Venezuela, 2002. Il golpe di aprile visto dall’Europa

Venezuela, 2002. Il golpe di aprile visto dall’Europa

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Analizzando alcuni elementi chiave del golpe contro Chavez, l’11 aprile del 2002, si capisce perché sia legittimo considerare il Venezuela bolivariano un paradigma del secolo XXI. La dinamica di preparazione, esecuzione e gestione internazionale di quel colpo di stato costituisce infatti un laboratorio, un condensato e un monito che travalica la realtà venezuelana. Aver potuto osservare quel punto di svolta dall’interno dei media europei, ci ha consentito di toccare con mano la costruzione del crescendo di menzogne, alimentate ad arte, che serviranno poi a coprire la gestione del golpe. Bombe mediatiche lanciate, secondo un piano stabilito dai grandi poteri multinazionali contro la giovane Repubblica bolivariana del Venezuela. A quasi vent’anni da quei fatti, leggendo la nutrita produzione, sia saggistica che testimoniale, frutto di inchieste giornalistiche o giudiziarie, emerge in modo incontrovertibile la verità dei fatti: quella dello scontro di interessi che ha portato e che porta a distorcerla, mettendola al servizio di chi agisce per soffocare le ragioni dei settori popolari, in nome del “pluralismo dell’informazione”. Uno “schema” che ancora funziona, essendo le grandi concentrazioni mediatiche un’appendice esecutiva che sostiene e alimenta la concentrazione monopolistica a livello economico. Come avviene oggi con la versione dei golpisti venezuelani, egemone sui media europei perché imposta dai grandi media internazionali, si diffondeva allora l’interpretazione voluta da Washington e confezionata dai media privati venezuelani: dagli Stati Uniti all’Europa passando per la Colombia e con un punto di principale rielaborazione nel quotidiano spagnolo El Pais. Nel Venezuela di allora, la lotta contro il latifondo mediatico era solo all’inizio, e proprio dalla “lezione” di aprile, emergerà la forza dei media alternativi, del “giornalismo da strada”. Nel 2001, le due principali emittenti televisive private venezuelane, RCTV (parte attiva nel golpe) e Venevision occupavano oltre il 30% del mercato ciascuna. I media rispecchiavano il potere economico-politico dei grandi gruppi familiari nel loro intreccio con i conglomerati economico-finanziari a livello internazionale. Stavano assumendo spazio anche le organizzazioni dei cosiddetti giornalisti “indipendenti”, come Reportes sans Frontières, smascherati in quanto megafoni della Cia. L’arroganza dei media privati arrivò fino alla costruzione di una falsa intervista a Ignacio Ramonet, per far credere che avesse smesso di sostenere la rivoluzione bolivariana, muovendo le stesse “critiche” che stavano legittimando il golpe in Venezuela. Fin dall’inizio, i media assunsero il ruolo di attori politici nel conflitto, usando tutto l’armamentario della peggiore “guerra fredda” contro il “castro-chavismo”. Argomenti che fecero presa in un’Europa dove il racconto dei vincitori sulla storia del Novecento si era già inserito nella deriva conclamata dei partiti della sinistra. Appariva chiaro già allora il loro divorzio da un progetto riformista conseguente, che contemplasse la necessità di cambiamenti strutturali a favore dei settori popolari e la necessità di forzare per questo i limiti delle compatibilità capitaliste. Altrimenti, avrebbero dovuto guardare con interesse all’embrionale socialismo di Hugo Chavez, che scommetteva di depotenziare dall’interno i meccanismi dello Stato borghese, basandosi principalmente sul consenso e impiegando solo una cifra minima di coercizione. I 49 decreti legge promulgati da Chavez a novembre del 2001 non abolivano la proprietà privata, né tantomeno mettevano fuori legge la borghesia, né prevedevano una vera e propria rivoluzione economica, di certo intaccavano privilegi e interessi determinanti per il grande capitale internazionale: in particolare la Ley de Tierras e la Ley de Hidrocarburos. La prova d’orchestra del golpe, fu lo sciopero padronale del 10 dicembre 2001, convocato da Fedecamaras e sostenuto dalla CTV nel giorno in cui Chavez avrebbe promulgato la Ley de Tierra in un luogo simbolico come Santa Inés di Barinas, dove Ezequiel Zamora vinse l’oligarchia a metà del secolo XIX. E lì emerse la figura di Carmona Estanga, presidente del sindacato padronale, come figura principale della cospirazione in corso. Il 5 marzo, venne presentato il documento programmatico del golpe, il cosiddetto Pacto de la Esmeralda, firmato dai massimi dirigenti di Fedecamaras e CTV e benedetto dalle gerarchie ecclesiastiche. Un sostegno che venne immortalato dalla foto del sacerdote Luis Ugalde, che univa trionfante le sue mani a quella di Carmona Estanga e del sindacalista Carlos Ortega. Per l’occasione, quest’ultimo dichiarò: “Consideriamo imminente l’uscita del signor Chavez dalla presidenza”. I media privati enfatizzarono il plauso della CIA. Il 6 di marzo, un documento in 125 punti della massima direttiva di Pdvsa, mostra la portata del conflitto aperto dalla decisione di Chavez di sostituire i vertici dell’impresa petrolifera, diventata “uno Stato nello Stato”. Da lì a poco, cominceranno i sabotaggi, la distruzione dei documenti, le manifestazioni interne all’impresa, il blocco della raffineria El Palito, a Carabobo, con la conseguente scarsità di benzina nella capitale: le ultime prove del golpe, compiute in tandem tra CTV e Fedecamaras che decide persino di pagare le giornate di sciopero…

Il 23 marzo del 2002, in Italia si svolse una gigantesca mobilitazione sindacale contro lo smantellamento di un altro importante pezzo dei diritti del lavoro, l’articolo 18. Eppure, il principale sindacato della sinistra, la CGIL, ancora il 16 aprile del 2002, espresse solidarietà alla CTV, che andò a braccetto di Fedecamaras nel golpe contro Chavez, ma con la quale la confederazione sindacale italiana manteneva contatti organizzativi a livello internazionale.

Nei giorni del golpe, prese anche corpo l’enfatizzazione della cosiddetta “società civile” per nascondere la vera natura delle marce pilotate contro Chavez dal sistema di potere tipico della IV Repubblica. Sia per una “sinistra” convinta che non esistano alternative al capitalismo, come per l’imperialismo nordamericano, risultò da allora impossibile da capire la forza del popolo, organizzato e cosciente. Un popolo che, dopo aver riportato a Miraflores il suo presidente, seppe resistere alla lunga serrata petrolifera padronale, e continua a difendere la rivoluzione bolivariana dal 1998 a oggi.

La serrata petrolifera padronale, durata da dicembre 2002 a febbraio 2003 provocò la perdita di oltre 20.000 milioni di dollari. Si seppe anche che l’impresa Intesa, creata dalla SAIC per il 60% e da Pdvsa per il 40% delle azioni, controllava il “cervello di Pdvsa”, ed ebbe gioco facile nel dirigere il sabotaggio informatico. SAIC era gestita dagli Stati Uniti e contava tra i suoi amministratori delegati, alti comandi militari ed ex direttori della CIA. In modo analogo, verrà diretto il gigantesco sabotaggio elettrico del marzo 2019. Ma, allora come ora, la rivoluzione bolivariana è riuscita a resistere con la forza del popolo, lanciando a chi lotta il suo messaggio di speranza: “A cada 11 le sigue su 13”. A ogni 11, segue il suo 13.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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