In ricordo di Rachel Corrie, irragionevole ed umana

A 12 anni dalla sua morte, l'esempio della giovane attivista americana uccisa a Rafah da un bulldozer dell'esercito israeliano

1976
In ricordo di Rachel Corrie, irragionevole ed umana


di @veg_sxe

“Illegale, irresponsabile e pericoloso”. Queste le parole che l'esercito israeliano usò nell'aprile 2003 per descrivere l'atteggiamento di Rachel Corrie. La corte civile israeliana, nel 2012, le confermò quelle parole dicendo che l'attivista “poteva salvarsi portandosi fuori dalla zona di pericolo come qualsiasi altra persona ragionevole avrebbe fatto”.

Il 18 gennaio del 2003, Rachel, di appena 23 anni, membra dell'ISM (Movimento di Solidarietà Internazionale), decide di partire dalla sua ridente e sicura cittadina USA per raggiungere Rafah, la città più a sud della Striscia di Gaza, spinta dal sogno di aiutare i bambini palestinesi, nel mezzo di un conflitto decennale dall'altra parte del mondo.
 
Evidentemente Rachel Corrie non era una persona ragionevole. Rachel, in quei pochi giorni, vede di tutto. Può capire la sua disperazione, il suo senso d'impotenza, solo chi ha toccato con mano cosa significasse allora, e cosa significhi ancora, essere palestinese a Gaza o nella West Bank. Quella sensazione di trovarsi costantemente al centro di un mirino, di non avere alcun diritto, di sentire l'insostenibile fetido odore d'ingiustizia in ogni momento della propria quotidianità, di vivere nella propria terra occupata da un esercito nemico. Sentire che la propria resistenza è fiaccata costantemente da arresti, violenze, soprusi, umiliazioni.  
 
L'umiliazione. Questa deve aver sentito Rachel in quei giorni. Sentire l'umiliazione di non poter far abbastanza per quei volti, per quei nomi, per quella gente. Sentire l'umiliazione di essere una privilegiata solo per il proprio passaporto, perché, si sa, una cosa è colpire un palestinese qualsiasi (uomo, donna, anziano o bambino) ben altro sarebbe centrare un occidentale, uno di quei pacifisti internazionali che poi finiscono sui giornali, che hanno le loro ambasciate, che non vengono immediatamente sepolti da una nuova vittima o, peggio, dal silenzio dell'indifferenza.  Sarebbe potuta restarsene a casa.

Evidentemente Rachel Corrie non era una persona ragionevole.  Il 16 marzo 2003, Rachel indossa un giaccone arancione fluorescente ad alta visibilità. Assieme a 6 attivisti dell'ISM si reca a Rafah dove l'esercito israeliano si prepara a distruggere la casa di un farmacista locale.

E' una pratica comune. Con ruspe condotte dai militari, abbattono abitazioni palestinesi, ufficialmente perché presumono possano essere rifugio di presunti terroristi. Non importa se non sia realmente dimostrata la presenza di soggetti pericolosi per Israele o se questo possa comportare conseguenze per altri. Le ruspe possono passare sopra a tutto.

Rachel sale sulla montagnola di terra tra la ruspa e la casa del farmacista. Urla e si sbraccia. Vuole che la ruspa si fermi, interrompa quella manovra. Il suo corpo messo in gioco in difesa dell'esistenza di un farmacista praticamente sconosciuto e della sua famiglia. La ruspa avanza. Rachel urla più forte per farsi sentire. “Non può non avermi visto, ora si ferma” avrà pensato l'americana.

Evidentemente Rachel Corrie non era una persona ragionevole.  L'esercito d'Israele non si ferma davanti a niente e a nessuno. L'autista certamente vede ma non si ferma. La ruspa continua ad avanzare. Smuove la base della montagnola facendo cadere Rachel, poi le rovescia addosso la terra. La seppellisce. Poi le passa sopra coi suoi cingoli una prima volta. Di nuovo la schiaccia in retromarcia. Finisce la vita di Rachel, 23 anni, americana. Finisce in Palestina, sotto le ruspe di un esercito occupante. I suoi amici dell'ISM cercano invano di tenerla in vita. Le stringono la testa cercando di non farle uscire il sangue. Provano a rianimarla. L'abbracciano. In quel momento devono essergli tornate alla mente le immagini di quell'altro 23enne che a Genova, meno di 2 anni prima, era stato ucciso e lasciato lì, per terra. Abbandonato e ignorato. Corpi coperti di sangue, teneramente coccolati solo dall'amore dei loro simili che ancora sentono umanità. L'esercito israeliano si allontana. Non presta soccorso, non presta interesse. Bisogna attendere l'arrivo dei medici e delle ambulanze palestinesi.
 
La notizia della morte di Rachel rimbalza da Rafah a Gaza, da Gaza a Ramallah, da Ramallah agli USA, fino a raggiungere ogni angolo di mondo. Non è ancora l'epoca di Twitter o dei social network, in Italia arriverà, in un primo momento, solo grazie ad Indymedia, già sommersa da post riguardanti un altro ragazzo morto a Milano quello stesso giorno: Davide Cesare, detto Dax, assassinato dai fascisti a coltellate per strada. I destini di questi due giovani saranno legati da quel 16 marzo e dal riduttivo interesse dei media mainstream che liquideranno entrambe le morti come incidentali. Il giorno seguente, il 17 marzo 2003, le strade di Rafah e di tutta la Palestina vengono invase da palestinesi, uomini, donne e bambini, che vogliono salutare la loro sorella Rachel. Sorpresa. Le bandiere a stelle e strisce sventolano per quelle vie polverose. Il simbolo che il nemico, l'oppressore, pensa sia solo suo assume per quel giorno un altro significato. “Cosa ha fatto questa folle pacifista?” si saranno chiesti i vertici israeliani e l'amministrazione Bush “Questi antiamericani e antisemiti, con le nostre bandiere!”.

L'ultimo regalo di una persona non ragionevole: mostrare al mondo come non esista odio verso un  intero popolo o una religione, ma solo verso un'occupazione ingiusta. Il suo corpo senza vita abbracciato dalla gente che lei aveva voluto provare a difendere, senza picchetti d'onore, senza cerimonie di cardinali, senza bandiere sulla bara, senza inni né trombe, ma più semplicemente ed umanamente avvolto da quelle stesse mani che aveva stretto nel suo troppo breve soggiorno in Palestina, quel corpo ancora intriso della voglia di giustizia che l'aveva portata fin lì, guardato con disprezzo dagli occupanti e con profondo amore dagli occupati. Se ne è andata così Rachel, coperta da quella stessa terra tanto bramata dai palestinesi che lei amava. Quella terra per la quale da quasi 100 anni, dalla “Dichiarazione di Balfour” del 1917, si affrontano due popoli. Quella terra sulla quale essere equidistanti significa sostenere uno Stato che, contravvenendo ad ogni direttiva internazionale, occupa un'altra nazione attraverso l'edificazione di centinaia d'insediamenti e la costruzione di un muro di segregazione etnica.
 
Sono passati esattamente 12 anni dall'assassinio di Rachel Corrie. Evidentemente Rachel Corrie non era una persona ragionevole. Se lo fosse stata oggi avrebbe 33 anni e vivrebbe sicura nella sua casa statunitense. Ma il mondo ha bisogno proprio di questa audacia, di questa forza, di questa voglia d'amore e di pace che la corte civile israeliana, e non solo, chiamano irragionevolezza.  Nel 2011, 8 anni dopo Rachel, Gaza ha visto andarsene un altro dei figli migliori di questo pianeta. Si chiamava Vittorio Arrigoni, anche lui in quella terra disgraziata per sostenere la giusta causa palestinese. Vittorio scriveva sempre di restare umani, di non cedere a quelli che ci vorrebbero disumanizzare.  

Restare umani significa seguire l'esempio di donne e uomini come Rachel, Vittorio o Tom Hurndal, che hanno scelto di mettere da parte parte della propria ragionevolezza per non sacrificare la propria umanità.
 

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