Violenza sulle donne: perché la propaganda mainstream vince facile

Violenza sulle donne: perché la propaganda mainstream vince facile

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di Luca Busca


Raramente una tematica suscita un fervido dibattito a “sinistra” come ultimamente è accaduto intorno alla questione femminile. Va premesso che con il termine “sinistra”, in questo contesto, tenderei a identificare quella vasta area di dissidenza al neoliberismo che va dai delusi dal voto, né di destra né di sinistra, ai “rossobruni” (termine odioso ma purtroppo appropriato in alcuni casi), dai vetero ai neo comunisti, dagli anarchici ai pacifisti, dai collettivi femministi a quelli della famigerata comunità LGBTQ+. In sostanza la sinistra un po’ persa, un po’ nostalgica ma che ancora crede in quei valori che sono incompatibili con il neoliberismo. Quella sinistra che ancora tenta di dissentire e di svincolarsi dal pensiero unico. Escludo quindi la cosiddetta sinistra di regime ormai schiava della cultura “woke” e, ovviamente, tutto il pensiero destrorso che, anche quando dissente, finisce per essere neoliberista, autoritario, gerarchico e repressivo.

Bene questa sinistra è riuscita a infiammarsi, non per una nuova proposta politica che ormai latita da diversi decenni, ma per la violenza sulle donne. Tema questo su cui si è frammentata nei consueti piccoli pezzettini isolati tra loro. Anche io ho detto la mia, rivolgendomi a quell’ampia schiera destrorsa che, tra governo e illustri pensatori come il Generale Vannacci, sta tentando di allungare le minigonne e rinchiudere le donne in casa nel loro ruolo di mamme. Purtroppo il titolo, "mai discutere con un idiota ti porta al suo livello e ti batte con l'esperienza", ha indotto più di un lettore di sinistra a immedesimarsi. Sfortunatamente, infatti, il fervido dibattito, suscitato da una campagna mediatica mainstream che ha fatto invidia a quella pandemica, ha prodotto una miriade di pareri diversi, alcuni dei quali di stampo palesemente conservatore.

Questa pletora di posizioni possono essere così riassunte:

  1. Indignazione nei confronti del patriarcato che, ancora nel terzo millennio, è causa della violenza nei confronti delle donne.
  2. La famiglia patriarcale è morta, però la violenza sulle donne resta a un livello troppo alto.
  3. La violenza sulle donne è una questione che non esiste, non c’è differenza tra uomini e donne, anzi in molti casi è l’uomo a subire le conseguenze più gravi della violenza del regime: carcere licenziamento, etc.
  4. Il problema della violenza sulle donne è irrisorio rispetto ad altri massacri epocali che stanno avvenendo in questi giorni.
  5. La questione femminile è ormai un problema marginale, viene sfruttata dai media di regime come arma di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione dai problemi reali del momento e mantenere lo stato emergenziale perpetuo.
  6. La violenza sulle donne è una conseguenza della perdita dei valori e della “fluidità” sessuale che caratterizza l’epoca contemporanea.
  7. La questione femminile non esiste è solo un invenzione della propaganda di regime per istigare la criminalizzazione del maschio e la guerra tra i sessi.

Chiedo venia se dovessi aver dimenticato qualche riflessione particolare o aver travisato il pensiero di qualcuno, ma la sintesi è d’obbligo in questi casi. Con la solita lucidità, la questione femminile è stata analizzata anche dal Prof. Andrea Zhok in un lungo post sul suo canale Telegram, rilanciato da Sinistrainrete: patriarcato e guerra tra i sessi. Già dalla premessa appare chiara la sua posizione: “Ci sono temi più importanti e preferirei tacere su tutto il circo che è partito dalla vicenda dell’ultimo omicidio volontario di una donna.” Per avvalorare la tesi “che l’interpretazione ufficiale degli eventi delittuosi aventi per oggetto donne ha subito da tempo un sequestro ideologico.” Un sequestro che tende, con la solita campagna mediatica a tappeto, ad attribuire le responsabilità a “espressioni di un’atavica, arcaica (patriarcale), concezione subordinante della donna che la concepisce come una proprietà, un oggetto a disposizione, e che perciò non ne accetta l’indipendenza e la punisce con la violenza e persino con la morte.”

Per dimostrare l’inesistenza di questi residui patriarcali il Prof. Zhok analizza prima “l’unico senso antropologicamente accettabile della nozione di «patriarcato»” giungendo all’inevitabile conclusione che “questa forma sociale con il mondo occidentale odierno ... non c’entra assolutamente nulla”. In secondo luogo osserva che “Se il problema delle violenze si radica nei residui patriarcali in una qualche versione, allora i paesi che hanno società maggiormente modernizzate, con minori vincoli famigliari e con una posizione di maggiore indipendenza delle donne dovrebbero essere esenti da questo problema, o almeno presentarlo in misura molto minore.” E le statistiche gli danno completamente ragione: “Se guardiamo alle violenze domestiche vediamo che (dati di un paio di anni fa) i primi paesi per denunce di violenza subita dalle donne sono quattro paesi proverbialmente emancipati: Danimarca (52% delle donne lamentano di aver subito violenza), Finlandia (47%), Svezia (46%), Olanda (45%), in coda classifica in Europa troviamo la Polonia (16%).”

“Per un confronto numerico (2019), l’Italia presenta un dato di 0,36 “femminicidi” ogni 100.000 abitanti, la Norvegia 0,61, la Germania 0,66, la Francia 0,82,la Danimarca 0,91, la Finlandia 0,93, la Lituania 1,24. Ora, cosa hanno in comune Italia, Irlanda, Grecia? Non molto, salvo il fatto di essere tutte società con un ruolo tradizionalmente molto forte delle famiglie, società di cui spesso si è lamentata la limitata modernizzazione, anche per il peso significativo delle istituzioni religiose.” La conclusione è che la violenza scaturisce, non da residui di patriarcato ma dalla fragilità di una generazione che ha perso i suoi punti di riferimento. Un mondo fatto di “contesti dove le forme famigliari sono dissolte o in via di dissoluzione, dove i giovani crescono educati più da tik-tok e dai video trap che dalle famiglie, società dove peraltro da tempo la figura del padre latita ed è spesso definita dagli psicologi come effimera.”

Il fenomeno che emerge, sia leggendo il post del Prof. Zhok sia dalle sette posizioni da me elencate, è la diffusa sfiducia nella comunicazione mainstream. Inoltre, leggendo attentamente le statistiche di cui sopra, pur se senza fonte, fanno emergere dati estremamente preoccupanti in materia di violenza sulle donne. Infatti, il 52% delle donne danesi significa oltre 1,5 milioni di donne che hanno subito violenza; il 47 della Finlandia circa 1,3 milioni; Svezia 2,4 milioni; Olanda quasi 4 milioni. Il confronto con l’Italia si concentra invece esclusivamente sui femminicidi per evitare, forse, la spaventosa enormità delle cifre relative alla violenza.

Nel mio precedente intervento riportavo questi dati aggiornati al 2022 rilevate dall’Istat: “Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855 mila) da partner attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex partner. La maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%). In particolare, per il 41,7% è stata la causa principale per interrompere la relazione, per il 26,8% è stato un elemento importante della decisione.” (Fonte istat.it-violenza-sulle-donne)

Nell’analisi del Prof. Zhok manca poi l’esame degli autori degli atti di violenza. Per far felici i teorici della tesi numero tre, sono andato a cercare anche gli atti di violenza nei confronti degli uomini ed è emerso che l’87% di questi è commesso da uomini. (Fonte lanternaweb.it-violenza-sugli-uomini). Facendo una media ponderata risulta che circa il 95% degli atti di violenza sono compiuti dal “sesso forte”. Per quanto riguarda gli omicidi in genere sempre l’Istat rileva che: “Nel 2022 si sono verificati 322 omicidi (+6,2% rispetto al 2021): 126 donne e 196 uomini. Cresce il numero di uomini uccisi da sconosciuti (0,37 per 100mila maschi; 0,27 nel 2021) e di donne uccise da parenti (0,14 per 100mila donne, 0,10 nel 2021). Nei casi in cui si è scoperto l’autore, il 92,7% delle donne è vittima di un uomo, mentre nel caso la vittima sia un uomo nel 94,4% dei casi l’omicida è un uomo.

Così viene anche smentita la parità di genere in materia di “cattiveria” e la predilezione nell’uccidere le donne, che però mostra un’altra particolarità. Infatti, il grafico qui accanto, sempre dell’Istat, illustra come, dal 1992 ad oggi, a fronte di un fortissimo calo degli omicidi con vittime maschili, quelli con vittime femminile sono diminuiti in maniera molto meno consistente.

Ora la disparità così eccessiva nell’esercizio della violenza meriterebbe un’analisi più approfondita per comprendere a fondo le origini culturali di questo stato di cose. Sicuramente il patriarcato non centra nulla, certamente non si tratta di maschilismo ma è evidente che c’è un problema di “gender gap”. La prima analisi da fare è quindi sull’età delle vittime cui in genere corrisponde una maggiore del carnefice: “La maggior parte delle vittime ha un’età compresa tra 31 e 44 anni (37% nel periodo 2019 e 36% in quello 2020), seguono quelle tra i 18 e 30 anni (23% nel 2019 e 22% nel 2020). Il che significa che il 40% delle vittime ha meno di 18 anni o più di 44. Fatto che dimostra come “i giovani [che] crescono educati più da tik-tok e dai video trap che dalle famiglie” costituiscono solo circa il 25% del problema, includendo le minorenni tra le vittime ed escludendo le quasi trentenni, vittime di uomini più che adulti. Inoltre, “In merito alla nazionalità, la percentuale di vittime italiane oscilla tra l’81% del periodo 2019 e l’80% del periodo 2020.” (Fonte, per entrambe le citazioni, scusate se non ho trovate quelle Istat aggiornate, claudiamorelli.it-dati-e-numeri-della-giustizia-femminicidio). Dimostrazione, quest’ultima, del fatto che circa il 20% dei femminicidi affonda le proprie radici culturali anche in forme diverse da quelle italiane e occidentali.

Un’altra opinione piuttosto comune tra la dissidenza riguarda l’ipotesi che la propaganda ingigantisca la questione femminile al fine di criminalizzare il maschio e alimentare la “guerra tra i sessi”. La sfiducia ormai generalizzata nei confronti dell’informazione mainstream, induce chi dissente a teorizzare complotti nascosti nella fitta trama dei mantra ripetitivi dei media tradizionali. Così è nata un’inesistente caccia al maschio da parte di streghe, addirittura convertite e in combutta con il potere. In realtà i dati sopra esposti attestano un’indubbia predisposizione maschile alla violenza, anche se i reati contro la persona sono in calo progressivo già da diversi anni.

Nonostante questo, sembra proprio che alcuni retaggi culturali del passato fatichino ad essere dimenticati, come comprovato dalle vendite strabilianti del libro di Vannacci e da alcune smanie della dissidenza di “sinistra” in merito al recupero di una figura maschile più stabile e meno fluida. Anche in questo caso le statistiche aiutano: l’Istat ha rilevato, nel 2023, che “il 48,7% degli intervistati ha ancora almeno uno stereotipo sulla violenza sessuale. Il 39,3% degli uomini pensa che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e quasi il 20% pensa che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle donne.” (Fonte istat.it). Ora, non sia mai che questi stereotipi possano essere considerati figli del patriarcato ormai morto e sepolto, ma almeno un piccolo residuo di maschilismo sembra proprio essere sopravvissuto. Quindi niente guerra tra i sessi, niente rieducazione forzata per l’intero genere maschile, ma almeno cerchiamo di aggiornarci culturalmente sui diritti in merito ad abbigliamento e sessualità femminile!

In sostanza, ridurre la questione della violenza sulle donne al solo femminicidio è la solita “reductio ad unum” usata dalla propaganda mainstream per condizionare l’opinione pubblica. Come ho scritto nel precedente articolo, il femminicidio “è solo la punta emersa dell’iceberg sommerso della violenza domestica”. 6 milioni 788 mila donne tra i 18 e 70 anni, cui vanno aggiunte le non poche minorenni, che hanno subito una qualche forma di violenza, rappresentano un fenomeno così ampio e strutturato che necessariamente investe più cause distinte. Discorso questo, applicabile sia alla tesi dell’informazione mainstream, rinchiusa nel suo patriarcato, sia a quella della dissidenza, imprigionata nella negazione di forme pregresse di maschilismo.

Ad un così consistente numero di vittime corrisponde un altrettanto corposa quantità di “carnefici”, per il 95% uomini che uccidono, violentano, stuprano, picchiano, molestano, segregano, etc. le donne. Gli autori di questi variegati soprusi sono sì giovani educati da tik tok, ma sono anche padri latitanti, mariti attempati, adulti narcisisti e possessivi. Raramente sono anche patriarchi fuori tempo massimo che, pur di non perdere il loro ruolo, non esitano a sterminare la propria famiglia (strage di Latina del 2018). Per non parlare di coloro che nel patriarcato vivono ancora per formazione culturale, come il padre di Saman Abbas che uccise la figlia di 18 anni nel 2021.

La questione della violenza sulle donne è palesemente più complessa e articolata di quello che appare e stupisce la superficialità con cui viene trattata dalla dissidenza di sinistra, di destra e né di sinistra né di destra, così come dalla propaganda mainstream. Quest’ultima impegnata, come sempre più spesso accade, nella morbosa spettacolarizzazione del dolore e della “pornografia della morte”. Questa strana comunità di intenti può trovare una spiegazione solo per mezzo di una profonda analisi dell’unico elemento su cui la dissidenza concorda: la critica all’informazione mainstream ormai priva di qualsiasi credibilità.


Perché la propaganda mainstream vince facile

Come già successo con la pandemia, con la guerra ucraina, con la questione palestinese e con i cambiamenti climatici la propaganda di regime si è avvalsa delle nuove tecniche di “storytelling” ben illustrate da Luigi Sorrentino nel suo “il codice della narrazione globale”, di cui consiglio vivamente la lettura. L’autore codifica i dodici punti, poi estesi a quindici, del Branded Content, termine con cui si definiscono quei contenuti multimediali che, pur privi di un messaggio pubblicitario evidente, hanno come fine quello di promuovere un brand con mezzi ancor più efficaci della pubblicità tradizionale.

“La chirurgia con la quale le nuove forme di narrazione mediatica, ottengono risultati e ritorni economici per aziende, marchi ed organizzazioni, è diventata sconvolgente, tanto da richiamare la mia attenzione verso la similitudine, a volte speculare, con le narrazioni emergenziali politiche, climatiche, economiche e sanitarie da parte degli organi competenti.” (Luigi Sorrentino – il codice della narrazione globale – l’AD Edizioni – ottobre 2023). I quindici punti del Branded Content si differenziano poco dai concetti espressi chiaramente da Noam Chomsky ne “La Fabbrica del Consenso” del 1988. Il fine è il medesimo, a cambiare sono alcune sfumature che però ne migliorano di molto l’efficacia, grazie alla creazione di uno “storytelling” molto più credibile perché occulta il prodotto che si vuole vendere nella realtà.

La differenza fondamentale risiede nella “sparizione” di riferimenti diretti all’oggetto della promozione, sia esso un articolo da vendere o un opinione da inculcare nell’opinione pubblica. Lo scopo reale della campagna mediatica non appare mai in primo piano. La ripetizione pedissequa del mantra costruito per oscurare la realtà resta la stessa. Così come immutati risultano “la strutturazione dei media”, “la conoscenza del pubblico a cui ci si rivolge”, “l’identificazione dei valori che si vogliono promuovere”, “l’avvalersi di esperti (si fa per dire) competenti”, “l’elaborazione di contenuti facilmente riconoscibili dall’audience”, “la diversificazione dei contenuti secondo il canale mediatico usato”, “l’investimento costante nel coinvolgere il pubblico di riferimento in modo attivo e partecipativo (engagement)”. Si sono affinate molto le tecniche di costruzione di contenuti emozionali, quelle di “User Generated Content al fine della partecipazione diretta del pubblico”, “l’evitare il confronto per impedire l’indebolimento della narrazione”, nascondendo ogni forma di dissenso.

“Nascondere il prodotto e farlo emergere come risoluzione di una problematica ... Esprimere il punto di vista sul mondo, senza curarsi di perdere fette di popolazione nel mercato ... Viene creata quindi una narrazione che facilita il meccanismo del “Divide et impera”, (idem) tanto caro al potere. Queste invece, risultano creazioni abbastanza nuove rispetto alla sfrenata ricerca del consenso che imperava sino alla fine del secolo scorso. Il buon vecchio motto romano, sul quale ho scritto un lungo articolo (divide-et-impera-il-grande-complotto), è diventato il filo conduttore di ogni campagna mediatica mainstream. D’altra parte ogni qual volta si cerca di imporre una Verità assoluta si genera inevitabilmente una forma di dissenso. Gli “stackholder” di questa Verità tendono a generare da subito questo contrasto per evitare che il dissenso possa sfuggire al loro controllo.

Quando, circa quattromila anni fa, l’uomo creò il dio unico, fu costretto immediatamente ad ideare il suo antagonista, il diavolo, presso il quale collocare ogni forma di “male”, di dissenso. L’adesione al male, all’eresia, al dissenso diventava così una attestazione implicita dell’esistenza di dio, del bene e ne favoriva inesorabilmente la crescita. Le moderne tecniche di marketing dello “storytelling” hanno affinato questa tecnica, incrementando molto la capacità di dividere e imperare. Le narrazione delle nuove Verità assolute, come la gestione della pandemia, la guerra ucraina, l’inasprimento del conflitto palestinese, i cambiamenti climatici e la questione femminile, è avvenuta sempre mediante la paura e la creazione di uno stato emergenziale. Nella seconda fase sono state presentate e prescritte, anch’esse come verità assolute, le soluzioni migliori, esattamente come il dio unico che, una volta imposte le proprie regole, salvava i propri fedeli dalla morte con una vita eterna di pace e benessere, mentre relegava gli eretici e i dissidenti nell’abisso dell’inferno.

Lo storytelling occidentale è stato costruito in modo da presentare le proprie Verità assolute “senza curarsi di perdere fette di popolazione nel mercato”, perdite dovute ad alcune falle del racconto scientemente inserite. Infatti, il condizionamento pubblicitario funziona meglio quando si induce il pubblico, in questo caso l’opinione pubblica a poter scegliere da che parte stare. “Viene creata quindi una narrazione che facilita il meccanismo del “Divide et impera”, collocando il bene e il male su due fronti diversi, il cui conflitto finisce per certificare la validità della narrazione. Un finto libero arbitrio che colloca da una parte tutti coloro che vivono la costante esigenza di integrarsi, di conformarsi al pensiero dominante. Dall’altra gli eretici, i dissidenti, i Novax, i Filoputin, i Filohamas, i negazionisti dei cambiamenti climatici e quelli della violenza sulle donne.

Non solo ma lo storytelling così congeniato viene strutturato anche mediante “generalizzazioni linguistiche e invenzioni giornalistiche che come abbiamo visto e studiato non rispettano la realtà. Dividono i cittadini, che successivamente, si troveranno a emulare i propri influencer di riferimento, evitando il confronto logico a favore di un approccio fideistico e anti-scientifico”. (Idem). Sorrentino usa come esempi di generalizzazione linguistiche i termini “No Nuke, No Global, No Tav, No Tax, No Muos, No Tap, No Vax” che contengono tutti due importantissimi fattori. Quello comune a tutti è la negazione il no, cioè il male. Il secondo elemento è la tesi dello storytelling che viene sostanzialmente convalidata dalla sua negazione. L’esistenza del male sancisce l’inesorabilità del bene. Molto spesso queste generalizzazioni linguistiche dal forte impatto emotivo raccolgono successi anche presso la dissidenza che le adotta.

Questo processo, sempre indotto dallo storytelling, finisce per dividere ulteriormente gli eretici in piccoli gruppi, ognuno dei quali è privo di una narrazione alternativa credibile e, quindi, in grado di amalgamarsi con le altre. Questa divisione diviene così la certificazione definitiva della plausibilità della Verità imposta.

Per spiegare il funzionamento del Branded Content Sorrentino prende ad esempio la Red Bull, trasformata, almeno all’apparenza, in un editore di contenuti multimediali ad alto impatto emotivo e in organizzatore di eventi di sport estremi. È difficile trovare la promozione del prodotto in entrambi i casi, ma con questa strategia la Red Bull è arrivata a coprire, ad oggi, il 44% del mercato delle bevande energetiche. Per spiegare, invece, il doppio fine che lo storytelling di regime si prefigge e spesso raggiunge, si può prendere ad esempio la “guerra” in atto da oltre un secolo tra Coca Cola e Pepsi Cola. La pubblicità moderna è nata e cresciuta sulle spalle di questo confronto, cambiando spesso strategia sino ad arrivare ad oggi e al neuro-marketing. Ripercorrendo il lungo cammino delle due aziende emerge la costruzione di due narrazioni in contrapposizione tra loro. La Pepsi dedita alla modernità, la Coca Cola alla tradizione, l’innovazione per la prima e la tradizione per la seconda, la gioventù esuberante e la famiglia felice.

Il risultato di questo finto conflitto è stato quello di riuscire insieme a conquistare, allo stato attuale, il 72% del mercato statunitense delle bibite e il 36% di quello mondiale. Il mondo intero, inclusi quelli che non le bevono, si divide in tifosi della Coca Cola o della Pepsi Cola. Lo storytelling dei regimi neoliberisti agisce nello stesso modo: la narrazione è una sola ma presenta quelle lacune, quei difetti che finiscono per produrre un dissenso controllato intorno alla narrazione stessa. Lo sdoppiamento così creato distoglie l’attenzione dal prodotto promosso, che diventa allettante e spesso la soluzione migliore per entrambi i fronti. In sostanza il regime, attraverso lo storytelling emergenziale degli ultimi anni, non fa che tendere le sue trappole. Il prodotto da promuovere viene nascosto dietro una realtà altra, ad alto contenuto emozionale, in grado di confortare l’opinione pubblica fidelizzata con le proprie menzogne.

Contemporaneamente questa narrazione, agendo a livello emotivo, riesce ad appassionare per contrapposizione anche gli eretici, i quali, non vedendo il prodotto nascosto, puntualmente cadono nella trappola predisposta dalla propaganda di regime. Nella dissidenza si diffonde, così, la convinzione di aver scoperto la trama segreta di una qualche cospirazione, grazie al proprio acume di “risvegliati” in grado di vedere quelle tracce casualmente dimenticate dal regime di turno. Pretendere che un impianto di propaganda così “chirurgico”, com’è quello neoliberista e post-democratico, compia grossolani errori e crei “generalizzazioni linguistiche” così forzate in maniera casuale, è un palese segno dell’essere caduti in una trappola scientemente predisposta. Se le aziende, come la Red Bull e la Coca Cola, studiano e pagano i migliori esperti in materia di neuro-marketing per costruire le loro campagne branded content al fine di aumentare fatturato e utili, come si può pensare che le stesse corporation, peraltro in joint venture con i governi post-democratici, non facciano altrettanto per controllare il dissenso.

Il tema della violenza sulle donne è l’ennesimo esempio di questo modo di agire. La narrazione mainstream ha insistito sulla sopravvivenza del patriarcato come causa quasi esclusiva della questione femminile. Ha ripetuto in stile mantra per settimane la notizia di uno o più omicidi, ha giocato sulla paura e spettacolarizzato il dolore, ha colpevolizzato la figura maschile, inducendo così il dissenso a negare l’ennesima versione fallace dello storytelling di regime. In questo modo la trappola tesa ha funzionato perfettamente e ha raggiunto due obiettivi: il primo è quello di aver nascosto il prodotto promosso sia agli occhi dei propri fedeli sia a quelli degli eretici; il secondo è quello di aver contribuito ancora una volta a rendere il mondo sempre più liquido, togliendo l’ennesimo punto di riferimento alla dissidenza.

Il risultato è stato quello di aver indotto nella quasi totalità dei cittadini paura e bisogno di maggior sicurezza. D’altro canto ha screditato ulteriormente il dissenso accusandolo dello stesso doppiopesismo di cui è infarcito il regime e la sua propaganda. Infatti, un dissenso impegnato nella difesa dei diritti di chi non si vuole o non può vaccinarsi contro il Covid, delle donne e dei bambini Palestinesi e del diritto alla pace, diventa poco credibile se disconosce una sostanziale soppressione dei diritti della donna in materia di parità di genere, di molestie e ricatti sessuali e, non ultimo, il diritto alla libera scelta della maternità sancita dalla L. 194/78. Infatti, grazie allo storytelling di regime nessuno si è accorto che abortire in una struttura pubblica è diventata un’impresa tra le più ardue, a causa del collocamento di medici obiettori in tutti i reparti di ginecologia e maternità.

La parità di genere, ivi inclusa la comunità LGBTQ+, il diritto alla libera scelta in materia di cura così come di maternità, il diritto a non essere molestate, il diritto a una sessualità femminile libera e consenziente, il diritto a vestirsi come meglio si crede, etc. sono sempre stati punti fermi della dissidenza di “sinistra”, quella vera. Per cercare di ottenere questi diritti ci sono voluti secoli e il percorso è lungi dell’essere completato. Disconoscere questi valori significa perdere quei punti di riferimento che rendono solidale la dissidenza. Far diventare sempre più “liquido” il mondo (Zygmunt Bauman docet) è lo scopo principale dei regimi post-democratici neoliberisti. Obiettivo che raggiungono facilmente grazie all’azione del loro storytelling sulla dissidenza che, puntualmente, cade nelle trappole predisposte.

In sostanza il variopinto panorama dissidente ricorda da vicino una vignetta che girava un po’ di tempo fa, che recitava più o meno così: “eravamo in aula all’università a studiare l’esperimento di Ivan Pavlov sul condizionamento classico di un cane. Poi improvvisamente è suonata la campanella e siamo corsi tutti in mensa a mangiare.” Allo stesso modo la dissidenza, non appena il regime neoliberista fa squillare la tromba della propaganda woke, corre alla immediata ricerca delle falle scientemente inserite nello storytelling del momento. A nulla servono le esperienze passate, ogni volta il riflesso condizionato pavloviano agisce nel subconscio, determinando il conio di una teoria opposta alla narrazione ufficiale che, però, non include il prodotto nascosto e realmente promosso. Nessuno o quasi si rende conto che il conformismo dei fedeli, indotto dalle menzogne di regime, e l’opposizione dei dissidenti, determinata dalla scoperta di queste falsità, sono entrambi figli dello stesso storytelling, che è riuscito nel suo intento: nascondere lo scopo reale della campagna mediatica.

In questo modo il regime è riuscito ad “addomesticare” l’opinione pubblica conformista così come la dissidenza. Negli ultimi quattro anni questa strategia ha determinato lo svilimento di qualsiasi forma di dissenso, di protesta e di ribellione, nonostante i regimi neoliberisti postdemocratici abbiano raggiunto i livelli massimi, da settant’anni a questa parte, in materia di soppressione dei diritti umani, civili e sociali. In Italia, tra pandemia e due guerre, l’opposizione reale al regime, che attualmente è composto indistintamente da tutte le forze dell’attuale rappresentanza parlamentare, ha raccolto poche migliaia di partecipanti. Addirittura la protesta di piazza più riuscita ha visto l’adesione dei due partiti, il PD e il M5S, che per primi, insieme a Mario Draghi, hanno sostenuto la necessità di soffiare sul fuoco della guerra in Ucraina con l’invio di armi, evidenziando l’inesistenza di una dissidenza organizzata.

Questo è accaduto perché il dissenso, cadendo nella trappola dello stoytelling di regime, si è perso ogni volta dietro qualche teoria, indotta dal regime stesso con la propria narrazione emergenziale. Le infinite menzogne pandemiche hanno stimolato un numero pressoché illimitato di teorie complottiste. Ognuna di queste ha raccolto un po’ di seguaci, ha interagito con le altre e ha mandato qualche centinaio di persone nelle piazze a protestare. Qualcuno, forze politiche come Italexit, Sinistra Sovrana e Popolare, Vita, il CLN, ha cercato di amalgamare intorno a sé il dissenso contro l’uso del green pass e contro la vaccinazione, fallendo su tutta la linea per divisioni interne ma soprattutto perché privi di una proposta politica realmente antagonista a quella neoliberista. (Vedi anche luca-busca-gomblotto-come-le-fantasie-di-complotto-alimentano-il-regime)

Il successo del regime è stato totale, non solo non ha fatto nessun passo indietro in merito alle menzogne venute quasi interamente a galla, ma gongola nell’essere riuscito nell’intento inziale, quello di privatizzare sempre più la ricerca scientifica, rendendola dogmatica e finalizzata al profitto. La diagnosi e la gestione intera della Sanità sono state de-finanziate al punto da rendere indispensabile il settore privato. Processo, questo, avviato diversi anni fa da governi sedicenti di sinistra, perfezionato da quello Draghi e proseguito con quello Meloni. (Vedi anche lantidiplomatico.it-luca-busca-lurlo-di-rabbia).

Poi è arrivata la guerra in Ucraina con il suo “classico” storytelling: cancellazione dei fatti antecedenti; santificazione di una parte, anche se nazista, e demonizzazione dell’altra; omissione dei crimini del fronte “santo” e insistenza, ai limiti della pornografia, su quelli della parte demoniaca; necessità di difendere i valori, buoni, dell’Occidente contro il male, rappresentato dal totalitarismo di Russia e Cina. Principi, quelli “giusti”, che si identificano con la democrazia, quella esportata a forza di bombe; il cristianesimo in tutte le sue forme esclusa quella Ortodossa; la libertà, quella dei ricchi che esclude quelle di Assange e della stampa non allineata, dei migranti, dei Novax, dei lavoratori e dei poveri in genere.

Grazie a questa narrazione la dissidenza si è persa dietro improbabili tifoserie perdendo di vista l’obiettivo prioritario, la Pace, e quello secondario di individuare le cause reali della guerra, la necessità dell’Occidente di mantenere un’egemonia economica e politica che sta perdendo. Infatti, l’Impero Statunitense è entrato in una crisi economica sistemica che va avanti da circa venticinque anni. Grazie alla delocalizzazione della produzione e alla finanziarizzazione dell’economia, piccole e grandi crisi si sono accavallate senza soluzione di continuità. La prima è stata quella delle Dotcom, seguita dai mutui prime time, dettata dalla speculazione immobiliare, sostituita poi da quella sul grano, sul gas sull’etc., e infine il capolavoro delle sanzioni alla Russia e alla Cina che hanno devastato l’Europa. Crisi queste affrontate ogni volta, a suon di bombe e menzogne, in qualche luogo diverso del mondo dotato di risorse appetibili. Nessuna protesta pacifista è riuscita a influenzare il decorso di queste guerre.

Una delle più riuscite performance dello storytelling di regime è stata e continua ad essere quella dei cambiamenti climatici. Imponendo all’opinione pubblica una narrazione emergenziale circoscritta ai cambiamenti climatici, ha fidelizzato i propri discepoli e ha indotto il riflesso condizionato pavloviano nel dissenso. Questo si è così orientato prima verso la negazione trumpiana dei cambiamenti climatici e in seguito verso quella dell’origine antropica degli stessi. Nessuno si è accorto che il problema non sono le cause del cambiamento climatico quanto gli effetti di questi che, in virtù dei cambiamenti geomorfologici determinati dall’uomo, sono sempre più disastrosi per l’ambiente e per i suoi abitanti. Inoltre, l’Antropocene, è determinato da tanti altri fattori oltre all’emissione di CO2, a cominciare dal fatto che consumiamo più risorse di quelle che il pianeta è in grado di ricostituire. Così anche il punto fermo dell’ambientalismo è stato “liquidizzato”. (Vedi anche lantidiplomatico.it-cambiamenti-climatici-un-tentativo-di-analisi-logica)

Oltre alla parità di genere, dalla donna al transgender, alla pandemia, alle guerre, la dissidenza è caduta in tante altre piccole trappole come il transumanesimo in tutte le sue forme, il disconoscimento dei diritti della comunità LGBTQ+, così come quello delle minoranze etniche e di genere in quei paesi invisi ai regimi post-democratici. In sostanza, il riflesso condizionato pavloviano indotto in tutta l’area del dissenso, fa sì che, qualsiasi sia l’espressione dello storytelling di regime, la dissidenza la avversa immediatamente a prescindere dal valore espresso. In questo modo, il regime è riuscito a rendere “liquidi” tutti i punti di riferimento solidali dell’opposizione e insinuare in essa le contraddizioni tipiche del neoliberismo. (Vedi anche luca-busca-una-dissidenza-dissennata-dissipa-il-dissenso).

Nella lotta alle discriminazioni, ad esempio, il dissenso è ormai imbottito dello stesso doppiopesismo che caratterizza il potere contestato. Prende le difese dei diritti esclusivamente di chi è osteggiato dai regimi postdemocratici, dimenticando intere comunità etniche; le donne oppresse da regimi totalitari in materia di abbigliamento, libertà, lavoro, diritto a scegliere la maternità; i gay ancora perseguitati in una larga fetta di mondo; i migranti creati dalle politiche coloniali neoliberiste e i cui diritti sono tutti soppressi.

Inoltre, la dissidenza cade anche in un’altra subdola trappola. Come ben evidenzia Luigi Sorrentino analizzando l’opera del Prof. Ryan Lizardi, “...l’analisi delle narrazioni dei contenuti mediateci di massa, come serie TV, e film, ci fa notare come siano quasi tutti programmati e creati per farci vivere come in una «playlist nostalgica permanente individuale», orientata al passato, nostalgica di un passato mai vissuto e che mai potrà essere vissuto; vi è inoltre una focalizzazione su oggetti che riportano al passato. Si tratta di una caratterizzazione dell’amore per la morte, la necrofilia appunto.” (Luigi Sorrentino – Il codice della narrazione globale – l’AD Edizioni).

Questa playlist nostalgica dei media di regime è figlia del concetto di “fine della storia”, ideato da Francis Fukuyama, il cui intento è di convincere l’universo intero che la soluzione migliore, il neoliberismo delle post-democrazie, è già stata trovata ed è inutile cercare altre forme di un “mondo migliore”. In sostanza abolire il futuro in sorte di un perenne status quo. Il bombardamento mediatico in tal senso è stato così ben strutturato da ottenere pieno successo, l’opinione pubblica fedele ha aderito in pieno e la dissidenza è caduta nella trappola della negazione. Perdendo contatto con i propri punti di riferimento si è lasciata andare, costruendo una propria narrazione nostalgica dei “bei tempi andati”, quelli delle proteste operaie e studentesche degli anni sessanta e settanta, in cui cultura, empatia e solidarietà regnavano sovrane. Non solo, ha anche cominciato a teorizzare un ritorno alla famiglia tradizionale, ai valori cristiani e altre amenità di stampo conservatore, che finiscono per negare un futuro migliore ancor più della “playlist nostalgica” di regime.

Eppure per comprendere le ragioni dello storytelling di regime basterebbe leggere i diciassette Sdgs dello Sviluppo sostenibile fatti propri dall’Agenda 2030. Ben sette di essi sono dedicati all’abbattimento delle disuguaglianze, altri sei alla questione ambientale, uno alla pace. Gli altri tre, l’ottavo, il nono e il diciassettesimo sono vincolanti per ottenere le risorse economiche necessarie a realizzare gli altri quattordici, per la precisione si tratta di favorire la crescita economica, le partnership internazionali, l’innovazione e l’industrializzazione. In poche parole il manuale del giovane neoliberista.

Il problema è tutto qui: curare il male con la causa dello stesso. La crescita economica, la globalizzazione e l’innovazione perseguite dal modello Occidentale, così come da quello Orientale, sono incompatibili con l’abbattimento delle disuguaglianze, con la questione ambientale, con la pace. Per sopravvivere il neoliberismo ha bisogno di incrementare le disuguaglianze al fine di concentrare sempre di più i capitali per realizzare nuovi investimenti. Ha bisogno di sempre nuove risorse per inseguire il mito della crescita infinita a spese dell’ambiente. Ha bisogno dell’egemonia mondiale per dettare le sue regole e accaparrarsi i capitali e, ormai, questo predominio viene tutelato per mezzo delle guerre.

Lo storytelling Occidentale ha, sempre, come prodotto nascosto da promuovere la sopravvivenza del sistema neoliberista e la diffusione del credo fondato sulla “logica del profitto”. Chiedo perdono ai marxisti per l’uso di questo termine improprio, ma a mio parere il neoliberismo ha stravolto la regola del “plus valore”, riuscendo a produrre profitto anche al di fuori del meccanismo dato dal valore di scambio e il valore aggiunto. Per combattere questo mostro a tre teste, pertanto, è inutile continuare a “salivare” ogni volta che suona la campanella della propaganda. L’unica soluzione per combattere la “liquidità”, che il regime neoliberista sta diffondendo nel mondo, è quella di recuperare la solidità dei valori alternativi ad esso.

L’uguaglianza, ad esempio, ma quella che combatte tutte le discriminazioni senza fare differenze. La libertà, non data dal denaro ma quella uguale per tutti. La solidarietà, quella della “moltitudine” vessata da tutti i regimi, siano essi postdemocratici o totalitari. La scienza, quella dedita al benessere comune e non a soddisfare le esigenze di profitto delle corporation. Il pacifismo e l’antimilitarismo, contrari ad ogni tipo di conflitto armato. L’antibrobizionismo, per evitare che un divieto continui ad alimentare la logica del profitto sommerso, che tante connivenze crea con quella apparentemente legale. La difesa dei beni comuni; la cooperazione al posto della competizione ed etc. etc. etc.

Solo quando, intorno a questi valori, si costruirà una proposta politica concreta e antagonista al neoliberismo si potrà tornare a sperare in un futuro migliore.

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