Gli incubi “autocratici” di Bernard-Henri Lévy e la lezione per Mosca che viene dall'aggressione all'Iran

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Gli incubi “autocratici” di Bernard-Henri Lévy e la lezione per Mosca che viene dall'aggressione all'Iran

 

di Fabrizio Poggi

Stando agli ultimi lanci d'agenzia, torna più insistente, ora che le bombe americane sono state sganciate, l'ipotesi per cui Teheran minaccerebbe, addirittura nelle prossime ore, dopo il voto favorevole del Parlamento iraniano, la chiusura dello stretto di Hormuz, percorso chiave per il commercio petrolifero mondiale. La relativa dichiarazione era già stata rilasciata il 22 giugno dal Ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi, in procinto di recarsi a Mosca per incontrare Vladimir Putin. Secondo Araghchi, Teheran sta valutando tutte le opzioni in risposta agli attacchi americani ai suoi impianti nucleari.

Questo, per quanto riguarda le ultime ore. In leggero anticipo, però, sugli ultimi avvenimenti del 22 giugno, cui ha dato il via l'attacco notturno americano alle centrali iraniane, qualcuno non aveva mancato di mettere in mostra le proprie doti crepuscolari. Si tratta del solito “filosofo” Bernard-Henri Lévy e contiamo che i lettori vorranno perdonare, se mettiamo ancora una volta in campo il suo nome, del resto monotono, come disse il prevedibile avversario di James Bond in “Moonraker, sbuffando quel «Mister Bond! Lei compare con la tediosa inevitabilità di una stagione non amata».

Dunque, appena qualche mese fa, Bernard-Henri Lévy, dedito a spargere filosofiche bestialità su qualunque paese non rientri tra i suoi beneamati, sosteneva che l'“Impero americano” e i suoi alleati “democratici” sono sottoposti a «un potente assalto da parte di un fronte eterogeneo, ma sempre più coeso» composto da Cina, Russia, Turchia, Iran e Islam radicale, così che si è già entrati nella fase iniziale di una nuova guerra mondiale, i cui fronti principali, dice, passano per Ucraina e Israele, mentre il terzo fronte nel prossimo futuro sarà Taiwan.

Dopo il 13 giugno e ancor peggio dopo il 22 giugno, il signor Lévy deve spostare l'Iran sul primo fronte, in attesa di poter stabilire in quale posizione piazzare quello ucraino. Nemmeno a farlo apposta, il filosofo dehors è intervenuto sulle pagine de La Stampa prima del bombardamento notturno yankee sui siti iraniani di ricerca nucleare. Solo per poche ore, non ha potuto riversare sulle stesse pagine la frenesia che gli avrebbe procurato la notizia da lui tanto trepidamente attesa dell'attacco, ma non ancora data per imminente. Comunque, la sua soddisfazione Lévy se l'era già presa, illustrando al lettore italiano le sue discettazioni su come sia preferibile una guerra, forse mondiale, innescata dalle bombe sioniste, col rischio di gettare la «regione nel caos» e rispondendosi da solo che «Caos per caos... non c'è fonte peggiore di caos dell'esistenza di Hamas, o Hezbollah, o di un esercito di Houti. O dell'Iran che ci faceva vivere tutti quanti, al di là della regione, sotto la minaccia di un ricatto continuo. È a questo caos latente che Israele cerca di mettere fine». Amen.

Siamo ormai avvezzi alla sua “filosofia” astro-politica. È d'altronde lo stesso Lévy che a inizi anni '90 sosteneva i musulmani di Jugoslavia ed esaltava i tagliagole del UCK kosovaro, esortando a bombardare la Jugoslavia; lui, che appoggiava l'invasione USA dell'Afghanistan; lui, che era in Georgia nel 2008, naturalmente a sostenere Saakašvili e che nel marzo 2011 intrigava coi separatisti a Bengasi, promuovendo il rovesciamento di Gheddafi e chiedendo l'invasione della Libia, prima di passare, nel 2013, a chiedere quella della Siria, schierandosi poi, nel 2014, con la cosiddetta Euromajdan.

Tra i sostenitori della teoria del “caos controllato”, BHL fa da portavoce agli obiettivi di una Terza guerra mondiale, quale ultima ratio del capitale finanziario mondiale. Dunque, poche ore prima dell'aggressione USA del 22 giugno, Lévy vergava su La Stampa la pensata secondo cui la «dichiarazione di Ali Khamenej, per cui l'Iran non ha bisogno che qualcuno lo autorizzi ad arricchire il suo uranio e che per lui questo è un problema di sovranità non negoziabile», avrebbe costituito una «ragione sufficiente per i bombardamenti israeliani». All'obiezione sul perché alcuni paesi avrebbero diritto all'atomica e l'Iran no, il filosofo della “morale” atlantista risponde che «Ragione numero uno: esiste una differenza sostanziale tra una democrazia e una tirannia e un'arma non significa la stessa cosa... negli arsenali dell'una o dell'altra»; e l'Iran, lo sanno tutti, «è una tirannia e il suo programma nucleare non ha mai avuto altro obiettivo se non quello di cancellare Israele dalla faccia della terra».

Pensando di vanificare un'ulteriore obiezione, secondo cui la nuova guerra potrebbe fare «il gioco del criminale supremo, Putin, che a): aumenterà il prezzo del petrolio e, così facendo, la manna che finanzia la sua guerra; b) vede l'occhio di bue della Storia scivolare verso il Medio Oriente e far calare in un'ombra propizia i crimini che commette in Ucraina», BHL replica che «il fatto più importante dei nostri tempi è che in tutte le regioni del mondo ai posti di comando c'è una Internazionale autoritaria (…) Iran-Russia, una stessa battaglia... Khamenei che rifornisce Putin di droni e Putin che si congratula con Hamas per la sua “grande azione” del 7 ottobre... L'uno e l'altro a sostegno del progetto imperiale cinese e degli islamisti... Verrà il giorno – sì, verrà – in cui i difensori dell'Ucraina, i patrioti curdi, le donne iraniane e afgane o i sopravvissuti uiguri ringrazieranno Israele di aver spezzato, se avrà la meglio, uno degli anelli di quella catena assassina».

Hanno un'idea fissa, questi imbonitori della “democrazia” celestiale in lotta divina contro l'infernale “autocrazia”: dappertutto, vedono una trama internazionale. A distanza di due giorni dalle assicurazioni, dateci sempre su La Stampa da Anne-”Golodomor”-Applebaum a proposito di una «una rete transnazionale», una cordata guidata da «Russia, Cina, Iran, Venezuela, Corea del Nord, Bielorussia e altri», che «rifiutano la democrazia», ecco che BHL è accecato dai bagliori luciferini di una «Internazionale autoritaria», contro cui si ergono a coorte i cherubini euro-atlantici.

Non rimane dunque che armarsi, come sostiene il PD a Strasburgo votando i “crediti di guerra” sul riarmo, per «una difesa comune» targata UE. Un voto a favore la cui scelta è stata poi rafforzata, il 21 giugno, dall'apostolico raccapriccio per le bandiere NATO-UE bruciate alle manifestazioni romane, cui la quasi totalità dei catechisti del PD è stata contenta di non partecipare, nemmeno a quella in cui, diosialodato, il tema NATO era assente. Assente perché «gridano “fuori dalla NATO e dalla UE”, bruciano le bandiere. Il Pd non è quella cosa là». Viscidi pappataci euroliberali, che omeliano di «protezione satellitare... tutelare i nostri dati... garantire la sicurezza ai cittadini». Si genuflettono all'altare NATO-UE, provando ribrezzo per quelle piazze che «mandano messaggi sbagliati individuando nemici. E meno male che dicono di volere la pace. La pace si garantisce attraverso la difesa e la sicurezza che garantiscono la libertà dei popoli. Possibile che quello che sta succedendo in Ucraina, che è Europa, non abbia insegnato niente?». Eccome, criptomajdanisti euroarringhiati; eccome, se lo ha insegnato. Proprio per questo, non nascondiamo il voltastomaco per gli eurobellicisti del PD, che non si differenziano dai fascisti di FdI nel votare i soldi per la guerra; proprio per questo, non nascondiamo la ripugnanza per una congrega reazionaria che, alla vigilia del vertice NATO de L'Aja, in nulla si differenzia dalla volgare parabola, opportunamente stigmatizzata da Barbara Spinelli su Il Fatto del 22 giugno, di un Putin che «è il criminale, l’Iran è l’aggressore terrorista, Israele è l’eterna “vittima invincibile”». Quindi, in base alla vulgata russofoba UE-NATO e «in preda alla «cecità» scrive ancora Spinelli, «gli occidentali ripetono che l’Ucraina ha diritto di difendersi. Ma si guardano dal concedere lo stesso diritto all’Iran, compreso il diritto al nucleare civile». Rispetto, per l'onestà intellettuale di chi, pur da posizioni democratico-borghesi, dice la loro ai nefandi pennivendoli e ai biechi “politici” dell'intero arco bellico-atlantista.

E mentre il vice presidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitrij Medvedev, dichiara che tutta una serie di paesi sono disposti a rifornire direttamente Teheran di proprio armamento atomico, sulle pagine di Svobodnaja Pressa (discreto fiancheggiatore del KPRF) il professore Valentin Katasonov elenca quelle che, suo parere, sono dieci lezioni che Mosca dovrebbe far proprie se non vuol ritrovarsi nella situazione di Teheran, ammonendo che l'attacco all'Iran è l'ultimo avvertimento per la Russia. Per la verità, Katasonov si riferisce alla situazione successiva al 13 giugno, ma sembra che l'attualità non sia andata persa, tantomeno dopo il 22 giugno.

Per prima cosa, la constatazione che Israele è sostenuto dall'intero "Occidente collettivo": G7, UE, NATO e persino alcuni paesi arabi. L'Iran, invece, fa parte di SCO (Shanghai Cooperation Organiaation) e BRICS, ma queste non «hanno ancora dimostrato il loro dovere di alleati»: un colpo, dice Katasonov, alla reputazione di SCO e BRICS, oltre che dell'ONU, che oggi «ricorda molto la SdN, che non riuscì a fermare la Seconda guerra mondiale». Inoltre, fino al 13 giugno, la Russia era considerata il principale alleato dell'Iran. Cosa ha fatto negli ultimi giorni? Finora, solo dichiarazioni verbali. Washington sta dimostrando molto più chiaramente le proprie intenzioni di alleata di Israele. Terzo. Le azioni di Israele contro gli stati confinanti in Medio Oriente, incluso l'Iran, sono giustamente definite una "guerra senza regole", uno dei cui segni più evidenti è la sorpresa: «qualcuno avrebbe potuto immaginare che ciò sarebbe accaduto nel momento in cui Washington e Teheran stavano negoziando il programma nucleare iraniano e il successivo round di negoziati era previsto per il 16 giugno?... Tel Aviv e Washington stavano agendo secondo uno scenario comune? Non è forse questa una lezione per Mosca?».

Come escludere, si domanda Katasonov, che Washington proponga a Mosca negoziati sull'Ucraina, sullo START e altre questioni militari, creando un senso di "distensione nella tensione internazionale" e, proprio in quel momento, sferrare un colpo devastante alla Russia?

C'è quindi la questione del lavoro delle quinte colonne israeliane in Iran, andato avanti per mesi o forse anni: e se "guerre senza regole" «mirano a un risultato rapido ("blitzkrieg"), tali "improvvisazioni", di norma, richiedono una preparazione piuttosto lunga... introdurre nel paese (o produrre in loco) componenti di droni, assemblarli, stoccarli» e, oltre ai droni, la "quinta colonna" può distruggere o danneggiare le imprese della difesa, uccidere figure chiave ai vertici militari, ecc. Insomma, intende dire Katasonov: siamo sicuri che qualcuno non stia già conducendo un tale lavoro ai danni della Russia? Tali “quinte colonne” agiscono su «un “terreno preparato”, cioè un'atmosfera ideologica e morale-psicologica della società, in cui concetti di "dovere", "patriottismo", "popolo", "eroismo" vengano ridicolizzati», sostituiti da altri comportamenti basati sui riflessi animali, facili da controllare.

Ma, allora, come ha potuto il Mossad a creare una rete di intelligence in Iran, paese considerato profondamente islamico e dunque immune da tentazioni diverse? «Purtroppo, come ammettono molti esperti iraniani, l'Islam è da tempo diventato puramente nominale... Corruzione, tangenti, venalità, mercati "grigi" e "neri" prosperano nel Paese». Ecco, trasferiamo le stesse argomentazioni in Russia, dove il 79% dei russi si dichiara credente e dovrebbe quindi respingere «il culto di Mammona (tangenti, corruzione, appropriazione indebita, usura). Ma oggi in Russia c'è il capitalismo, un modello socio-economico che presuppone e persino richiede il culto di Mammona». Secondo sondaggi condotti annualmente da «una nota organizzazione non governativa occidentale, nel 2024 l'indice di corruzione per l'Iran poneva il paese al 153° posto su 180 e la Russia al 158°: più alto è il numero, maggiore è il livello di corruzione. Si può dunque «presumere che per le agenzie di intelligence straniere, il lavoro di reclutamento in Russia possa definirsi favorevole quanto quello iraniano e non c'è quindi da stupirsi» che gli attacchi con droni contro gli aeroporti russi siano partiti dallo stesso territorio russo.

Ricapitolando: l'Occidente nel suo complesso, dice Katasonov, ha dimostrato di sapersi «unire nei momenti decisivi, quando si tratta di capire chi siano i suoi principali nemici comuni, dandone persino le priorità: Iran, Russia e Cina. Di essi, l'Iran è il nemico relativamente più debole. È da lì che tutto è iniziato. Una volta sconfitto l'Iran, l'intero Occidente potrà attaccare la Russia. E dopo la Russia, affronterà la Cina; uno alla volta. Quindi, il 13 giugno, l'attacco di Israele all'Iran è stato un campanello d'allarme per il nostro Paese: tu, la Russia, sarai il prossimo bersaglio».

In guardia, quindi, e velocemente, anche perché, come ammoniva Victor Hugo nel suo mirabile “Il '93”, «Qualche volta la rapidità del lampo è mescolata alle catastrofi».

 

https://svpressa.ru/politic/article/469388/

 

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