Ilva, la fine delle cazzate neoliberiste

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di Dante Barontini - Contropiano
 

Ilva e Alitalia, Fca in fuga, Whirlpool ed Embraco, e poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno – “è colpa di chi ha messo in discussione lo ‘scudo legale’”, “non si cambiano le regole in corso d’opera”, “ArcelorMittal voleva solo 5.000 esuberi e ha giocato sporco”, ecc – è destinato a non vedere luce.


O, come si dice ragionando seriamente, a guardare l’albero e non vedere la foresta.


C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo, senza aver programmato e incentivato qualcosa di diverso.


Le colpe vanno equamente divise tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore. Entrambe, davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo. Gli imprenditori girando i loro profitti nella finanza speculativa, i politici – tutti, nessuno escluso, e quelli parafascisti per primi (da Berlusconi a Salvini) – accettando I diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”. Ossia nella menzogna professionale.


Da quasi trenta anni, dagli accordi di Maastricht in poi, la “politica industriale” di tutti i governi è consistita in privatizzazioni e soldi a pioggia alle imprese. Ossia in “regali industriali” – da Telecom a Italsider, ad Autostrade – accompagnati da generose “dazioni” liquide (sotto forma di decontribuzione, finanziamenti a fondo perduto, taglio del cuneo fiscale), oltre che da politiche criminali sul lavoro (precarietà contrattuale legalizzata, allungamento dell’età lavorativa, eliminazione delle tutele dei lavoratori, deflazione salariale, complicità di CgilCislUil). Ma accettando sempre la tagliola del “divieto agli aiuti di Stato” imposta dall’Unione Europea.


Di fatto, sono state consegnate alle imprese le chiavi dello sviluppo o della morte del paese.


E le imprese hanno fatto i loro affari ognuna chinata soltanto sul proprio profitto a breve termine – “i mercati” valutano le relazioni trimestrali, mica le prospettive strategiche – e sul calcolo costi/benefici (tra costo del lavoro, incentivi a pioggia, efficienza delle infrastrutture, politiche fiscali nazionali, ecc).


Inevitabile, dunque, che decidessero per la morte, ponendo ogni volta il ricatto con modalità mafiose: “o ci date mano libera o ce ne andiamo da un’altra parte”.


C’erano una volta i lavoratori che si trasferivano là dove c’erano le industrie, con la valigia di cartone legata con lo spago. Oggi sono le imprese multinazionali a viaggiare spostando linee di montaggio e casseforti gonfie di soldi.


Da questa condizione storica non si esce con misure una tantum, con un finanziamento in più e neanche con una “partecipazione pubblica” nei casi più disperati (dopo anni, è arrivato a chiederla – per la sola Ilva – persino il segretario della Cgil!).


Di fronte alla dimensione del disastro, economico e sociale, c’è bisogno di una visione e di una programmazione di lungo periodo. C’è bisogno di decidere che cosa produrre e come farlo. C’è bisogno di investire in barba a qualsiasi “patto di stabilità europeo”, perché un paese di 60 milioni di persone non può accettare di finire nel baratro della Storia solo per rispettare “regole” scritte per favorire altri sistemi industriali, altri paesi e altre multinazionali.


Abbiamo provato già a dirlo: nazionalizzare si deve, ma al punto cui siamo arrivati neanche questo basta più.


Occorre un progetto strategico che solo una diversa visione del mondo e della produzione può assicurare.


Senza cadere negli slogan da “massimi sistemi”, si tratta di prendere atto che il capitalismo neoliberista non funziona più e va superato prima che esploda seminando, come sempre nella Storia, morte e distruzione.


In questo paese, in quest’area del mondo, in tutto il mondo.

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