Un dolore che sale fino al cielo

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Un dolore che sale fino al cielo


di Giovanna Nigi


Il dolore di Gaza è un dolore che sale fino al cielo, incapace di contrattare tregue. Io sono una madre che non ha mai partorito, che non ha mai allattato. Ma lo strazio di madri che vedono i loro figli svanire di fame ogni giorno un poco (e non per un cataclisma naturale, ma per semplice, puro male inferto da altri esseri umani) fino a che di loro non resta più nemmeno un respiro, sono in grado di immaginarlo.

Posso vedermi mentre, in passato cercavo inutilmente di alleviare un dolore a mia figlia, di farle cessare un pianto sconsolato, posso capire come ci si senta davanti alle urla e ai pianti di un bambino di pochi mesi o di pochi anni che si dispera per la fame, la sento sul mio corpo tutta quell’inutilità che fa accarezzare le ossa sporgenti ogni giorno di più nell’’assurda speranza che quelle carezze da sole possano sostituirsi a un biberon di latte, o a un omogeneizzato.  

E’ un male che può fare impazzire. Scopo delle madri e dei padri, nel regno animale, è procurare il cibo per i cuccioli, a costo della stessa vita dei genitori, ma quando non c’è più  nulla da comprare e solo terra da mangiare il sentimento indecente di impotenza che provo, che proviamo tutti noi empatici e non ancora disseccati nell’animo è niente davanti al senso di disperazione delle mani vuote che scava i genitori dei bambini morenti. Noi ci accontentiamo di un cucchiaino di sale e di un cucchiaio di zucchero al giorno, hanno scritto, per lasciare ai nostri figli quel pochissimo che troviamo.  

È una tonnara. Una gabbia da dove a nessuno è permesso di fuggire, devono stare tutti lì dentro per il sollazzo di chi è partito da casa per una battuta di caccia grossa. Gaza è un delirio di fame, sete, sangue ed esplosioni, un’orgia dove solo i diavoli godono. Il vangelo di Matteo ci restituisce un Cristo infuriato, chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, dice, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Invece il Papa non sembra altrettanto adirato, accenna a vaghe parole di pace che risuonano come degli insulti, il mondo intero si sta risvegliando, ma ancora c’è chi, imbarazzato, tace. E anche chi tace senza provare il minimo imbarazzo.

La vita non è bella, caro Benigni, e se verrà un carro armato non sarà quello della salvezza per i bambini gazawi. Vorrei sbagliarmi, ma il loro male non mi pare che ti faccia troppo male. Senti questa, avresti potuto metterla in scena tu, se avessi avuto un briciolo di fegato in più. Quello di un tuo collega di oscar, Jonathan Glazer, quando ha girato La zona d’interesse.

Ecco, ascolta bene. La scena si svolge a Gaza. E’ agosto ‘25, il mese della fame nera per i bambini gazawi.

La bambina non ha più di 4/5 anni. Dice al padre: perché non andiamo a prendere da mangiare, che non abbiamo più niente?

Padre: perché è troppo pericoloso, ci possono uccidere se andiamo a prendere gli aiuti, ci sparano addosso.

Bambina: E allora?

Padre: allora moriamo.

Bambina: si, moriamo. È normale, no?

Carino come dialogo per una sceneggiatura, peccato che non ci ha pensato tu…ed è tutto vero, così vero da sembrare finto. Ma tu non sei interessato a questi semiti. Eppure purissimi sentimenti di filosemitismo ti agivano mentre scrivevi La vita è bella…perché questi piccoli semiti non ti commuovono, non ti ispirano altrettante belle riflessioni dolci e amare? Eppure questi bambini sono molto più semiti di quelli che li occupano e li opprimono da quasi ottant’anni.

Ma non ti piacciono. Peccato. Che miseria. In fondo di questo si tratta, alla fine, di una miseria umana che non ha precedenti. Ecco, voglio dirvi un’altra cosa, sinistri signori, non cercatemi più quando organizzate serate in difesa delle donne iraniane o afgane, non chiamatemi più per cantare contro i femminicidi, non ci sarò quando mi parlerete di carceri che scoppiano e di condizioni indecenti dei prigionieri. E nemmeno per i bambini, per le scuole senza soldi per la carta igienica o per il materiale didattico, ci sarò. Non mi parlate più di bambini traumatizzati da comportamenti rudi di genitori dispotici, né degli omosessuali, del loro diritto a vivere i loro amori, della loro libertà di poter cambiare sesso, dei diritti dell’essere umano in assoluto non me ne parlate più, per favore. Non vi credo. Non vi voglio sentire, mi chiudo le orecchie per non ascoltare i vostri lamenti ipocriti. I diritti, o sono per tutti o non ce n’è per nessuno.

Finché tutte le donne palestinesi non saranno libere dal razzismo dei sionisti, finché saranno stuprate, imprigionate, fatte a pezzi dalle bombe, scarnificate dalla fame, non  ci potrà essere mai nessuna lotta che liberi le donne. Finché ci saranno prigionieri palestinesi massacrati di fame e tortura anche da bambini, non si potrà parlare di diritti dei prigionieri, finché noi permetteremo questo scempio dell‘umano , questa mattanza da vomito, non ci sono per voi, non ci sarò mai più. Finché c’è Gaza a gridare vergogna a ognuno di noi. Ho chiesto una definizione a un amico psicoterapeuta. Non è uomo di molte parole: ”Israele al potere è una latrina di traumi riciclati su vittime innocenti.” Buonasera.

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