Le parole perdute: come l'impoverimento del linguaggio ha plasmato la nuova (autoritaria) società
Fabio Riganello, autore del pezzo, è un caro amico da 36 anni. Quando ero al liceo sua madre aveva un negozio di dischi. Venerdì, sabato e domenica lavoravo in un pub di Crotone, lunedì, con i soldi guadagnati, compravo dischi e testi di musica tradotti. La madre e lui mi consigliavano molta musica, dal blues al jazz, dal rock al soul. Ci siamo persi di vista quando andai all’Università. Lo ritrovai nel 1998 e mi diede una grossa mano, chiamandomi presso la cooperativa sociale Agorà Kroton dove lavorava. Così nel 1999. I nostri percorsi politici si sono differenziati, ma la stima e l’affetto rimangono uguali. Lui cercava dialogo con l’ambito politico locale, per risolvere problemi sociali, io mi indirizzavo, tramite la mia attività di pubblicista, verso l’ambito nazionale. Fabio si occupa di migranti, tossicodipendenti, senza fissa dimora e lavora con giovani disagiati. Chi meglio di lui può raccontarci la deriva comunicativa, che porta violenza, degli ultimi 30 anni? Buona lettura.
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Le parole perdute
di Fabio Riganello
Sono ormai passati più di venti anni dalla prima edizione del Grande Fratello, trasmissione che veniva spacciata per una specie di esperimento sociale ma che in realtà può rappresentare la chiave di volta di un modello comunicativo televisivo che sarebbe ricaduto su quello quotidiano.
In realtà già con la “discesa in campo” di Berlusconi, era il 1994, si stava sempre di più caratterizzando un modello comunicativo che sempre di più tendeva a semplificare la discussione, semplificandola, evitando qualsiasi approccio complesso.
Questi momenti risultano fondamentali per cercare di capire come, oggi, la dimensione del dialogo e la capacità comunicativa si sia modificata ed abbia fortemente influenzato il comportamento.
Da una parte la tv generalista promuoveva un intrattenimento che sempre di più si sarebbe basato sull’istigazione al litigio e sull’esposizione voyeuristica della vita delle persone. Dall’altra si promuoveva una modello di discussione, riflessione, sempre meno approfondito, con l’uso di un vocabolario sempre più limitato che ti costringe a stare da una parte anziché dall’altra evitando di cogliere le sfumature di mezzo.
Programmi come X-Factor, Got Talent, The Apprentice, Hell’s Kitchen Masterchef e i tanti altri presenti all’interno dei circuiti televisivi, ci hanno abituato alla figura del giudice come persona autoritaria che insulta, umilia e mette alla gogna i concorrenti ma, contemporaneamente, abbiamo visto come quest’ultimi si prestino a tutto ciò per avere una visibilità, amplificata dal web, e una notorietà (?) che in qualche maniera possa rappresentare un riscatto sociale legato alla notorietà. Essere umiliati e umiliare questo era il modello che si apprestava a consolidarsi, nella televisione generalista, grazie alle dinamiche, create in maniera scientifica dagli autori televisivi, che mettono a disposizione, dei propri spettatori, uno spettacolo che rappresenta un gioco al massacro dove le persone vengono da una parte sottomesse e dall’altra aizzate l’una contro l’altra in dinamiche dove la sopraffazione, l’umiliazione e lo scherno sono il tema portante.
Impoverimento del linguaggio, semplificazione del ragionamento, sdoganamento di un linguaggio volgare e violento, promozione (e non se ne sentiva il bisogno) della figura autoritaria.
Tutto questo sta fortemente influenzando la nostra capacità comunicativa, rendendoci sempre più irascibili e conflittuali.
C’è una assoluta mancanza di predisposizione a voler accettare la diversità, la complessità che ci accompagna a una risoluzione violenta dei conflitti.
Non facciamo l’errore di pensare che siano i giovani i più colpiti da questo modello, in realtà è proprio sono gli adulti ad essere vittime di questo modello e, avendolo completamente subito, non sono capaci né di riconoscerlo e, di conseguenza, nemmeno di elaborare strategie che possano aiutare a superare questa incapacità comunicativa.
Per la mia esperienza i c.d. “giovani” sono capaci di promuovere, quando gliene si dà la possibilità, un modello comunicativo socio-affettivo, che permetta di conoscere l’altro nella sua interezza, e complessità, e senza l’ansia di dover apparire secondo i canoni imposti dalla società. La differenza tra noi e loro sta proprio nel fatto che noi, questo modello, lo abbiamo subito non conoscendolo e, in linea di massima, ne siamo rimasti vittime mentre loro lo hanno decodificato elaborandone nuovi e diversi modelli.
La domanda rimane sempre la stessa però: “Che fare”?
Il percorso, qualora lo si volesse fare, è lungo e faticoso. C’è la necessità di promuovere un linguaggio, una comunicazione, che non sia violenta, offensiva, volgare a tutti i livelli da quello istituzionale a quella familiare e amicale. Promuovere un pensiero che possa stimolare una logica multifattoriale e complessa che possa stimolare il dialogo, l’approfondimento ed il superamento del conflitto in maniera non violenta e la Scuola, come sempre, deve rappresentare la base di tutto questo.
La vera ri-evoluzione consisterà nel riappropriarci delle parole perdute.