"Si vive una volta sola". La propaganda contro il posto fisso in una nuova ricerca AUR
3021
Continua la propaganda in materia di lavoro e di mercato del lavoro. Questa volta, ad opera di un pezzo del Messaggero che riprende i risultati di una ricerca elaborata dall’AUR (Agenzia Umbria Ricerche) intitolata: «Dimissioni che crescono, lavori che cambiano». Si parte da un dato: in Umbria, nel 2021 tredicimila persone hanno lasciato volontariamente il lavoro nonostante avessero un contratto stabile. Chiunque comprenderebbe intuitivamente l’unica ragione seria alla base del fenomeno, ma evidentemente qualcun altro tiene a raccontarla diversamente.
Il pezzo del Messaggero enfatizza un passaggio della ricerca che, a mio modestissimo avviso, ha del delirante: «probabilmente, soprattutto tra i giovani, ha cominciato a farsi strada con sempre più forza il motto “si vive una volta sola” (quel You only live once della Yolo economy statunitense) che spinge alla ricerca di occupazioni più flessibili e più consone a nuovi equilibri tra lavoro e vita privata, sperimentati ampiamente e in modo prolungato con lo smart working».
Non basta premettere l’avverbio “probabilmente” per fingere e convincere chi legge di quel minimo margine di incertezza nutrita (e dunque per indossare vesti credibili di onesta obiettività), per garantisti la licenza di sparare sciocchezze in libertà. E, dopotutto, lo spazio riservatole (alla sciocchezza) non può che essere ricondotto alla volontà di oscurare la considerazione, decisamente più misurabile, secondo cui a determinare le dimissioni non possono che essere prioritariamente state le «condizioni occupazionali sempre più precarie, riduzione delle retribuzioni, deterioramento delle relazioni lavorative, fenomeni di burn-out (soprattutto tra le professioni più stressanti, si pensi al mondo della sanità)» le quali «hanno inciso sulla propensione ad abbandonare volontariamente il posto di lavoro». E, difatti, il Messaggero ne approfitta per affermare come queste ultime condizioni: «sono solo alcune delle spiegazioni alla base delle dimissioni». Peraltro, manco a sperarci, ovviamente non manca l’affondo all’assistenzialismo all’italiana: secondo la ricercatrice, è sempre “probabile” che «sia intervenuta la disponibilità di sussidi elargiti negli ultimi due anni». A posto così: solito copione.
Una volta un tizio, da presidente del consiglio dei ministri, affermò: «che monotonia il posto fisso! I giovani si abituino a cambiare». Era Mario Monti e “probabilmente” i giovani italiani devono avergli dato retta, devono in definitiva essersi convinti di quanto noioso sia un contratto di lavoro a tempo indeterminato e si sarebbero dunque orientati verso il lavoro autonomo, libero, emancipato: notoriamente più appagante, edificante e coerente col disegno costituzionale sul quale ci siamo così tante volte soffermati. E allora, “probabilmente”, anche la storia delle finte partite iva dev’essere una balla.
La ricerca è sempre molto preziosa, lo è ancora di più se foraggiata con risorse pubbliche, e risulta imprescindibile se si desidera comprendere come vanno le cose, come va la nostra vita. In questo caso tuttavia fatico a comprendere l’utilità della ricerca citata, arrivo persino a temere lo spreco di risorse dei cittadini, laddove al direttore di Fanpage arriva la lettera di un giovane laureato italiano che ci commuove con la sua storia: «oggi compio i giorni, ben 180 dall’inizio di questa lunga fatica chiamata ‘’ricerca del lavoro’’, 6 mesi di false speranze e forti delusioni. Ho inviato il curriculum circa 250 volte, non ricevendo quasi mai risposta e ricavando un solo misero colloquio. Le posizioni per cui mi sono candidato sono stage, non di certo posizioni apicali». Si accontenterebbe anche di uno stage: si tratta di un contratto di formazione, non di lavoro. Un concittadino che mortifica le sue ambizioni e punta a risultati assai modesti: «stage in amministrazione, stage in back office, stage in qualunque posto del mondo accessibile con una licenza di scuola secondaria, ma niente, nemmeno uno straccio di colloquio, ero solo un illuso che credeva nel grande sogno della società contemporanea del ‘’studia e troverai un lavoro’’. ‘’Lavoro’’ una parola che in Italia assume un significato così rigido, una chimera, un sogno, una qualcosa di ineluttabile».
È incredibile che vi sia ancora qualcuno disposto a sostenere certe sciocchezze, ammantandole persino di rigore scientifico (e questo dovrebbe preoccupare chiunque desideri essere seriamente studioso, che dovrebbe temere per la credibilità dell’intera categoria messa a rischio da certi “studi” dinanzi alla opinione pubblica), dinanzi alla sofferenza di chi scrive come «negli anni dell’università avevo sempre creduto che lo studio mi avrebbe portato a guadagnarmi il pane con le capacità e le nozioni acquisite in anni di sacrificio sui libri, superando gli ostacoli di natura culturale, che la mia estrazione sociale mi avevano posto fin dalla nascita. Vengo da una famiglia contadina, ho avuto la possibilità di studiare grazie ai sacrifici della mia famiglia e ai miei, diviso tra il lavoro nei campi e l’Ateneo; vi lascio immaginare la soddisfazione e le aspettative dopo il conseguimento della laurea, una speranza che pian piano sta diventando più flebile e una realtà che come la forza di gravità, mi sta riportando letteralmente a terra». E finiscono col rassegnarsi i nostri ragazzi: «probabilmente tornerò al mio lavoro nei campi, e non ho nessun rimorso per le scelte fatte, per le persone che ho incontrato, per l’approccio analitico che mi è stato trasmesso da alcuni docenti e dalle grandi conoscenze acquisite che hanno, almeno in parte, saziato la mia fame di conoscenza».
E allora mi è venuta un’idea: “probabilmente” nell’animo di qualcuno presso l’AUR (Agenzia Umbria Ricerche), magari proprio in quello dell’autrice della ricerca, si fa strada l’idea per cui «“si vive una volta sola” (quel You only live once della Yolo economy statunitense) che spinge alla ricerca di occupazioni più flessibili e più consone a nuovi equilibri»: vorrei tranquillizzarla, aiutarla a non sentirsi costretta ad un’esistenza infelice, e ricordarle che c’è sempre la possibilità delle dimissioni volontarie. “Probabilmente” il giovane laureato autore della lettera indirizzata a Fanpage, più propenso ad un approccio noioso e all’antica, sarebbe disponibile a prenderne il posto. Due piccioni con una fava.
Cerchiamo di essere seri, quantomeno dinanzi al dolore di tante persone, quantomeno dinanzi ad esso.
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Ho scritto “Contro lo smart working”, Laterza 2021 (https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858144442) e “Pretendi il lavoro! L'alienazione ai tempi degli algoritmi”, GOG 2019 (https://www.gogedizioni.it/prodotto/pretendi-il-lavoro/)