Se Gentiloni rimpiange il "compianto" guerrafondaio John McCain...
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Non ci sarebbe stato da dubitarne, comunque le prime pagine di quasi tutti i quotidiani del 4 luglio erano per la telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin e la “tragedia strappalacrime” della sospensione delle forniture di armi americane a Kiev, in particolare dei sistemi “Patriot”. Per parte nostra, si è cominciata la rassegna con La Stampa e un apocalittico «Trump-Putin, l'Ucraina trema» su quattro colonne; dopo di che, si è lasciato perdere.
Ormai non c'è più bisogno di aprire un qualsiasi giornale euro-padronale per venire a sapere che, tutti (d'altronde, proprietari e suggeritori sono i medesimi) ripetono che «la posizione di Mosca sulla guerra d'invasione non pare infatti essere cambiata di molto» e che, guarda un po', Vladimir Putin ha ribadito che «la Russia raggiungerà gli obiettivi prefissati, vale a dire l'eliminazione delle cause profonde che hanno portato all'attuale stato di cose».
Qualcuno aveva forse pensato che una potenza nucleare desse avvio a un'operazione militare tesa a fermare, per quanto possibile, l'espansione a est, verso i propri confini, di NATO e UE e poi dicesse “no, vabbè, per ora la chiudiamo qui; poi, magari, tra un po', vediamo come si mette la faccenda”. A giudicare da come scrivono dalle parti di Torino o di Milano, pare proprio che la pensassero così e, dunque, non dispongano delle “coordinate neuronali” sufficienti a comprendere come mai Mosca non abbandoni le «mire sulle regioni orientali e meridionali ucraine di Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk, dove pretende che i militari ucraini si ritirino e gli cedano anche i territori di queste regioni non occupati dai soldati russi».
Di grazia: si arriva anche solo a sospettare che l'occupazione ucraina di regioni quali, appunto, Donetsk, Lugansk, Zaporož'e o Khersòn significa, con ciò stesso, la presenza NATO in quelle aree e, dunque, del soggetto – sia rappresentato più da contingenti eurobellicisti che non da forze yankee, o viceversa – la cui presenza ha costituito la ragione della scelta fatta nel febbraio 2022 dal «padrone del Cremlino», come definiscono a Torino il presidente russo, con una qualifica “scientificamente” adatta alle assemblee confindustriali, in altre occasioni sostituita da quella a effetto euroliberale di «dittatore russo»? Lo sospettano?
Intanto, però, si continua a scrivere che «la guerra scatenata da Putin non smette di uccidere» e si dà notizia di un «massiccio raid notturno su Kiev», con «droni prodotti in Cina». Così, mentre rimaniamo comunque ingenuamente speranzosi di leggere, su qualche media italico, anche dell'attacco missilistico ucraino portato il 4 luglio sul capoluogo della DNR, Donetsk, che ha ucciso quattro civili, due donne e due uomini, tutti nati tra il 1983 e il 1994, si vorrebbe notare come parlare di «guerra scatenata da Putin» risponda sì alle esigenze liberal-farisee di ”analisi” clerico-bruxelliana, ma vada in direzione esattamente contraria anche a un semplice ragguaglio del quadro storico del trentennio precedente che ha dato origine al conflitto poi sfociato in esiti bellici.
Ora, ribadiamo una volta di più, che non ci si aspetta certo di trovare, su certi fogliacci bellicistico-padronali, analisi leniniane sulla guerra, ma, parlare semplicemente di «guerra scatenata da Putin», senza altre specificazioni, senza far minimamente parola dell'intera situazione politica, militare, geografica, che ha preceduto il febbraio 2022, non si fa altro che riportare una constatazione liberal-vittimistica.
Per l'appunto, come avrebbe detto (in altri termini, per carità) il genio di Vladimir Lenin, tutta la pseudoimpostazione di certi giornali si riduce a dire: “quello ha attaccato e l'altro deve difendersi”; punto ed è tutto. Pretendere da certi ”analisti” che si rifacciano, anche solo per sbaglio, al semplice, ovvio, ma storicamente esemplare aforisma di Carl von Clausewitz, secondo cui «la guerra è la continuazione della politica», vale a dire dell'intero complesso della politica, della storia, delle scelte che hanno preceduto la guerra e hanno portato al suo inizio; pretendere questo da certi giornali, è certo molto ingenuo e dunque non lo si pretende. Ma, almeno, ricordare le ultimissime tappe – ad esempio, quelle dell'autunno e del dicembre 2021 – del corso che ha portato al febbraio 2022, sembrerebbe il minimo di onestà nei confronti dei lettori. Ma, si sa, la guerra è anche questo: conflitto cruento al fronte e militarizzazione della vita sociale e della coscienza pubblica all'interno, per far ingoiare alle masse le scelte belliciste che, tra l'altro, significano anche scelte economico-guerrafondaie.
E, infatti, non a caso, la sezione più “interessante” del foglio torinese del 4 luglio è costituita dal resoconto della «visita a sorpresa» del nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij a Aarhus, in Danimarca, guarda caso, proprio «nel luogo e nel giorno in cui l'intero collegio dei commissari guidato da Ursula von der Leyen si è riunito con la premier danese Mette Frederiksen», in occasione dell'avvio del semestre danese di presidenza del Consiglio UE. Ora, lasciate un momento da parte le inevitabili lamentazioni di Zelenskij su l'Europa quale unico appiglio «su cui poter contare» (si intende, dopo la sospensione trumpiana all'invio di armi) e le grida di von der Leyen sui segnali volti ad «aumentare il nostro sostegno e le nostre capacità di Difesa», il nocciolo è stato spiattellato dallo stesso nazigolpista Zelenskij e riguarda la richiesta di «aumentare gli investimenti nell'industria militare ucraina “che attualmente lavora soltanto al 60% delle sue capacità”».
Ora, ci dicono, il governo danese «è il capofila di una serie di iniziative che vanno nella direzione indicata da Zelenskij». Dunque, dato che, come assicura Mette Frederiksen, «gli ucraini stanno lottando per noi... un eventuale disimpegno americano rappresenterebbe una grave battuta d'arresto per l'Europa e per la NATO perché questa è una guerra che ci riguarda» (la giovane, non avuto cuore di dire chiaro e tondo che «questa è una guerra» in cui “siamo coinvolti”) ecco che si tiene a mettere a parte i lettori che «da più di un anno abbiamo iniziato a sostenere la produzione direttamente in Ucraina e questo funziona molto bene perché producono rapidamente, meglio e con costi inferiori rispetto a noi». Sarebbe strano il contrario, se solo si pone mente ai leader sindacali e politici ucraini in galera, ai diritti dei lavoratori (e non solo dei lavoratori) inesistenti, costi adeguati ai salari da fame che pongono l'Ucraina agli ultimissimi posti in Europa, ricatto continuo di venir licenziati, o semplicemente, tolti dalle liste “blindate” di “lavoratore necessario”, impiegato in un'industria di guerra e, dunque, non passibile di esser mobilitato per esser spedito al fronte, insieme a tante altre “delicatezze” con cui si “accarezzano” lavoratori e masse popolari ucraine sotto il ricatto di UE, FMI, NATO... sarebbe strano che il complesso militare-industriale euroatlantico non trovasse quantomeno “conveniente” spostare la propria produzione in quel “paradiso”, sia che il prodotto riguardi le armi da destinare direttamente a Kiev, sia quelle con cui c'è urgente bisogno di rimpinguare gli arsenali europei.
Ma non è tutto: «ci sono ancora margini» (di sfruttamento schiavistico, hanno omesso di aggiungere) «e abbiamo bisogno che altri paesi europei finanzino la produzione in Ucraina e magari anche fuori». Copenaghen infatti, ci tengono a far sapere a La Stampa, è «capofila di un progetto che vedrà l'industria della Difesa ucraina sviluppare la sua produzione in Danimarca». Sarebbe curioso sapere, vien da chiedersi, se in tale industria verranno impiegati lavoratori ucraini spalla a spalla con quelli locali e quale prospettiva attende i lavoratori danesi che, nel caso, si troverebbero a subire le conseguenze di una concorrenza al ribasso nella catena di montaggio.
Ma la guerra incalza: “tra cinque anni, o forse anche prima”, si sottintende con Andrius-Merlino-Kubilius, “la Russia attaccherà un paese europeo, o forse più di uno”; dunque, ecco che Ursula-De Mon-Leyen esorta anche «gli altri stati membri a copiare “l'approccio rapido e mirato della Danimarca” perché “è questa la mentalità che ci serve ora: una mentalità di urgenza”». Che dunque «gli Stati usino i prestiti di Safe non solo per loro, ma anche «per comprare dotazioni militari e darle all'Ucraina oppure per investirli nell'industria militare di Kiev».
Tutto il resto, con cui sono riempite le pagine de La Stampa del 4 luglio, come il signor Paolo Gentiloni che sparge lamentazioni su «l'invasione russa, che un quarto di paesi europei vivono come un rischio per la propria integrità territoriale» – di nuovo: Merlino-Kubilius profetizza – o versa lacrime su quel modello insuperato (anzi: forse oggi già sorpassato) di guerrafondaio che fu il «compianto John McCain, oppure sul «destino dell'Ucraina da cui dipende quello dell'Unione» - tutto questo, non sono, appunto, che vuote lamentazioni farisee, sul solco della militarizzazione della sfera sociale voluta da chi punta alla guerra.
E quei lamenti fanno il paio coi rimpianti del signor Gabriele Segre perché ci fu un tempo in cui tutti loro, quei signori, potevano «contare sull'ordine garantito dagli Stati Uniti», con «decenni trascorsi sotto l'ombrello americano, nella convinzione che i valori della democrazia liberale avrebbero finito per conquistare tutti»... Fingono di scordare, quei signori, che la pace, della cui mancanza blaterano oggi di rammaricarsi, non era fondata «sull'ordine garantito dagli Stati Uniti», bensì sull'esistenza di un campo socialista e, soprattutto, di una forte (per quanto ideologicamente ormai malata) Unione Sovietica, pronta per decenni a dare l'altolà alle mire imperiali e neocoloniali euro-americane in giro per il mondo? Nel caso se lo siano scordati, glielo ricordiamo qui.
Per il resto, per quanto riguarda lo specifico della sospensione delle forniture yankee ai nazigolpisti d Kiev, rimane da vedere quale gioco Donald Trump stia realmente imbastendo. Per il momento, Mosca va all'incasso. Poi si vedrà...