Il Saccheggio Coloniale della Cultura Nativa Americana
di Raffaella Milandri
La cultura nativa americana, un patrimonio millenario intessuto di pratiche spirituali e resistenza indomita, è sotto attacco. Un’industria capitalistica la riduce a merce dozzinale, svilendo simboli sacri come copricapi cerimoniali e dreamcatcher, mentre i media mainstream, complici nel loro silenzio, celebrano un’estetica depredata e ignorano le lotte delle comunità indigene. Questa appropriazione culturale non è un errore innocente: è una violenza sistemica, un furto che perpetua l’invisibilizzazione di popoli già marginalizzati da secoli di oppressione coloniale. È un saccheggio che strappa l’anima di una cultura viva, sostituendola con caricature e profitti, mentre le voci autentiche dei Lakota, Navajo, Cherokee e altri popoli vengono soffocate. È tempo di denunciare questo oltraggio e chiedere giustizia.
Il Meccanismo del Furto Culturale
L’appropriazione culturale è un atto di potere che estrae, distorce e mercifica la cultura nativa, privandola di contesto e significato. Questo processo non è nuovo: è un’eredità del colonialismo, che ha spogliato i popoli indigeni di terre, lingue e identità. Oggi, si manifesta in forme insidiose, trasformando simboli sacri in prodotti di consumo:
- Copricapi Cerimoniali come Costumi: I copricapi piumati, simboli di rispetto e leadership per tribù come i Lakota e i Cheyenne, sono venduti come costumi di Halloween su piattaforme come Amazon o Etsy, a prezzi irrisori (20-30 euro). Questi oggetti, che richiedono anni di preparazione spirituale, come spiega l’attivista Lakota Tara Houska (The Guardian, 2019), sono ridotti a caricature, indossati senza rispetto in feste o eventi sportivi. Nel 2015, il festival Coachella fu criticato per l’uso massiccio di copricapi falsi, un esempio di come l’estetica nativa venga sfruttata per il divertimento di masse non indigene.
- Dreamcatcher come Oggetti Kitsch: I dreamcatcher, originari della tradizione Ojibwe e usati per proteggere dai sogni negativi, come descritto in The Manitous di Basil H. Johnston (1995), sono prodotti in serie in fabbriche asiatiche e venduti come decorazioni in negozi di souvenir o catene come Urban Outfitters. Nel 2017, la Navajo Nation ha denunciato Urban Outfitters per aver commercializzato una linea di “gioielli Navajo” senza autorizzazione, un caso emblematico di sfruttamento economico che ignora i diritti delle comunità indigene.
- Mascotte Sportive Stereotipate: Squadre come i Washington Redskins (ribattezzati Commanders nel 2022 dopo anni di proteste) e i Cleveland Indians (ora Guardians) hanno usato nomi e immagini che ridicolizzano i nativi, trasformandoli in caricature per il divertimento di folle bianche. Secondo un sondaggio del 2016 (Washington Post), l’80% dei Nativi Americani trovava offensive queste mascotte, eppure il cambiamento è avvenuto solo dopo pressioni decennali da parte di attivisti come Suzan Shown Harjo (Cheyenne/Muscogee). Tra l’altro, ora Trump stesso sta rimettendo in discussione i faticosi risultati positivi raggiunti (Trump vuole il ritorno delle mascotte, anche a costo di rianimare il razzismo, articolo su Fox 32 Chicago del 29/07/25)
- Hollywood e la Romanticizzazione: Film come Pocahontas (Disney, 1995) e The Lone Ranger (2013), con Johnny Depp nei panni di un Tonto caricaturale, distorcono la storia nativa, presentandola come un’idilliaca favola o una parodia. Pocahontas* ignora la realtà del colonialismo e della violenza subita dalla vera Matoaka, mentre The Lone Ranger* è stato criticato dalla Navajo Nation per la rappresentazione stereotipata, senza coinvolgere attori o consulenti indigeni autentici. Questi esempi – ma ce ne sono tanti altri, come il film Moana della Disney – non sono incidenti isolati: sono parte di un sistema che mercifica la cultura nativa, trasformandola in un feticcio di consumo mentre nega ai popoli indigeni il diritto di definire la propria identità.
Il Silenzio Mediatico: Una Complicità Strutturale
Il furto culturale è aggravato dal silenzio dei media mainstream, che celebrano l’estetica nativa depredata senza interrogarsi sulle sue implicazioni etiche.
Le proteste indigene, come quella contro l’oleodotto Dakota Access Pipeline a Standing Rock (2016-2017), ricevono attenzione solo come spettacoli momentanei, per poi svanire dalle prime pagine. La lotta per proteggere siti sacri, come il Bears Ears National Monument, ridotto del 85% nel 2017 dall’amministrazione Trump nonostante le obiezioni di cinque tribù (Navajo, Hopi, Zuni, Ute, Ute Mountain), è raramente approfondita. Le lingue indigene, come il Cherokee o il Lakota, stanno scomparendo: secondo l’UNESCO (2019), oltre il 50% delle 150 lingue native nordamericane è a rischio estinzione, ma i media dedicano più spazio a trend di moda “tribali” che a queste crisi.
Mentre i simboli nativi vengono venduti come accessori, le voci autentiche – quelle di artisti, studiosi e attivisti indigeni – rimangono ai margini. La stilista Cherokee Bethany Yellowtail, che crea abiti ispirati alla sua cultura con materiali tradizionali, fatica a competere con marchi come Ralph Lauren, che nel 2014 ha lanciato una linea “Santa Fe” con motivi nativi senza coinvolgere designer indigeni. L’artista Lakota Kevin Pourier, che scolpisce corni di bisonte per raccontare la storia del suo popolo, è ignorato dai grandi circuiti artistici, mentre copie dei suoi lavori appaiono in negozi di souvenir. Gli accademici nativi, come Vine Deloria Jr., autore di Custer Died for Your Sins (1969), o attivisti come Winona LaDuke (Anishinaabe), che combattono per la sovranità ambientale, sono raramente invitati nei talk show mainstream, dove invece proliferano narrazioni stereotipate.
La Violenza Sistemica e i Suoi Impatti
L’appropriazione culturale e il silenzio mediatico sono forme di violenza sistemica che perpetuano la marginalizzazione dei Nativi Americani. Con meno dell’3% della popolazione statunitense (circa 9,7 milioni, secondo il Census Bureau 2020), i nativi affrontano disuguaglianze strutturali: il tasso di povertà nelle riserve, come Pine Ridge (Lakota), supera il 50%, rispetto alla media nazionale del 13%. La mortalità infantile è doppia rispetto alla popolazione generale, e l’aspettativa di vita è di circa 70 anni contro i 78 anni della media USA (Indian Health Service, 2020). Le terre indigene, come quelle Navajo violate da miniere di uranio (come visto in un articolo di questa rubrica), sono sfruttate senza consenso, causando disastri ambientali e sanitari.
Questa doppia violenza – il saccheggio culturale e l’invisibilizzazione – è radicata in un sistema che trae profitto dalla marginalizzazione. I media mainstream preferiscono promuovere festival “tribali” o totem di plastica piuttosto che affrontare queste realtà. Nel 2021, il Coachella Festival ha continuato a ospitare stand con “artigianato nativo” prodotto in serie, ignorando le proteste delle comunità indigene. Marchi come Victoria’s Secret hanno usato piume e motivi “nativi” in sfilate di moda senza consultare le tribù, mentre eventi come il Burning Man, festival artistico annuale che si tiene nel deserto del Nevada, commercializzano un’estetica “sciamanica” lontana dalle pratiche autentiche.
Un Grido per la Giustizia
L’appropriazione culturale è un colonialismo contemporaneo, una logica di spoliazione che saccheggia simboli e significati per profitto. Non si tratta solo di “cattivo gusto”: è un atto che nega ai popoli indigeni l’autodeterminazione culturale. Come sottolinea Adrienne Keene (Native Appropriations, 2010), “l’appropriazione trasforma la nostra cultura in un costume, mentre le nostre voci restano inascoltate”. I media, gatekeeper della narrazione pubblica, devono smantellare questa complicità. Devono amplificare le voci native – da accademici come Vine Deloria Jr. ad attivisti come Tara Houska, da artisti come Supaman (Apsáalooke) a stiliste come Bethany Yellowtail – e smettere di ridurre una cultura viva a un trend di Instagram.
La cultura nativa americana non è un logo, una mascotte o un accessorio. È un’eredità viva di cosmologie complesse, che insegnano equilibrio e resilienza attraverso figure come Coyote, Iktomi o la Donna del Mais. È una storia di resistenza, incarnata nella “survivance” di Gerald Vizenor (2008), che unisce sopravvivenza e creatività.
Basta con il furto culturale.
Basta con il silenzio mediatico.
È tempo che il mondo ascolti il grido dei Nativi Americani: non come un’eco romantica, ma come un urlo furioso di giustizia, che reclama il diritto di raccontare la propria storia.