere un po’ di banconote tra i vestiti e attraversare la frontiera dal Libano sperando di non essere depredati da bande di rapinatori o da disperati alla fame.