Palestina e resistenza
di Giulio Pizzamei*
È dal 7 ottobre 2023 che i riflettori del mondo intero sono puntati su Hamas, l’organizzazione al controllo della striscia di Gaza definita dal nord globale come “terroristica”. Le risorse umane e militari del suo braccio armato, le brigate Al-Qassam, sono sempre state difficili da stimare per via della natura stessa dell’organizzazione e dei suoi alleati, che impone estrema riservatezza. Ciononostante, è evidente la sua inferiorità numerica, tecnologica, organizzativa e qualitativa rispetto il suo principale avversario, l’esercito di occupazione dello stato di Israele. In una guerra convenzionale, come quella combattuta nei primi giorni del conflitto, fattori come la totale mancanza di una forza aerea (non contando lo sporadico uso di droni) e la quasi totale assenza di brigate meccanizzate e mezzi corazzati sono estremamente limitanti e hanno portato a un numero di vittime insostenibile a lungo termine per qualsiasi forza armata non convenzionale moderna, in particolar modo se basata in un lembo di terra sotto assedio da anni. Seguendo questa logica le brigate Al-Qassam sarebbero già dovute essere state neutralizzate dal moderno e attrezzato esercito israeliano in poche settimane, ponendo fine alla guerra e portando alla disfatta della resistenza palestinese organizzata. Oggi, a due anni dal rinnovo del conflitto, l’IDF si trova in grande difficoltà per il semplice fatto che Hamas e le sue forze armate esistono e resistono, causando imbarazzo e preoccupazione perfino agli alti vertici del governo israeliano e ponendo seri dubbi sull’efficacia delle sue tattiche. Gli estensivi e indiscriminati bombardamenti effettuati ormai da due anni su ogni edificio o campo profughi che potrebbe ospitare o essere usato come nascondiglio da membri della resistenza non ha portato infatti a nessun notevole risultato sul campo di battaglia, facendo anzi crescere un odio nella popolazione di Gaza verso Israele che ha permesso ad Hamas di reclutare più o meno lo stesso numero di combattenti persi nei precedenti mesi di guerra (le stime Israeliane parlano di 10000/15000 nuove reclute) e scatenando una campagna di proteste e boicottaggi che stanno mettendo in seria difficoltà il sistema economico necessario per il proseguimento delle operazioni militari nella striscia ed altrove. L’estensivo uso di bombardamenti aerei e di artiglieria viene visto come una necessità dalle forze armate sioniste, nonostante il suo alto costo in risorse e immagine internazionale, soprattutto, ma non solo, per via della pericolosità delle operazioni di terra in un territorio ostile e fortificato come quello della striscia di Gaza, dove l’estesa rete di tunnel e le macerie che ormai coprono l’intero campo di battaglia offrono ai combattenti delle varie fazioni di resistenza palestinese la possibilità di compiere agguati e in pochi secondi dileguarsi prima che l’avversario possa rispondere al fuoco. Questo cambio di tattiche da parte della resistenza, dagli attacchi convenzionali alla guerriglia urbana, è stato dettato dalla necessità di conservare le sue forze, data l’impossibilità di uno scontro aperto alla pari contro l’esercito israeliano, ma permette anche alle fazioni palestinesi di utilizzare le sue armi più efficaci, cioè l’effetto sorpresa e il crescente malcontento mondiale verso le politiche israeliane. Infatti il prolungamento della guerra, voluto o non voluto, si è rivelato un fattore condannante per il governo Netanyahu e la nazione da lui governata, portando alcuni storici e intellettuali, non a caso, a parlare di un vero e proprio “suicidio di Israele”. Il passaggio alle tattiche di guerriglia da parte di Hamas gli ha permesso di “dettare le regole”, obbligando il nemico a stare a un gioco in cui a lungo andare non può fare altro che perdere. Di solito “perdere una guerra” viene inteso come “subire sconfitte militari più grandi dell’avversario ed essere costretti alla resa”, ma i risultati convenzionali si ottengono solo nelle guerre convenzionali, dando significati profondamente diversi alle parole “vincere” e “perdere” non appena il confronto tra le forze sul campo assume una forma diversa. Per comprendere meglio tutto ciò trovo che sia utile guardare a delle situazioni storiche simili; in particolare il conflitto israelo-palestinese condivide molti aspetti con la guerra americana in Vietnam. L’esercito nordvietnamita (NVA) tentò di confrontare l’intervento americano nella battaglia di Ia Drang utilizzando tattiche convenzionali, sostenendo un numero di vittime circa 10 volte maggiore di quello degli americani ed essendo costretto alla ritirata. Da quel momento l’NVA e i vietcong del Fronte di Liberazione Nazionale (FNL), come la resistenza palestinese, passarono alle tattiche di guerriglia che avevano funzionato egregiamente contro i francesi, costringendo l’esercito sudvietnamita e gli americani, come nel caso dell’IDF, ad andare in battaglia contro un nemico invisibile ed introvabile. Questo costrinse l’esercito americano, moderno ma costruito per una guerra convenzionale, a combattere alle condizioni del nemico, che poteva liberamente decidere di entrare in battaglia solo quando gli era più conveniente sfruttando l’effetto sorpresa, il supporto della popolazione, la conoscenza del territorio e le pressioni internazionali contro l’intervento straniero. Gli americani tentarono di ovviare ai problemi sul campo di battaglia distruggendo più infrastrutture ed ettari di foresta possibili con bombardamenti frequenti ed indiscriminati per tentare ridurre l’appoggio alle forze nordvietnamite, un po’ come la campagna di distruzione delle infrastrutture intrapresa da Israele nella striscia di Gaza. Il supporto aereo e i bombardamenti a tappeto erano spesso usati anche per fornire aiuto alle truppe di terra impegnate in battaglia, non sempre con buoni risultati data la limitata precisione dei bombardamenti dell’epoca e al conseguente rischio di vittime alleate. I vietcong, come i gazawi, tentarono dove possibile di rendere questa pratica pericolosa tanto per loro quanto per le forze che combattevano, tendendo agguati così improvvisi e ravvicinati che il supporto aereo fosse impossibilitato ad agire per via dell’alto rischio dell’operazione. Inoltre le forze di terra israeliane stanno riscontrando un problema che anche le forze americane hanno dovuto affrontare; la necessità, e allo stesso tempo la fragilità, dei mezzi corazzati. Carri armati e trasporti truppe corazzati, come tutti gli assetti militari di grande valore, sono bersagli succulenti per un nemico che deve infliggere molti danni con poche risorse e di conseguenza in Vietnam essi venivano usati con parsimonia, data anche la loro scarsa utilità negli ambienti paludosi e fitti del paese. A Gaza la situazione è diversa perché l’enorme devastazione fornisce all’IDF quello che dovrebbe essere un fertile terreno di caccia per le sue forze corazzate, ma quello che gli viene infuso dalle basse rovine e le grandi distese di sabbia è un falso senso di superiorità. Quello di Gaza rimane un campo di battaglia urbano, dove i mezzi corazzati devono essere accompagnati da pattuglie di fanteria per evitare agguati, ma, da quello che si riesce a ricavare dai video pubblicati sia dalla resistenza palestinese sia dall’esercito israeliano, spesso carri armati e mezzi di trasporto truppe mancano dell’adeguato supporto di fanteria, diventando così facili prede dei soldati di Hamas. Che questo sia dovuto a un senso di sicurezza dato dalla bassa percezione del nemico, dalla superiorità tecnologica o che sia solo frutto di disorganizzazione ed errori non ci è dato saperlo. Ciò che possiamo invece ricavare dai resoconti delle battaglie è che i mezzi corazzati israeliani vengono attaccati dalla resistenza palestinese addirittura con più frequenza rispetto alle truppe di fanteria, per via del loro importante valore strategico, economico e morale. Le forze americane, come quelle israeliane, per tentare di stroncare i rispettivi nemici, lavorarono anche molto sul delegittimare la resistenza, o almeno privarla del supporto grazie al quale riusciva ad esistere, in diverse maniere. Per citarne alcune: l’intimidazione della popolazione attraverso l’alto numero di vittime civili e campagne di arresti spesso senza alcuna base legale, la manipolazione delle notizie per demonizzare il nemico e la repressione dei movimenti globali in supporto della resistenza o semplicemente della fine della guerra. Queste soluzioni a lungo termine servirono solamente ad aumentare il malcontento mondiale verso l’occupazione, quella che alla fine si rivelò la più efficace arma dei nordvietnamiti e che al momento è la più grande speranza per i gazawi. L’insieme di questi fattori ed altri che non sono riuscito a citare sul morale dell’esercito, l’economia e l’immagine internazionale degli Stati Uniti li ha costretti a ritirarsi gradualmente dal Vietnam lasciando campo libero a NVA e vietcong, ma perché? È questo il punto focale degli sforzi di resistenza vietnamiti come quelli palestinesi, non annientare la forza occupante ma rendere il suo intervento non più conveniente, obbligando a scegliere tra un conflitto gravoso e senza senso e la ritirata.
Questo vuol dire che il risultato sarà lo stesso? Nessuno può saperlo; il confronto tra questi due conflitti, nonostante le loro similitudini, rimane difficile ed azzardato. Israele non dispone delle enormi risorse umane di cui gode l’esercito americano e mentre quello in Vietnam era un intervento mirato puramente a supportare militarmente uno stato estero l’intervento israeliano a Gaza porta con sé qualche sfumatura di guerra esistenziale in quanto la resistenza palestinese e le enormi proteste derivate da quello che la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sui territori palestinesi occupati ha definito come genocidio costituiscono in questo momento la più grande minaccia al futuro dello stato di Israele. Ciononostante il paragone di questo conflitto con quello in Vietnam ci può sicuramente aiutare ad analizzare meglio la questione.
*Giulio Pizzamei ha 19 anni ed abita a Roma. È studente alla scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso e attivista.

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