Il Muro della vergogna
Una crisi umanitaria di cui non si parla al confine Usa-Messico
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di Chiara Ronca
La caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, preludio della fine del bipolarismo e dei contrasti ideologici che avevano diviso il mondo dal dopoguerra, non ha impedito la costruzione di altre barriere: basti pensare al muro che divide Israele dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza, quello di Cipro che divide la parte nord turca da quella sud cipriota. Fra gli altri, c’è una barriera di separazione che segna il confine tra Messico e Stati Uniti. Comprendere le ragioni per cui questa barriera è stata costruita, rinforzata, militarizzata è fondamentale per capire il senso della riforma sull’immigrazione portata avanti dall’amministrazione Obama.
La caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, preludio della fine del bipolarismo e dei contrasti ideologici che avevano diviso il mondo dal dopoguerra, non ha impedito la costruzione di altre barriere: basti pensare al muro che divide Israele dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza, quello di Cipro che divide la parte nord turca da quella sud cipriota. Fra gli altri, c’è una barriera di separazione che segna il confine tra Messico e Stati Uniti. Comprendere le ragioni per cui questa barriera è stata costruita, rinforzata, militarizzata è fondamentale per capire il senso della riforma sull’immigrazione portata avanti dall’amministrazione Obama.
Da dove nasce il problema dell’immigrazione: free trade, not free people. Che lo si definisca barriera, cortina o in qualsivoglia modo, i messicani lo chiamano muro della vergogna, a ben vedere non a torto.
La costruzione del muro ebbe inizio nel 1994, lo stesso anno della stipulazione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) da parte di Messico e Stati Uniti. L’accordo nacque con la finalità di favorire una maggiore integrazione economica fra i due paesi ma anche di collaborare per la risoluzione della questione legata ai flussi migratori. Dovendo valutare i benefici derivanti dal trattato, apprezzamenti sono d’obbligo sopratutto da parte statunitense.
L’abbattimento delle tariffe fra i due paesi ha avuto come effetto di attirare investimenti e capitali stranieri in Messico: questa apertura ha consentito agli Stati Uniti di de-localizzare in Messico parte della produzione senza essere soggetti a barriere tariffarie, favorendo la diffusione del cosiddetto maquiladora system, funzionale all’importazione in Messico di materiali e attrezzature, ai fini dell’assemblaggio, per poi riesportare il prodotto finito negli Stati Uniti, ai fini di vendita. Per il paese centroamericano l’introduzione di questo sistema avrebbe dovuto favorire l’assorbimento di un’enorme quantità di lavoratori messicani a basso salario e in grado di essere impiegati in attività ad alta intensità di lavoro.
E la mobilità del fattore lavoro? Se il trattato ha favorito la creazione di una zona di libero scambio di beni e forniture, lo stesso non è possibile dire per quanto riguarda la mobilità delle persone: per ragioni economiche, per esempio legate al turismo, un notevole flusso migratorio si è intensificato dagli Stati Uniti verso il Messico.
A quest’apertura ha fatto da contraltare una politica di separazione e contenimento dell’emigrazione messicana da parte delle autorità statunitensi, grazie anche all’innalzamento del muro della vergogna. Il NAFTA, infatti, ha favorito solo parzialmente l’assorbimento della forza lavoro messicana in quanto il Messico non ha poi avuto lo sviluppo che ci si sarebbe aspettati. Al contrario l’accordo ha dato il via ad una trasformazione radicale della sua economia: l’afflusso di beni a basso costo provenienti dagli Stati Uniti ha messo a dura prova la competitività della produzione messicana, costringendo molti piccoli imprenditori ad uscire dal mercato e a essere protagonisti di una vera e propria diaspora verso gli Stati Uniti.
Gli effetti di un accordo che non è stato attuato secondo le aspettative hanno spinto un numero sempre maggiore di cittadini messicani a cercare di entrare illegalmente negli Stati Uniti. Secondo le ultime stime sarebbero circa 11 milioni i cittadini messicani che vivono illegalmente negli Stati Uniti.
La riforma è vicina? C’è chi sostiene, soprattutto nel fronte repubblicano, che una riforma sull’immigrazione non costituisca una priorità: i dati forniti dal Pew Hispanic Centre indicherebbero che sono in diminuzione i cittadini messicani che provano a sfidare la sorte attraversando il confine con gli Stati Uniti. In teoria, il medesimo trend andrebbe registrato nel numero di coloro che perdono la vita al confine. Uno studio dell’università dell’Arizona, A Continued Humanitarian Crisis at the Border, dimostra come il numero di vittime sia notevolmente aumentato dal 2000 ad oggi: all’origine dell’incremento della mortalità contribuirebbe la militarizzazione del confine, che spingerebbe i potenziali emigranti a cercare di oltrepassare la frontiera in zone più remote e meno controllate dalle forze dell’ordine. A queste criticità si aggiunge la totale assenza di controlli sulle attività degli agenti di polizia al confine: di recente il New York Times ha denunciato che nessun funzionario di polizia è stato posto sotto inchiesta per le uccisioni di cittadini messicani al confine, avvenute spesso in circostanze poco chiare.
Il miraggio di una riforma sull'immigrazione. Al momento vengono trasferiti oltre 30.000 immigrati al mese in Messico. Obama sostiene di non poter fare nulla a riguardo fino a quando non sarà approvata la riforma sull’immigrazione. Il Presidente sta cercando di fare pressioni sui repubblicani sostenendo che la regolarizzazione degli immigrati porterà notevoli benefici all’economia americana. Nel rapporto The Economic Benefits of Fixing Our Broken Immigration System, la Casa Bianca ha mostrato che la riforma produrrà vantaggi in termini di rafforzamento dell’economia e aumento del PIL nell’ordine del 3,3% entro il 2023, incentivi all’innovazione e alla creazione di nuovi posti di lavoro, aumento della produttività e garanzie per i lavoratori, diminuzione del deficit di bilancio e rafforzamento e potenziamento della Social Security.
Ma i repubblicani sono abbastanza divisi sull’ipotesi di sostenere Obama, per cui non è possibile dire se e quando la riforma diverrà legge: i repubblicani non si fidano di Obama, sono diffidenti quando si parla di diritto alla cittadinanza e pretendono il rafforzamento della sicurezza al confine prima che si possa parlare di “a path for citizenship”. Il senatore repubblicano Lou Barletta ha recentemente dichiarato al quotidiano The Morning Call: “Now you invite them to come to the United States and come illegally because you can get this temporary permanent status and you'll be rewarded with a pathway to citizenship”.
Ma la questione dell’immigrazione rischia di divenire soprattutto terreno di scontro politico piuttosto che di riforma bipartisan: molti repubblicani rappresentano distretti in cui la percentuale di latinos non è molto alta e in cui l’ipotesi della cittadinanza per gli immigranti clandestini non è affatto popolare. Qualora i repubblicani dovessero proseguire con l’ostruzionismo (Gang of eight esclusa) Obama dovrà cestinare un’altra delle priorità della sua agenda.