Gaza. Una domanda dal sud della Striscia: che fare?

Gaza. Una domanda dal sud della Striscia: che fare?

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Quaranta chilometri di lunghezza, tanto è lunga la Striscia assediata di Gaza. Percorrerli per andare all’estremo nord o all’estremo sud lo si può fare seguendo la costa. La striscia è stretta e il mare è sempre vicino. Oggi torno a sud. Ho un piccolo compito da compiere in alcune delle zone più devastate sia dalla guerra israeliana che dalla povertà. Il mare oggi non è bello. Ha il colore cupo che riflette le nuvole grigie del cielo. Sembra annunciare quello che già mi aspetto di trovare. In realtà troverò di peggio.
 

Andrò verso Khan Younis e Rafah. Chi mi ha chiamato è Hamad, un giovane ingegnere con quale ho già fatto un sopralluogo circa un mese fa per capire come poter intervenire in alcune situazioni al limite della sopravvivenza. Mi manda a prendere da un taxi, perché lungo la Striscia ci si muove solo così, i taxi sostituiscono i bus e con pochi shekel ci si sposta da una località all’altra. Potrei pensarci da sola ma lui ne fa una questione di “karama” cioè di dignità palestinese. Me lo ripeterà anche quando non mi permetterà di pagare la mia shawarma. Un palestinese autentico mostra anche in questo modo la sua accoglienza verso chi ritiene amico della sua terra.


La prima tappa sarà nella campagna di Rafah. Dopo questa visita e per tutta la giornata, avrò in mente una domanda: cosa fare? Cosa fare per rendere umana una dimora che forse rifiuterebbe anche un animale! Ora capisco perché Abu Assan, il contadino dal viso cotto dal sole e l’espressione profonda  che avevo conosciuto la volta scorsa, mi aveva detto che i suoi figli studiano tutti ma con enorme sacrificio economico e non abitano con lui e sua moglie ma con i nonni. Abu Assan e Umm Assan, infatti, vivono da dieci anni in una specie di grotta di nylon. Non è neanche una delle poverissime “case di nylon” che avevo visto a Benessela come riparo dopo i bombardamenti israeliani. Sembra che in questa striscia di terra le sorprese non finiscano mai. Anche quelle belle per la verità, ma questa  certo bella non è.


Eppure Abu Assan e sua moglie, pur vivendo in una situazione come questa,  lavorano e sembrano instancabili, non chiedono elemosina e riescono perfino a sorridere e ad essere ospitali, ma questo non cancella la disumanità delle condizioni in cui vivono. Per fortuna sono rientrati nel progetto di Rete Radieh Resh e del PCOA e hanno ricevuto alcuni animali domestici dai quali ricavano un minimo di reddito e poi lavorano un orto e una serra. Vedo che la terra su  cui poggia il loro indecente rifugio di nylon è ben coltivata e mi colpisce un agrumeto molto bello. Qui arriva la seconda sorpresa: l’agrumeto è del proprietario della terra su cui è poggiato il rifugio in nylon e la condizione per restare a dormire in quel tugurio è quella di curare gli agrumi per conto del proprietario. Roba quasi da servi della gleba del medioevo nostrano! Non c’è salario, né c’è qualcosa che somigli almeno alla mezzadria, no, se Abu Assan vuole un rifugio, il “generoso” proprietario del terreno glielo concede in cambio del suo lavoro.  La povertà è tale che lo scambio impari sembra normale.



Cosa fare? Ci penso a lungo, Hamad se ne accorge e purtroppo mi dice che ci sono altre situazioni simili. Qui entra in campo quell’imperativo categorico con quale ho risolto il conflitto tra l’azione politica e quella umanitaria: l’azione politica in situazioni di questo tipo ha senso solo se migliora la vita di chi patisce le conseguenze delle ingiustizie politiche e sociali, quindi bisogna aiutare quest’uomo e sua moglie ad avere un tetto e quattro mura in cui passare la notte. Questo sarà il prossimo obiettivo. Non cambierà la situazione della Striscia di Gaza, lo so bene, ma va fatto.

Nelle zone visitate oggi ho visto la povertà estrema accompagnata alle tracce ancora pesantissime dei bombardamenti israeliani del 2014. Violenza su violenza, entrambe direttamente o indirettamente prodotte dalla stessa mano, quella che taglia l’acqua e l’elettricità, che assedia la Striscia impedendo qualunque forma di sviluppo economico e che ad ogni reazione, anche individuale, degli assediati, risponde uccidendo e devastando senza mai pagare per i suoi crimini.


La seconda tappa sarà ad Abassan el Khebir, una località di Khan Younis ed è sicuramente migliore rispetto alla precedente, nel senso che la famiglia di Abu Nasser ha quattro mura tirate su dallo stesso Abu Nasser per riparare la sua famiglia dalla pioggia e dal sole. Pare che Israele non si sia accanito contro questi tuguri durante l’aggressione del 2014, non erano interessanti! Infatti i danni che hanno avuto sono minimi e praticamente casuali. Qui il male vero è la povertà estrema. Israele si è accanito qualche metro più in là, qui non aveva molto da distruggere, ci aveva già pensato la miseria.


Visto che la giornata era iniziata con un mare per niente bello, doveva completarsi con qualcosa di altrettanto cupo, infatti andiamo a fare un sopralluogo a Qusah per capire se ci sono altre situazioni tragiche su cui poter intervenire. Qui, come già mi è capitato di vedere a Benassela o Al Zannah o Beitlaia, la crudeltà e il desiderio di cancellare un paese resta ancora evidente nonostante la clemenza del tempo riesca ad alleviare i dolori.


E’ qui che l’intera famiglia Jarrar è stata sterminata, erano 32 persone tra adulti, vecchi e neonati. E’ qui che in un giorno solo sono state uccise 150 persone e più del triplo sono state ferite. Qusah era considerata un gioiello e quando un palestinese della Striscia vuole fare un paragone dice che era molto più bella di Gaza city. Strade alberate, case eleganti, giardini, insomma era proprio da distruggere. Una casa più fortunata delle altre è stata abbattuta solo a metà e lascia la possibilità di capire con quanta cura estetica era stata realizzata.


Oggi Qusah si presenta come un agglomerato di container e costruzioni d’emergenza. Qua e là una casa ricostruita, ancora qualche maceria non rimossa su cui crescono pietosamente le splendide margherite gialle  che in questo periodo esplodono ovunque come la luce del sole e poi tanto, troppo spazio rimasto libero. Chiedo a una delle pochissime persone che incontriamo cosa c’era lì dove ora c’è solo un largo avvallamento e quando la mia domanda viene tradotta vedo che a quell’uomo spuntano delle lacrime e non risponde.



Io non vado mai alla ricerca di storie di morte e di devastazione, anzi, vado ovunque a cercare bellezza, ma qualche volta è la morte che s’impone, e le lacrime di quell’uomo che non ha voluto rispondere mi hanno fatto sentire, per un attimo, le urla disperate di chi non riusciva a sfuggire alle bombe  in quell’estate maledetta che si dovrà ricordare come l’eccidio di “margine protettivo”.

Alla fine dell’aggressione, tra artiglieria dal basso e aviazione dall’alto, solo a Qusah si sono contati 400 morti tra cui tantissimi bambini e devastazione quasi totale di tutta l’area.


Qusah, 80 mila abitanti di livello socio-culturale medio-alto, il gioiello urbanistico del sud, biblioteche, case, moschee, teatri……..tutto distrutto. Ora si vive nei container e nelle tende. Qualche casa comincia ad essere ricostruita. Qusah tornerà ad essere bella, ma quelle urla che a me è parso di sentire per un momento, tormenteranno ancora per anni chi si è salvato ma ha visto morire i propri figli, o i propri amici, o propri fratelli.  

Alla pena provata per la miseria infinita di chi vive di stenti si aggiunge la rabbia, oltre alla pena, di vedere crimini contro l’umanità non riconosciuti come tali e pertanto ancora impuniti.

Tornerò verso Gaza city costeggiando il mare, che è ancor più triste di stamattina, ma non vedrò neanche il tramonto che è una delle bellezze di cui Israele non è riuscito a privare la popolazione gazawa. Forse il sole era già sceso mentre io vagavo tra la desolazione di Qusah, o forse  avevo gli occhi troppo pieni di brutture generate dagli uomini per raccogliere una bellezza prodotta dalla natura. Non lo so, ora il problema è un altro: fare il possibile perché queste sacche di povertà estrema scompaiano, fare il possibile perché il mondo non dimentichi i crimini di Israele e perché chiunque agisca come può affinché Israele sia costretto a liberare Gaza dall’assedio e la Palestina tutta dall’occupazione.


Gaza, 24 marzo 2016
Patrizia Cecconi

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