Arabia Saudita, il colpo di stato di Mohammed bin Salam spiegato in modo semplice da Alberto Negri

Arabia Saudita, il colpo di stato di Mohammed bin Salam spiegato in modo semplice da Alberto Negri

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di Alberto Negri* - Sole 24 Ore
 

Il copione non è nuovo ma l'intreccio è sempre appassionante, fa scrivere fiumi d'inchiostro e agita i mercati portando i prezzi del greggio ai massimi da due anni e mezzo. Nei regimi mediorientali quando le cose non vanno bene, dentro e fuori, scattano le “campagne anti-corruzione” o di “rettifica” per far fuori gli oppositori interni dell'uomo forte del momento e lanciare un messaggio all'esterno. È quello che accade in Arabia Saudita dove sono stati messi agli arresti dozzine di principi della corona, eminenti uomini d'affari, ministri ed ex ministri. Tra questi, due personaggi chiave. Il primo è il miliardario al Waleed bin Talal, un patrimonio stimato in 19 miliardi di dollari, azionista importante di società come Apple, Twitter, Citigroup, Lyft e 21st Century Fox, in rapporti non propriamente idilliaci con Donald Trump.
 

Il secondo è Miteb bin Abdullah, capo della Guardia nazionale, istituzione chiave della sicurezza del regno, la guardia pretoriana del trono custode della Mecca e di Medina.
 

L’obiettivo è concentrare il potere in mano al principe ereditario Mohammed bin Salam, che è anche vicepremier e ministro della Difesa. Il messaggio del giovane figlio di re Salman, anziano e malmesso in salute, è chiaro: o si segue la linea del principe o si paga un prezzo salato.
 

Le motivazioni possibili delle purghe, mentre sale la tensione in Yemen e nel Golfo con l’Iran sciita, sono due. Un’ipotesi è che ci sia stato un tentativo di colpo di stato da reprimere o da prevenire, l’altra che è re Salman abbia incoraggiato il figlio prediletto ad accelerare la corsa alla successione. In Arabia Saudita ci sono dozzine di principi della sua generazione che avrebbero i titoli per prendere il posto di Mohammed che deve vedersela anche con una parte del clero wahabita ostile alle recenti aperture sulla condizione femminile. Si tratta in ogni caso di legittimare un potere e una linea di successione, quella di Salman, che finora ha affrontato sotterranee ma feroci contestazioni.
 

Tutto questo però non ha molto a che fare con la sbandierata modernizzazione del regno più retrogrado e tradizionalista del mondo arabo o con i discorsi fumosi del principe Mohammed sull’”islam moderato” ma con una lotta di potere nello stile del serial televisivo “Il trono di spade”. Il potere in Arabia Saudita è in mano alla dinastia fondata da Ibn Saud, storico alleato del presidente degli americani dal 1945, i cui successori si sono sovente pugnalati alle spalle per poi tornare a spartirsi la torta del potere e petrolifera che lubrifica i conti in banca di cinquemila principi del sangue.
 

Questa è e vuole rimanere una monarchia assoluta gestita dai Saud. Ma oltre ai riflessi sulle quotazioni dell’oro nero e nel mondo degli affari, è la posta geopolitica di questa lotta di potere che in questo momento può avere conseguenze sulla situazione mediorientale.
 

Lo dice la chiusura dei confini aerei e terrestri con lo Yemen, dopo il presunto lancio di un missile balistico da parte degli Houthi, una guerra nel cortile di casa che da anni i sauditi non riescono a vincere nonostante il sostegno degli americani e delle monarchie del Golfo come gli Emirati. Per prevalere contro l’opposizione degli Houthi, sciiti zayditi alleati di Teheran, i sauditi hanno lanciato una coalizione internazionale, cercando di cooptare i Paesi musulmani in un jihad anti-sciita, hanno investito miliardi dollari e arruolato legioni di mercenari: il risultato è stato un conflitto dove i sauditi hanno fatto più morti innocenti tra i civili che tra i loro nemici, senza che in Occidente si levasse una protesta, visti gli affari che ci legano a Riad.


La posta geopolitica appare evidente nella sconfitta subita da sauditi e monarchie del Golfo in Siria.
 

C’è un filo rosso che lega le purghe in Arabia Saudita e le dimissioni del premier libanese sunnita Saad Hariri, annunciate sabato scorso proprio a Riad. Il fronte sunnita deve accettare la permanenza al potere di Assad sostenuto da Russia e Iran: spingendo Hariri alle dimissioni i sauditi ribadiscono che possono destabilizzare il Libano dove gli Hezbollah, alleati di ferro di Teheran, hanno raggiunto accordi con i cristiani del presidente-generale Michel Aoun. E tutto questo in un momento in cui si intensificano le ipotesi di un nuovo conflitto tra Israele e le milizie sciite libanesi.
 

Si avvicina il momento di decidere le sorti della Siria, dove gli americani hanno diverse basi militari, e il fronte sunnita è indebolito: aprire la crisi a Beirut ha lo scopo di guadagnare qualche spazio negoziale e far saltare se possibile, dopo la sconfitta dell’Isis, l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah, obiettivo comune a sauditi, americani e israeliani.
 

Tocca adesso agli Stati Uniti e alla Russia, che ormai in Medio Oriente sono in condominio, capire se vogliono aprire un nuovo capitolo di guerra o frenare alleati e attori regionali. Molti, come Trump, ferocemente anti-iraniano, hanno visto nel giovane Mohammed una soluzione, un domani potrebbe rappresentare il problema.


*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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