Global Times - Una verità politicamente scomoda sulla democrazia statunitense

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Global Times - Una verità politicamente scomoda sulla democrazia statunitense

di Andrew Korybko - Global Times

Il secondo "Summit per la democrazia" si terrà dal 28 al 30 marzo. Sarà ospitato da Stati Uniti, Costa Rica, Paesi Bassi, Repubblica di Corea e Zambia, in un formato ibrido che prevede sessioni plenarie virtuali seguite da incontri in ciascuno di questi Paesi. In vista di questo evento, è opportuno riflettere su cosa sia esattamente la democrazia, quale sia la forma realmente praticata dagli Stati Uniti e perché manipoli la percezione popolare al riguardo.

Contrariamente all’opinione comunemente accettata in Occidente, questo gruppo di Paesi non pratica l'unica forma di democrazia, ma solo una variante regionale emersa dalle sue condizioni socio-politiche storiche. Se è vero che elementi di democrazia rappresentativa si sono poi diffusi in gran parte del mondo, l'origine geografica di questo sistema non conferisce a questi Stati alcun diritto o privilegio speciale, né dal punto di vista giuridico né da quello morale. 

Nella sua forma concettuale più elementare, la democrazia può essere riassunta come un sistema di governo che rappresenta la vera volontà della maggioranza. Dalla descrizione precedente, si evince che i termini "vera volontà" e "maggioranza" sono criteri qualificanti per stabilire se un sistema di governo può essere definito o meno una democrazia. In questa prospettiva, alcune delle conclusioni che l'occidentale medio dava per scontate sui sistemi politici dei vari Paesi vengono messe in discussione, compreso in alcuni casi il proprio.

Per esempio, mentre gli Stati Uniti si presentano come lo standard aureo della democrazia, i criteri finanziari informali che gli aspiranti politici devono soddisfare per avere una possibilità realistica di vincere una carica nazionale, sia nel ramo esecutivo che in quello legislativo, limitano notevolmente il numero di possibili candidati. Non solo, ma questi fattori servono a rafforzare il sistema bipartitico che i critici hanno descritto come facce separate della stessa medaglia "unipartitica", controllando così le opzioni politiche della maggioranza. 

Per quanto riguarda il fatto che il sistema democratico degli Stati Uniti rifletta sinceramente la "vera volontà" della popolazione, è sufficiente ricordare che solo sei corporazioni controllano circa il 90% dei media mainstream che gli statunitensi consumano. 

I suddetti fattori gettano quindi una luce "politicamente scomoda" sulla natura della democrazia statunitense, dimostrando che essa non rappresenta perfettamente né la "maggioranza" né la sua "vera volontà", a differenza di quanto i suoi dirigenti hanno falsamente sostenuto per anni.

Ricordando che la democrazia può essere riassunta come un sistema di governo che rappresenta la vera volontà della maggioranza, quella comunista attuata dalla Repubblica Popolare Cinese attraverso il meritocratico Partito Comunista Cinese (PCC) probabilmente soddisfa questi criteri molto meglio di quella statunitense. Per spiegarci, il PCC ha avuto un tale successo nel garantire un'equa distribuzione della ricchezza che ha ottenuto i più grandi risultati contro la povertà nella storia, facendo uscire letteralmente centinaia di milioni di persone dalla povertà. 

Dopo aver chiarito perché gli occidentali medi dovrebbero essere più critici nei confronti della democrazia statunitense e apprezzare quella cinese molto più di quanto la maggior parte di essi faccia attualmente, è ora il momento di parlare del motivo per cui i funzionari statunitensi continuano a manipolare la percezione di queste osservazioni. In poche parole, si cerca di screditare il modello nazionale di democrazia cinese, emerso dalle sue stesse condizioni socio-politiche storiche, per giustificare azioni sovversive nei suoi confronti volte a ritardare il declino dell'egemonia statunitense. 

Inquadrando falsamente la Cina come uno Stato non democratico o addirittura come un "regime autoritario", il pubblico destinatario di queste narrazioni di guerra d'informazione artificialmente prodotte è indotto a pensare che il PCC non rifletta la vera volontà della maggioranza del popolo cinese. Questa falsa percezione viene poi sfruttata per convincerli ad accettare atti di aggressione non convenzionale contro quel Paese, volti a destabilizzarlo.

L'intento implicito, e talvolta anche esplicitamente espresso, è quello di fomentare le condizioni socio-economiche per un cosiddetto cambio di regime "democratico", altrimenti noto come Rivoluzione Colorata, che fa riferimento alla combinazione di guerra d'informazione, proteste armate e terrorismo urbano. È impossibile che questo accada in Cina, ma coltivare la falsa aspettativa di questo scenario nelle menti del pubblico occidentale ha lo scopo di convincerlo che questi atti di ostilità sono "moralmente giusti".

Il vero scopo di questi attacchi di guerra ibrida, tuttavia, è rallentare l'ascesa economica della Cina, intromettersi nei suoi legami esteri reciprocamente vantaggiosi e, in ultima analisi, impedire la realizzazione di quello che il presidente Xi Jinping ha descritto come il Sogno cinese. La mentalità a somma zero condivisa dai politici statunitensi li porta a pensare erroneamente che una Cina forte, prospera e sicura di sé possa in qualche modo danneggiare i loro interessi, anche se rafforzerebbe la globalizzazione e la stabilità internazionale, in cui anche gli Stati Uniti hanno delle partecipazioni. 

È a causa di questo grande errore di calcolo strategico che gli osservatori dovrebbero aspettarsi che gli Stati Uniti facciano paura a questo Paese durante il secondo "Vertice per la democrazia", nel tentativo di giustificare la loro sovversione, guidata dalla guerra ibrida, dell'ascesa puramente pacifica della Cina. Non esiste un modello universale di democrazia e nessun Paese ha il monopolio di questo concetto politico, ma insinuare falsamente o affermare apertamente il contrario, come stanno facendo gli Stati Uniti, serve a manipolare la percezione popolare per fini malevoli.


L'autore è un analista politico statunitense residente a Mosca

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

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