Francesco Erspamer - Perché il neo-capitalismo ha ucciso la religione

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Francesco Erspamer - Perché il neo-capitalismo ha ucciso la religione

A distruggere le religioni è stato il neocapitalismo, che non è altro che la vecchia avidità borghese depurata però dei valori borghesi e dei suoi aspetti sociali. Molto più comodo: niente più senso del dovere nei confronti dello Stato e della propria comunità, niente più regole di comportamento, niente più faticosi negoziati fra tradizioni sviluppatesi nel corso dei secoli e il desiderio egoistico di sentirsi vivi affermandosi sugli altri. In sostanza, niente più bisogno di studiare e di disciplinarsi: la deregulation morale e culturale permette a ciascuno di sentirsi quello che gli pare e di esprimere liberamente questo suo sentimento, incurante delle implicazioni e delle conseguenze di medio e lungo termine. Come a dire che non è l’individuo che deve adattarsi all’ambiente naturale e sociale bensì sono l’ambiente e la società a doversi adattare alle esigenze dell’individuo, anche se momentanee (delle mode), a obsolescenza programmata (consumismo) e indotte (desideri creati dalla pubblicità, non dal bisogno). Anche se insostenibili: tanto saranno i posteri a pagare e in assenza di un senso di appartenenza e di una qualsiasi prospettiva storica, cosa volete che gliene importi del futuro lontano ai forzati dell’edonismo quotidiano? O della realtà, ai drogati di virtualità?

La religione non era virtualità: era un riconoscimento dei limiti della nostra personale esperienza fenomenologica; i sensi ci danno informazioni incomplete e provvisorie, dunque è necessario supporre che possa esserci qualcosa di più, là fuori. Infatti l’altro mondo era a distanza di sicurezza dall'esistenza quotidiana: la felicità eterna o la punizione divina venivano “dopo”. Anche il patriottismo, il nazionalismo, il provincialismo, la famiglia, malgrado le loro imperfezioni, erano antidoti all’egoismo infantile e di chi si rifiuta di crescere. Le nuove tecnologie (non quelle utili: parlo di quelle autoreferenziali e intese solo ad arricchire alcuni miliardari e a intrattenere e plagiare le masse) hanno invece precisamente lo scopo di diffondere la sindrome di Peter Pan e l’appiattimento sul presente, nell’illusione che a ignorare il passato e a non pensare mai a un futuro senza di noi, si riesca a restare giovani.

Politicamente, bisogna prendere atto di questa nuova contingenza: da una parte ci sono gli individualisti o vincenti (tutti gli individualisti si sentono vincenti altrimenti avrebbero bisogno della società), dall’altra ci sono i perdenti, ossia coloro che della società hanno bisogno. Il liberismo ha creato un blocco egemonico coalizzando tutti gli individualismi, che sono tanti e sempre più diffusi nella società dell’edonismo e del consumismo. Ma il margine che gli consente di dominare glielo dà la frammentazione dei suoi avversari, la loro incapacità di riconoscere i potenziali alleati e di accettare compromessi strategicamente indispensabili. Assurdo, per esempio, che quindici anni fa la base ex comunista dei DS non si fosse accorta che la fondazione del Pd, fin dal nome un’esplicita scimmiottatura del partito di Clinton, significava una fusione non con i cattolici e i tradizionalisti, utili per contrastare il liberismo, bensì con i democristiani più liberisti, i Franceschetti, i Renzi, i Gentiloni, i Letta, i Delrio, ritrovatisi nella Margherita per completare l’americanizzazione del paese iniziata dai radicali e da Berlusconi. 

I liberisti detestano Papa Francesco perché socialista, indeboliscono le tradizioni e la cultura perché ostacoli all’individualismo (anche nel calcio: a cosa pensate che servisse la Superlega di Andrea Agnelli?), distruggono le comunità perché fanno molti più soldi con la globalizzazione; chi è religioso, chi è tradizionalista, chi è nazionalista dovrebbe essere antiliberista. Invece la maggior parte di loro vota per la destra. Come mai? Perché la sinistra combatte battaglie che erano già vecchie nel secolo scorso, quelle dell’anticlericalismo (un errore in una società grettamente materialista), dell’anarchia (un errore dopo la deregulation), dell’antistatalismo (un errore in un mondo governato dalle corporation e dalle lobby), del terzomondismo (un errore in un pianeta troppo omogeneizzato), della libertà (un errore in assenza di eguaglianza e di vera democrazia), del progressismo (un errore in assenza di conservatori e con uno sviluppo guidato dalla finanza).

Niente potrà cambiare in Italia e nel mondo finché la contrapposizione fra i vincenti che vogliono più libertà e i perdenti che vogliono più società, non diventerà evidente e frontale, spazzando via i tanti diversivi e finti problemi che i media e gli intellettuali al servizio dei ricchi diffondono appunto per evitare che la gente prenda coscienza.

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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