Coscienza collettiva e lotta politica: Gaza mette a nudo l'occidente

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Coscienza collettiva e lotta politica: Gaza mette a nudo l'occidente


di Mjriam Abu Samra e Pasquale Liguori

 

Qualcosa si è rotto nel gran teatro della menzogna che per molti decenni ha coperto con crimini, ombre, giustificazioni e doppie morali il sistema politico occidentale. Per la prima volta in tempi recenti una causa - la Palestina - è deflagrata nell’immaginario collettivo globale e ha incrinato, per quanto in modo parziale e contraddittorio, l’egemonia degli organi di potere e di informazione. Questa rottura è reale e va riconosciuta: è un fatto. Ma riconoscerlo non significa attribuirgli un significato liberatorio né smettere di vederne rischi e contorni di assorbimento sistemico.

La flottiglia è stata scintilla mediatica. Le vele in mare, i lenzuoli alle finestre, gli hashtag e le piazze europee sono via via diventati simboli visibili, facili da fotografare, distribuire, applaudire. Hanno prodotto una narrazione che ha riempito un vuoto simbolico: molti si sono sentiti autorizzati a «essere dalla parte giusta». Ma il gesto visibile non è automaticamente sinonimo di rottura; spesso è il modo più efficace con cui il potere assorbe il dissenso e trasforma la collera in spettacolo gestibile.

Non arretriamo: il punto che si sostiene non è nichilistico. Va detto quello che si osserva con chiarezza teorica e con indignazione politica: una gran parte di queste manifestazioni è strutturalmente esposta al rischio di diventare valvola di sfogo per una coscienza collettiva che pretende pulirsi attraverso il rito senza sfidare i meccanismi concreti che generano la violenza. Questo non è un attacco alle persone in piazza, molte delle quali motivate da empatia genuina: è invece una critica al regime di rappresentazione che tende a trasformare la protesta in consumo simbolico, in meccanismo di alleggerimento morale per chi non intende cambiare nulla di sostanziale.

Questa protesta intensificata, pur segnata da spontaneità e da atti concreti di lotta e di ostruzione nei nodi logistici del paese, porta in sé contraddizioni profonde. L’autocompiacimento per un protagonismo delle piazze tanto atteso quanto tardivo - diffuso tra molti dei suoi partecipanti - contrasta con la realtà implacabile: mentre ci si mobilita in difesa dei connazionali, Israele prosegue senza tregua la sua opera genocida, massacra i palestinesi per forzarli a una resa sotto il giogo di nuovi piani e assetti imposti dal capitale imperialista con l’avallo di buona parte della borghesia compradora al potere in vari Paesi dell’area.

Il sistema ha sempre mostrato straordinaria abilità ad assorbire le crepe: dà visibilità alle fratture, ne pilota il ritmo, seleziona i portavoce e, se necessario, reinnesta quei frammenti in un flusso di consenso che ritorna utile alla stabilità dell’ordine. Quando il dissenso non è organizzato politicamente, quando non esprime progetto, strategia e legami reali con le soggettività direttamente coinvolte, è facilmente neutralizzabile. La piazza spettacolarizzata diventa così un manto che nasconde e consolida le stesse relazioni di potere che pretende di denunciare.

Ecco perché il metro di giudizio deve rimanere inclemente: la vera prova è il legame vivo con la resistenza, con la realtà delle città bombardate, delle case distrutte e della forza popolare che resiste. Diversamente, si scivola in una solidarietà che riproduce lo schema coloniale, riducendo Gaza a recipiente di pietà più che a protagonista della lotta. “All eyes on Gaza” rischia di diventare uno slogan vuoto, superato dalla spettacolarità dell’azione solidale che sentiamo più vicina, più rappresentativa, più facile da “difendere” perché articolata e presentata negli standard familiari al sistema stesso: umanitaria, conforme ai parametri del diritto (occidentale) e persino eroica per il rischio che corre. È una solidarietà che non chiede il confronto con le categorie “scomode” della lotta anticoloniale e antisistemica, della resistenza, dell’“altro”, lontano, esotico che si erge a difensore di sé stesso e impone una critica feroce anche delle nostre società. La flottiglia deve restare una cornice strumentale di lotta anticoloniale, capace di riconoscere Gaza come epicentro della resistenza. Ma perlopiù è assurta a narrazione spettacolare che ricentralizza l’Occidente come protagonista morale, riproducendo la figura del salvatore bianco e consolidando in definitiva la cultura coloniale che permea anche il discorso critico. È un meccanismo che, più che esprimere solidarietà, rischia di produrre un selfie morale, svuotando la Palestina di forza politica e riducendola a simbolo passivo. Proprio per questo diventa urgente riformulare radicalmente l’immaginario della solidarietà, altrimenti lo slancio delle piazze rischia di dissolversi invece di imporsi come forza trasformativa.

In questo quadro, si rischia di retrocedere sul piano politico e discorsivo persino quando l’indignazione per la flottiglia viene inscritta nello sconcerto per un diritto internazionale violato. Qui si apre la contraddizione: si torna a invocare una legalità che da due anni - e in realtà da oltre sette decenni - non è mai stata dalla parte dei palestinesi, ma che anzi è stata sistematicamente usata contro di loro. Gaza lo ha svelato con chiarezza definitiva, eppure lo si ignora, continuando a brandire un diritto che resta privilegio esclusivo dei cittadini occidentali. È una dinamica paradossale che non solo riabilita un impianto già screditato, ma lo ripropone come cornice interpretativa per guardare alla Palestina. Un movimento discorsivo intrinsecamente coloniale: riaffermare norme, categorie e persino accordi squilibrati (come quando si cita Oslo per dimostrare la presunta legalità dell’ingresso nelle acque di Gaza) che hanno sempre funzionato come gabbie contro la resistenza palestinese. Così, anche il dissenso finisce per alimentare l’egemonia occidentale, consolidandone la centralità analitica e politica e liquidando i timidi avanzamenti decoloniali di questi due anni di mobilitazioni, che avevano invece disvelato le fratture del sistema globale e intrecciato le lotte delle nostre comunità con la liberazione della Palestina.

Ed è qui che si rivela la contraddizione più profonda: la consapevolezza della complicità occidentale nell’attuazione del genocidio svanisce dietro la richiesta di mere garanzie diplomatiche, di protezione delle navi, di tutela del cittadino europeo, di un corridoio umanitario. L’asse si sposta: non più la necessità di un cambiamento radicale delle relazioni economiche, militari e politiche con Israele, ma la difesa di prerogative individuali, di status civili, di interventi umanitari che precedono e annullano la politica. Così le responsabilità dei governi si riducono al solo rapporto con i propri cittadini, mentre restano occultate le complicità strutturali dell’Italia e dell’Europa nella macchina coloniale sionista, nella spoliazione sistematica delle risorse palestinesi e nella loro riconversione in chiave neocoloniale.

Se il movimento orizzontale non riesce a tessere un ponte reale tra la coscienza risvegliata in Occidente e le istanze di autodeterminazione e di pratica politica dal basso a Gaza, allora non produrrà che un nuovo rito di autoassoluzione invece di una consapevolezza politica capace di trasformare e di liberare davvero.

Detto questo, va evitato un equivoco di fondo: non ogni spontaneità è manipolabile, e non ogni protagonismo, soprattutto quello giovanile, è ingenuo. Esiste un nucleo di speranza reale: una generazione di giovani e una classe lavoratrice che esprimono sensibilità morale, pratiche comunicative orizzontali e forme di solidarietà estranee alle logiche stantie e ipocrite di inetti partiti. Questa parte è politicamente preziosa e deve essere difesa dall’uso strumentale. Ma difenderla significa anche porle un compito: non abbandonare l’analisi politica alle versioni ufficiali. Significa organizzare e tradurre la sensibilità in pratiche che incidano sui dispositivi del potere. Chi scende in piazza oggi non può sottrarsi a una domanda decisiva: con quale nitidezza politica? Non basta essere parte di un’imponente aggregazione per essere parte di una lotta.

La posizione da assumere, allora, è d’attacco: denunciare senza timidezze la componente autoassolutoria, ancora pervasiva, e proporre subito - con proposizioni e atti concreti - una strategia alternativa di lotta congiunta più che solidale, perché la liberazione della Palestina è un passo decisivo dalla liberazione dalla morsa opprimente imperialista. Non occorre la nostalgia del conflitto ideale; occorre costruire strumenti di lotta: reti di solidarietà che non si limitino alle iniziative internazionali, campagne di pressione che mirino a infrastrutture economiche e diplomatiche, azioni di boicottaggio politicamente incisive, sostegno materiale diretto e coordinato verso chi resiste, connessioni organizzative che pongano al centro le rivendicazioni delle soggettività palestinesi e non i riflessi di immagine degli attivisti occidentali.

Occorre tenere alta la guardia contro le derive che possono tradire questo slancio: la cooptazione mediatica che addomestica e piega le narrazioni persino a fini elettorali; l’ambizione di neo-leader improvvisati, privi di formazione politica e ossessionati dal proprio protagonismo; l’accomodarsi accanto ai movimentisti da salotto, gli stessi che fino a ieri si contorcevano in equilibrismi per non disturbare i sodali dei kibbutzim; e soprattutto l’illusione che la solidarietà simbolica possa valere quanto la lotta reale. Un movimento autentico si misura sulla capacità di scardinare non l’immaginario confezionato, ma le strutture materiali del potere.

La vera prova di forza è dunque trasformare la sensibilità collettiva in politica concreta, non in consumo simbolico. Chi oggi sventola la bandiera della Palestina deve misurarsi con questa responsabilità: o si fa utile alla resistenza, o diventa - magari, senza saperlo - complice della sua neutralizzazione. Non c’è più tempo per gli alibi e i rituali consolatori. È il momento della scelta: costruire strumenti di contropotere o lasciare che la falla si richiuda a vantaggio di chi comanda.

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