LA FLOTTIGLIA, SPETTACOLO CHE ASSOLVE

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LA FLOTTIGLIA, SPETTACOLO CHE ASSOLVE

 

di Pasquale Liguori

La coerenza politica passa spesso per la minoranza. Se n’ebbe prova all’indomani del 7 ottobre, quando affermare il carattere resistente di quell’atto significava esporsi all’isolamento e al disprezzo di una massa compatta che ne decretava la demonizzazione come “terrorismo”. Si era in pochi, quasi invisibili. Lo si constata di nuovo oggi, dopo due anni di genocidio reso possibile dall’indifferenza occidentale e dalla complicità diretta con il sionismo: proprio mentre si coagula un consenso di massa che condanna tardivamente i massacri, si può scegliere di restare altrove. Non per masochismo né per culto delle passioni tristi, ma per coerenza. È fondamentale la forza dei movimenti di massa, ma non va confuso il clamore con la lotta: quando degenerano in rituali di autoassoluzione, è doveroso starne fuori. Molti compagni di allora, che condividevano la solitudine della prima minoranza, oggi si sono riversati anima e corpo in questa ondata solidale che qui si critica. Li si può rispettare, ma sarebbe disastroso lasciarsi trascinare: resta dunque salutare permanere nella minoranza che non si lascia sedurre dalle illusioni.

Potremmo scorgere, infatti, nel clamore di questi giorni, il tempo della negazione spettacolare della resistenza. La Global Sumud Flotilla non sostiene la lotta, non rafforza la resistenza: è messa in scena.

Guy Debord, esordendo ne La società dello spettacolo, avvertiva: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Ed è proprio ciò che accade.

Il movimento di barche verso Gaza, amplificato dai media, dai social e da un coro unanime di intellettuali, politici e opinion leader che per due anni hanno inghiottito e giustificato il genocidio, non è altro che una nuova rappresentazione. Un’immagine offerta alla contemplazione mondiale, moltiplicata nei talk show, nei comunicati, nei post indignati, e che ottiene l’adesione entusiastica anche di chi, ieri, non aveva altro linguaggio che la condanna senza appello della resistenza palestinese.

Per due anni si è demonizzata la muqawama come “terrorismo”. Oggi si issa la bandiera di una flottiglia che non porta armi, non porta milizie, non porta strategie politiche, ma solo lo spettacolo di una solidarietà faticosa e contraddittoria, celebrata come capace di aprire una breccia decisiva nell’assedio genocida. Lo spettacolo dei neo-solidali non solo non rafforza la resistenza, ma la neutralizza: la svuota, l’addomestica, trasformandola in un’immagine innocua da contemplare invece che in una forza politica da sostenere.

Nella mia recente intervista ad Abboud Hamayel1, l’intellettuale palestinese ha fermamente sostenuto che “anche chi afferma di solidarizzare con noi, spesso lo fa a patto che restiamo sospesi nel ruolo di portatori di dolore, non produttori di pensiero”.

Un effetto collaterale, chissà se indesiderato, della logica della flottiglia è trasformare Gaza in un teatro umanitario, negando alla resistenza il diritto di pensarsi e di essere riconosciuta come forza politica.

Il mondo intellettualoide che oggi si riscopre movimentista, dopo aver passato due anni a condannare Hamas come “terrorismo feroce” o a discettare contro famigerati campismi per non turbare lo spirito kibbutzim e sionista degli amici, si agita adesso per occupare il centro della scena. Non lo fa per la Palestina, ma per sé stesso: per una narrazione che riproduce la logica dello spettacolo, dove l’unificazione è solo apparente e la separazione reale. Debord lo coglieva con precisione: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”. È questo il rapporto che oggi si produce: non solidarietà, ma autoassoluzione collettiva. Un rito di purificazione che permette a masse lungamente colpevoli e silenziose di dire: noi c’eravamo.

È deprimente questa melassa di nuova fattura, dove ogni voce critica viene subito bollata come guastafeste. In questa nuova wave non scorgo nulla di movimentista, né di rivoluzionario: essa è lontana anni luce dall’insegnamento che la resistenza palestinese ha offerto e offre al mondo. Non può che destare diffidenza la sua composizione sociale: un blocco eterogeneo, multicolore, formato da personaggi della cultura, della politica, del diritto, dell’università e del volontariato, sostenuto da opinion leader del “progressismo” occidentale improvvisamente desti dopo due anni di genocidio. Un consenso di massa che non nasce da coscienza, ma da riciclaggio: dunque, in buona parte, una macchina nella cui cabina di regia si è installato un ceto colto e benestante che si riplasma in chiave “movimentista” per ripulire sé stesso e intestarsi, senza fatica e senza rischio, un ruolo di protagonismo in un non meglio precisato movimento globale di lotta.

Intanto, sul terreno reale, la macchina genocida continua indisturbata. Gaza è invasa, i cadaveri si accumulano, e già si pianificano resort, ricostruzioni affaristiche, piani di sfruttamento capitalistico del litorale devastato. Israele, forte della complicità occidentale e delle leadership arabe corrotte, avanza i suoi progetti di espropriazione, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese, puppet di Washington e Tel Aviv, si conferma come apparato collaborazionista, interessato soltanto alla conservazione dei propri privilegi.

La flottiglia non scalfisce questo ordine genocida, non ferma i bombardamenti, non spezza l’assedio: lo prolunga, trasformandolo in spettacolo globale. Qui si rivela il cuore del problema: lo spettacolo non è un contorno, ma l’essenza della dominazione. La flottiglia funziona come diversivo, come compensazione simbolica: ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare.

Come notava Hamayel, “la resistenza palestinese esiste da prima, resiste oggi e continuerà - non come reazione disperata, ma come proposta di mondo”.

Ed è proprio questa dimensione propositiva che rischia di essere soffocata: lo spettacolo neutralizza la muqawama, la riduce a performance, ne sterilizza la forza contagiosa.

Nello spettacolo vi è sempre un margine di potenza. Questo consenso di massa potrebbe tradursi in una spallata simbolica alla ferocia sionista. Si tratta, però, di una spallata che verrebbe contenuta e riassorbita dal meccanismo che la genera. L’immaginario che per un attimo si solleva contro Israele non apre scenari di liberazione, ma prepara un nuovo ciclo di rappresentazioni che renderanno accettabile la normalizzazione futura. In questo gioco, è del tutto preventivabile che le celebrità saranno applaudite, invitate, votate, arricchite, riverite; mentre i palestinesi resteranno al margine del mondo, ridotti a comparse di un dramma che non controllano.

La liberazione non passa per lo spettacolo, né per le illusioni collettive che riducono la Palestina a icona di dolore gestibile dall’opinione pubblica. La causa palestinese è politica e rivoluzionaria, non umanitaria né simbolica. Lo sapevano e sanno tutti i militanti che hanno scritto, con il sangue e con l’organizzazione, la storia della resistenza: il popolo non ha bisogno di spettatori, ma di compagni di lotta.

La flottiglia, al contrario, è un meccanismo perfetto del capitalismo spettacolare: moltiplica le immagini, accresce la visibilità, neutralizza la verità. Perché, come scrive Debord, “nel mondo falsamente rovesciato, il vero è un momento del falso”. Il vero genocidio, l’impunità internazionale, il saccheggio futuro di Gaza vengono inghiottiti in un frame spettacolare che permette alle masse di sentirsi, per un giorno, dalla parte giusta della storia.

Ma la storia non si scrive nei porti fotografati, né nelle conferenze stampa, né nei comunicati tardivi. La storia si scrive nel campo di battaglia della politica. Qui e ora, la Palestina non ha bisogno di nuove icone da contemplare, ma di nuova forza organizzata. “La resistenza epistemologica - dice Hamayel - è disobbedienza all’ordine di conoscenza che ci vuole vittime, mai soggetti”.

La flottiglia, dunque, non è risveglio: è il sogno necessario di una società che teme di riconoscere la propria complicità.

E anche laddove si può riconoscere il coraggio personale di alcuni corpi che si espongono al rischio, bisogna dirlo con chiarezza: si tratta di un coraggio dimostrativo, performativo, dotato di una sua irruenza comunicazionale che, proprio per la sua natura spettacolare, avrà durata breve e sarà presto archiviato. Manca del tutto un livello di coscienza e di cultura politica robusta, e perciò nulla di buono si profila se non l’ennesima capacità inclusiva di una società coloniale e violenta, capace di riassorbire ogni gesto.

La composizione di lotta così variegata e multicolore è un ottimo viatico per la logica di mercato imperiale e capitalista. Una rottura del blocco, quella sì destinata alla storia, è stata fatta il 7 ottobre. Ma quella fu chiamata terrorismo, e ancora così viene chiamata, da non pochi sostenitori della flottiglia. Ed è stata quella demonizzazione ad alimentare il genocidio. L’acqua del Mediterraneo non lava le pie coscienze.

 

1 https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-intervista_con_abboud_hamayel_grammatica_della_resistenza_ripensare_la_palestina_oltre_la_piet_e_la_paura/5496_61453/

 

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