Una politica non addomesticabile contro la solidarietà spettacolare

È la restaurazione sotto forma di indignazione rituale.

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Una politica non addomesticabile contro la solidarietà spettacolare

 

di Pasquale Liguori

L’indignazione che si fa coreografia non accade per ingenuità o semplice debolezza: è un esito strutturale. Si parte da una spinta reale - la volontà di interrompere, seppur tardivamente, una macchina di morte sostenuta dai nostri governi - e si arriva a forme di solidarietà preconfezionate, perfette per il ciclo delle immagini: flottiglie celebrabili, neo-eroine e neo-eroi onnipresenti in tv e social, raccolte di firme, lenzuola, hashtag sincronizzati, lampadine casalinghe spente e accese.

L’impeto iniziale viene tradotto in un linguaggio compatibile con l’ordine che si vorrebbe scalfire. Il gesto che nasce per aprire una frattura diventa “segno” che rassicura tutti: chi lo compie (“stiamo facendo qualcosa”), chi lo racconta (“c’è fermento civile”). E, soprattutto, chi governa (“la democrazia respira”). Il gesto che avrebbe dovuto incrinare la complicità diventa al contrario il meccanismo di ri-legittimazione dei governi occidentali, offrendo loro la possibilità di “sdegnarsi” a basso costo, di prendere le distanze dal governo israeliano di turno, senza mai intaccare l’alleanza strutturale con il progetto sionista, coloniale e imperiale. In questo gioco, le iniziative spettacolari non solo non danneggiano, ma aiutano l’ordine a riposizionarsi: lo liberano dall’imbarazzo della complicità evidente e lo riconsegnano come partner “critico” ma fedele. È la restaurazione sotto forma di indignazione rituale.

Il meccanismo è così congegnato: sottrae peso materiale all’azione e le consegna un surplus di visibilità. La misura del successo non è lo spostamento dei rapporti di forza, ma la capacità di captare attenzione. Si interiorizza il paradigma “morbido” del consenso che amministra l’affetto e depotenzia il conflitto. Intanto i nodi concreti restano intatti: denaro e filiere, armi, logistica, accademie e imprese coinvolte. La protesta viene normalizzata come rito civile, con regole implicite: essere presentabili, misurabili, raccontabili. Il risultato è una cittadinanza che protesta “nel modo giusto”, e dunque innocua.

Questa innocuità, del resto, ha radici precise. Si manifesta in masse che per mesi sono state silenti o che, all’indomani del 7 ottobre, hanno soavemente avallato la tesi di una sanguinaria vendetta di Israele come ineluttabile diritto all’autodifesa. Il successivo cambio di rotta sui social e sui media è un “viraggio spettacolare” che testimonia più la comodità di accodarsi a una maggioranza percepita che una reale maturazione politica. L’esito probabile è un’iniziativa comunemente affetta da de-storicizzazione fatale: magari, nell’ambito che vien creandosi, non rara è la convinzione che l’oppressione sionista abbia iniziato a manifestarsi solo a partire da ventiquattro mesi fa e che, solo ora, superata una certa soglia di disgustosa tolleranza, si possa parlare senza tema di smentita di genocidio dei palestinesi, ignorando la struttura coloniale che lo precede e lo prepara.

In tutto ciò, il paradosso è che anche settori più radicali, all’inizio refrattari a ogni addomesticamento, stiano aggregandosi a tali formati: l’evento prevale sul processo. L’evento è rapido, replicabile, mediabile; il processo è lento, conflittuale, opaco; non garantisce immagini edificanti. L’evento offre sollievo: restituisce un subito di agenzia, senza dover tessere una trama organizzativa esigente. Nasce così una solidarietà che consola: lenisce l’impotenza mentre la riproduce.

Non è un inciampo casuale. La nostra epoca ha imparato a governare le condotte dosando visibilità e sicurezza come tecniche di direzione: percorsi obbligati, rating reputazionali, popolarità, protocolli per i media. Anche il militante progressivamente addomesticato è tradotto in unità di misura: presenza certificata, contenuti pubblicabili e applauditi, engagement quantificabile. L’azione antagonista si scompone in gesti che Deleuze avrebbe definito “dividuali”, pacchetti di dati che devono performare bene entro piattaforme che, per costruzione, riciclano il dissenso nel circuito dell’attenzione. E così la domanda implicita non è più “che costo politico imponiamo?”, ma “quanto raggiungiamo?”. Il criterio slitta dalla forza alla portata, dal danno prodotto alla qualità estetica della testimonianza.

Nel frattempo, la macchina dell’eccezione - quella che normalizza l’emergenza permanente - allestisce un rituale ben preciso: la crisi si gestisce, non si interrompe. L’umanitario prende il posto del politico, l’aiuto sostituisce la responsabilità. Ci si appiglia a un lessico morale che rimuove i legami materiali economici, finanziari, bellici, accademici tra i nostri territori e la catena della guerra. In assenza di presa su questi nessi, la solidarietà si traduce in pura rappresentazione: una ribellione di facciata che si piega subito all’ordine.

D’altronde, occorre essere chiari su un punto: il merito di aver innescato questa spinta globale non è di un Occidente che si riscopre improvvisamente virtuoso. Il merito è unicamente della Resistenza palestinese. Con la sua fermezza materiale, con la capacità di colpire la macchina coloniale ha costretto un coacervo mondiale disinteressato, disinformato e orientato dalla quotidianità imposta da potere e consumo a dover prendere posizione. Il rischio, ancora una volta, è che i veri autori di questa indignazione – i palestinesi con la loro lotta e il loro sacrificio – non vengano ascoltati nell’insegnamento politico anticapitalista e antimperialista che producono, investiti da un’onda emotiva che essi stessi hanno generato ma che non controllano.

È qui che la parola Sumud viene travolta dal suo doppio di marca. Da una parte c’è l’ostinazione materiale di chi, sotto occupazione, tiene aperte scuole con mezzi di fortuna, coltiva superstiti lembi di terra, ricostruisce vicinati, interrompe i dispositivi della colonizzazione dove e come può; dall’altro la versione addomesticata per il consumo occidentale: racconto edificante, pulito, con una morale universale che non disturba i salotti. La prima costruisce infrastrutture di sopravvivenza e resistenza; la seconda costruisce audience. Nella prima, il baricentro è interno: priorità, tempi e linguaggi nascono dall’urgenza di chi subisce la violenza; nella seconda, il baricentro è esterno: il ritmo è quello delle nostre piattaforme e dell’onda dell’attenzione digitale.

Sul piano soggettivo, tutto questo alimenta un ciclo di impotenza riflessiva. Il rito non basta, ma viene continuato, perché è ciò che si ha a portata di mano, perché offrirsi come testimoni salva dallo sprofondo. La ricompensa arriva in forma di riconoscimento morale, micro-premi reputazionali, appartenenza a una comunità simbolica che lenisce e rassicura - una forma di “interpassività” direbbero Fisher, Žižek, “qualcosa agisce al posto tuo”. Intanto, la normalità catastrofica prosegue indisturbata: l’evento alleggerisce per un attimo il peso della realtà, poi riconsegna una quiete più facile da governare.

La chiave non è demonizzare ogni gesto visibile. La questione è la sua posizione nella catena strategica. Un simbolo può essere cerniera o tappo. È cerniera quando apre passaggi che consolidano capacità collettiva: reclutamento, formazione, mappatura dei nodi critici, alleanze operaie e studentesche, campagne nelle filiere. È tappo se si esaurisce nel suo apparire. Vale la regola empirica: se un’azione non impone vincoli a un soggetto complice, probabilmente offre soltanto sollievo a chi la compie.

Una politica non addomesticabile comincia allora da un cambio di metrica. Si valuta un’azione non per quante condivisioni genera, ma per il costo imposto a un attore concreto. Il cuore è la mappatura dei nessi: dove e come i nostri territori alimentano, proteggono, assicurano, legittimano l’architettura della violenza. Università con memorandum attivi, laboratori con commesse dual-use, flussi finanziari, assicurazioni sulle rotte commerciali, porti, hub aeroportuali, fiere dell’aerospazio e delle armi, export control elastico: ogni nodo è un varco. L’obiettivo è convertire la solidarietà dal racconto all’interdizione: inceppare procedure, complicare autorizzazioni, bloccare sponsorizzazioni, cancellare partnership, innescare contenziosi, rendere insomma tossica la complicità.

Questo lavoro richiede organizzazione, non entusiasmo intermittente. Organizzazione significa continuità, disciplina, catene di trasmissione tra chi studia e chi agisce, tra luoghi di formazione e luoghi di lavoro, tra studenti, ricercatori, tecnici, sanitari, operatori della logistica. Significa sostituire alla brandizzazione del militante la responsabilità di un collettivo. Significa costruire istituzioni antagoniste - non palazzi paralleli, ma abitudini, strutture, strumenti - capaci di durare oltre l’evento e sedimentare potere.

La flottiglia che assorbe tutte le risorse narrative diventa lo spettacolo che consente ai governi di attendere che l’onda mediatica passi. Serve un calendario fronte/retro: azioni visibili calibrate per aprire canali e lavoro invisibile che li percorra fino in fondo. La politica rientra quando si riducono gli spazi della “buona coscienza” e aumentano quelli della responsabilità.

C’è un’altra conversione da compiere: una presa di distanza dall’umanitario innocuo. Non “aiutiamo chi soffre”, ma “interrompiamo la nostra complicità”. È un cambio di soggetto e di verbo. Il peso si sposta dal sentimento all’atto, dalla compassione al vincolo. Ne discende un lessico più asciutto, meno edificante, più esigente: capacità di dire anche “questo non ha funzionato, cambiamo metodo”. La severità non è cinismo: è l’antidoto al fatalismo spettacolare.

Infine, la questione dello sguardo. Se il baricentro resta nel pubblico occidentale, continueremo a domandarci come renderci presentabili. Se il baricentro si sposta sui bisogni e sui tempi di chi resiste sul terreno, allora la presentabilità diventa irrilevante. La solidarietà non “parla per”: si mette a disposizione. Non detta l’agenda: connette le leve locali a un disegno più ampio. Questo riduce l’ansia da performance e accresce la responsabilità: non si tratta di raccontare bene, ma di servire bene.

Tale approccio non cerca consensi, ma crea attriti. E il conflitto è il segno che si sta incidendo sulla realtà materiale, non sulla sua rappresentazione. Mentre il gesto spettacolare si esaurisce nell'apparenza, l'azione politica costruisce coerenza collettiva. L'obiettivo, quindi, è l'efficacia strategica: diventare un ostacolo non aggirabile. Di fronte a questo, lo spettacolo conclude la sua effimera esperienza: semplicemente, dissolvendosi.

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