Gaza e la resistenza al capitalismo-morte
di Pasquale Liguori
Dietro la retorica della ricostruzione si cela un disegno più profondo e sinistro, una strategia che trasforma la distruzione in occasione di profitto.
A margine della messinscena globale della cosiddetta pace eterna trumpiana, della spettacolarizzazione che, negli ultimi tempi, con varie modalità e in vari ambiti ha spesso e purtroppo ridotto la crisi palestinese a palcoscenico, conviene riportare il discorso sul terreno materiale e politico.
Dietro gli effetti speciali si è via via consolidato un metodo tristemente collaudato: la distruzione come premessa dell’accumulazione, la ricostruzione come strumento di dominio e profitto. Gaza, in questo schema, non è solo un teatro di conflitto, ma un cantiere aperto, un laboratorio dove la devastazione diventa condizione preliminare per nuovi processi economici e speculativi. Prima si cancella, poi si capitalizza: è la matrice ricorrente del potere coloniale, che si traveste da modernizzazione per legittimare l’annientamento.
Il meccanismo è sempre lo stesso, si ripete nei secoli con strumenti sempre più sofisticati: si elimina una popolazione per rendere il territorio investibile, si impone con la forza una pacificazione “in sicurezza” per attrarre capitali, si affida la governance a tecnocrazie esterne per neutralizzare ogni possibilità di autodeterminazione. Guerre, tregue, conferenze di pace e show mediatici non sono deviazioni dalla norma, ma parti integranti di una metodologia del controllo: la violenza si presenta come amministrazione, lo spossessamento come progetto di sviluppo e governance.
Nel reticolo di piani, fondi e summit internazionali si muove un’alleanza strutturale tra capitalismo speculativo e potere militare: la stessa che ha modellato l’Africa e l’Asia come territori di dominio, e che agisce anche ai margini del Mediterraneo. Gaza, ridotta a superficie da edificare, incarna perfettamente questa fusione tra logiche di accumulazione e pratiche di annientamento: la morte diventa investimento, la rovina opportunità.
Per comprendere la profondità di questo paradigma, appare utile richiamare alcune letture del capitalismo contemporaneo come quelle di Giovanni Arrighi e di David Harvey che, pur da angolature diverse, convergono nell’interpretare la crisi non come incidente, ma come motore del sistema.
Arrighi traccia una genealogia del capitalismo globale come successione di cicli sistemici di accumulazione. Ogni ciclo si apre con una fase di espansione materiale - centrata su produzione e commercio - seguita da una fase finanziaria, in cui l’accumulazione si svincola dall’economia reale e segnala l’esaurimento del modello egemonico. In questo passaggio, la crisi non è un’interruzione, ma uno strumento di riordino: serve a ridisegnare i rapporti tra capitale, Stato e territorio, a traghettare l’egemonia da un polo all’altro.
In tale prospettiva, la ricostruzione postbellica non è affatto un gesto umanitario ma risponde a una strategia di reinsediamento egemonico: la catastrofe apre lo spazio alla riorganizzazione dell’accumulazione, alla sua ristrutturazione su base finanziaria e transnazionale, fondata sulla cancellazione del preesistente. È la rovina a rendere possibile la nuova pianificazione del valore.
Harvey, a sua volta, traduce questa logica nella geografia concreta del capitale. Introduce il concetto di spatial fix: il capitale supera le proprie crisi non risolvendole, ma spostandole nello spazio, fissando le eccedenze in nuovi territori mediante infrastrutture, città, zone economiche speciali generando paesaggi che assorbono la crisi e la trasformano in profitto. A questo si accompagna l’accumulazione per spossessamento: privatizzazione, esproprio dei beni comuni, finanziarizzazione del territorio.
La “ricostruzione” è, in questo quadro, un perfetto dispositivo di fissazione spaziale: il capitale dichiara “vuoto” ciò che ha distrutto, per riempirlo con sé stesso. Gaza, devastata e pacificata, viene proiettata come scenario ideale per un nuovo ciclo di valorizzazione: le macerie si trasformano in asset, le infrastrutture promesse in strumenti di controllo, la popolazione in forza lavoro precaria o elemento da contenere.
Le due prospettive si rafforzano a vicenda: Arrighi fornisce la cornice storica e sistemica spiegando la lunga durata geopolitica dei processi, Harvey ne mostra l’articolazione concreta sul territorio, il modo in cui questa riconfigurazione prende corpo nella forma urbana e territoriale. Entrambi ci dicono che il capitalismo non reagisce alla distruzione: la produce attivamente per potersi rigenerare.
Gaza, in questa prospettiva, non è una deviazione ma un paradigma: il luogo in cui la modernità capitalista mostra il proprio volto nudo, dove la devastazione diventa condizione necessaria all’accumulazione e la ricostruzione strumento di dominio.
Non si tratta di un futuro da temere, ma di un presente già operativo. Mentre si pianifica la “nuova Gaza”, si progetta anche la nostra sostituibilità: un mondo in cui la vita vale solo se integrata in una catena di valore, in cui la memoria di ciò che c’era viene rimossa per far posto a un’idea di sviluppo senza popolo e senza storia.
Rovesciare questa logica è una responsabilità collettiva. Non opponendole la stessa forza distruttiva, ma affermando un’etica della responsabilità capace di riconoscere nella resistenza palestinese non solo una lotta nazionale, ma la forma più lucida di opposizione al capitalismo della morte.
Perché, se il capitale misura il valore in metri quadrati, la resistenza misura la vita in dignità. E nella sua ostinazione a esistere, a non lasciarsi sostituire, indica la possibilità di un mondo che rifiuta di essere ricostruito sulle proprie rovine.