Benigni e l'Europa felice: serenata restaurativa anche per orecchie da salotto

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Benigni e l'Europa felice: serenata restaurativa anche per orecchie da salotto

 

di Paquale Liguori

 

C’è un punto in cui la retorica dell’amore per l’Europa, della sua bellezza, della sua pace, del suo umanesimo universale, sconfina apertamente nella pornografia politica. È quando un attore, un premio Oscar, si alza in piedi e - col sorriso tenero dell’innocenza costruita - ci dice che l’Unione Europea è la più bella invenzione dell’umanità, che ha portato pace, benessere, diritti e libertà.

In due ampi interventi usciti su la Repubblica e La Stampa e nelle esibizioni televisive per il lancio del suo libro “Il sogno. L’Europa s’è desta”, Roberto Benigni ha intonato un vero e proprio magnificat identitario-sentimentale dell’Europa, tra reminiscenze scolastiche, enfasi lacrimogene e una stucchevole invocazione alla felicità dell’essere europei.

Qui non si vuol essere iconoclasti, gettare tutto nel cestino della storia e della cultura. Si tratta, piuttosto, di prendersi una pausa, fare un respiro assai profondo e riconoscere - con umiltà e vergogna - che, nell’epoca in cui viviamo, una presa di coscienza sarebbe il minimo.

Benigni ci parla dell’Europa come sogno, come casa, come miracolo. Chiunque abbia anche solo sfiorato la storia materiale della modernità europea sa bene che quella casa è stata in larga parte costruita sulle rovine altrui. Assai discutibile luogo di ospitalità, macchina epistemica di dominio, ha prodotto la propria pace attraverso l’esportazione sistemica della guerra, del razzismo e dell’estrazione coloniale.

Quando Benigni esalta il genio europeo, lo fa mentre archivia in fretta ciò che lo ha reso possibile: la tratta, il saccheggio, lo sterminio, l’egemonia coloniale, il controllo delle risorse, dei corpi e dei saperi. Quando celebra la più lunga pace della storia, relega a sfondo soltanto etereo quel carattere fondativo basato sulla dottrina necropolitica europea: un ordine della vita fondato sulla selezione della morte altrui, sul controllo e la persecuzione delle popolazioni, sui confini armati, sui campi per migranti, sulle guerre per procura.

C’è qualcosa di profondamente pericoloso nel modo in cui Benigni confonde la storia con la sceneggiatura, la politica con la retorica.

Il suo europeismo non è così ingenuo. È una forma sofisticata di propaganda morale, il tentativo disperato di riconfermare la superiorità culturale dell’Occidente dopo che le immagini da Gaza, dalla Cisgiordania e Gerusalemme occupata, da Beirut, da Teheran hanno - ammesso che ci fosse bisogno di conferma - definitivamente sepolto il mito dell’innocenza europea.

Fanon lo spiegava: l’umanesimo europeo è un’arma a doppio taglio. Si presenta come universale, ma non ha mai incluso l’altro. Parla di pace, ma è la voce del colonizzatore pentito che continua a comandare. Quando Benigni dice “noi europei”, sta parlando a nome e per conto di un soggetto sovrano bianco.

Una visione four seasons, quella proposta dall’artista toscano, condivisa non soltanto dai bardi del liberalismo. Persino adattabile agli anatemi elaborati in determinati ambiti intellettuali. Questi, infatti, per poter continuare a banchettare nei salotti buoni mentre un fiume di sangue resistente viene versato, si rifugiano nello snobismo di leziose disquisizioni sul “campismo” manicheo praticato da chi a monte, acriticamente, opterebbe per una posizione di contrapposizione con il blocco imperialista. È un’élite che, invece di affrontare duramente le evidenti brutalità euroatlantiche, di fatto le rimuove, accusando di arretratezza geopolitica chi, invece, le denuncia. È perciò una costellazione di pensatori senza più il coraggio della lotta di classe, né il corpo, né la voce della solidarietà decoloniale. Di sussiegosi teorici che, sognando fantasmatici universi intersezionali in perenne movimento e rivolta, prendono le sembianze di chierici dell’indifferenza travestita da coscienza critica: denunciano il cosiddetto “campismo” soltanto per non essere denunciati, a cena, di antisemitismo.

Il Benigni-pensiero, con la sua retorica dell’europea invenzione della pace, finisce per prestarsi perfettamente come fondamento ideologico del rifiuto di blocchi contrapposti. La verità è che chi non si schiera con nettezza al fianco degli oppressi, finisce inevitabilmente per stare con l’ordine che li opprime. Ed è ciò che rende definitivo il congedo da ogni ipotesi di un’Europa davvero libera, giusta e solidale.

Ecco perché il libro di Benigni è il prodotto culturale ideale per una tentata restaurazione di un ampolloso euro-primato: un’operazione di cosmesi narrativa pensata per rassicurare gli europei di essere ancora i buoni, ben protetti entro il perimetro dei propri privilegi, pena la loro decomposizione.

Servono, invece, la denuncia, la vergogna. Serve la consapevolezza che la vera scelta non è tra “democrazie” e “tirannie”, ma tra l’opprimente ferocia colonialista e chi a essa resiste.

Benigni ha scritto un inno all’Europa. E noi dobbiamo rispondere con un atto d’accusa.

Non per amore di un teorico “campo”, ma per fedeltà ai “dannati” della terra. Perché la pace vera comincia quando si smette di raccontare che l’Europa l’ha inventata.

 

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