Il caso dello spionaggio russo come un segnale di fedeltà agli Usa (vale anche per Sputnik)

Il caso dello spionaggio russo come un segnale di fedeltà agli Usa (vale anche per Sputnik)

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Tanto rumore per nulla. L’arresto di un ufficiale di fregata della Marina militare italiana, accusato di aver venduto segreti ai russi, sembra un remake nostrano dalla commedia shakespeariana.

A dirlo anche il colonnello Mario Mori, già capo dei Ros, del Sisde e di qualcos’altro. Secondo lui, che sa della materia, la vicenda è stata gonfiata per dargli un’enfasi che non ha.

Non c’è molto da spiare in Italia, i nostri, di segreti, son “relativi”, spiega Mori. In effetti, ai russi potrebbe far gola il segreto della Nutella, ma poco altro, che mica siam “pesi massimi”, come dice Mori, come russi, americani e cinesi.

Peraltro anche la paga per il servizio la dice lunga: sarebbero 5mila gli euro corrisposti al capitano fregato, che per quel prezzo gli deve aver venduto qualche segreta ricetta del cuoco di bordo.

Peraltro lo spionaggio è attività comune, aggiunge Mori. Lo fanno russi, americani, cinesi… insomma, così fan tutti. Tutti spiano tutto, ed è nota non solo l’attività, ma anche gli addetti ai lavori.

Così che i russi hanno la lista delle spie americane che gli girano per casa e gli americani dei russi che circolano tra loro. In genere son professori universitari, studenti, intermediari di non si sa che bene cosa, impresari dell’import-export (che poi è pure vero che importano), scrittori o artisti di vario genere (leggere, del caso, qualche libro di Le Carré, che è stato del mestiere).

Certo, ci son poi le talpe, per restare a Le Carré, quelle carte nascoste nel taschino che hanno un po’ tutti i giocatori di questo gioco d’azzardo (con licenza di baro). Ma quelle valgono tanto e son segrete assai.

Non sembra il caso del fregato in questione e dei suoi contatti russi rispediti in patria perché “non grati” (altri i i tempi in cui persone “non grate” in Italia erano di livello, come l’amichetto del cuore di Renzi, quel Michael Ledeen che fu cacciato per la vicenda Moro).

Insomma, a detta di Mori, e come evidente, si è voluto fare un “caso” di una vicenda di piccolo cabotaggio, per restare nell’ambito marinaresco. Roba piccola per non urtare troppo Mosca, che mica gli vogliamo dichiarare guerra. Ma significativa agli occhi della Sicurezza americana, che di queste cose vanno matti. Si divertono con poco, loro, e devono aver gradito o spettacolino.

Un piccolo segnale che l’Italia è pronta a fare la sua parte contro l’orso sovietico, che ora russo, ma fa lo stesso. Saranno rassicurati: in caso di Guerra gli piazziamo dieci carrarmatini in Jacuzia e  scateniamo l’inferno (ah, non era Risiko?).

Ma a che serviva un segnale del genere? In fondo il nostro Draghi aveva già fatto la sua promessa di fede atlantista in due occasioni pubbliche (almeno quelle dai noi registrate, magari ce ne sfugge qualcuna).

Due voti pubblici in due mesi, che neanche tutti i Primi ministri della repubblica italiana messi insieme… Che non serviva, anzi l’Italia, quella vera, aveva convinto tanta Sicurezza d’America che era meglio averci così, un po’ liberi, liberi cioè di parlare con israeliani e arabi, con loro e con i russi.

Che gli è tornato utile tante volte, come quando ci fu la crisi dei missili di Cuba, che rischiava di incenerire il mondo, e dall’Italia partì la lettera di Giovanni XXIII ai due presidenti-duellanti e, insieme, la proposta di smantellare la base missilistica Usa in Puglia, che disinnescò la crisi (ne parla, tra gli altri, Ettore Bernabei nel libro-intervista con Pippo Corigliano “L’Italia del ‘miracolo’ e del futuro“).

Ma son tempi passati, oggi l’Italia è colonia e va bene così, si sta sull’attenti (che poi anche ai soldati ogni tanto si dà il riposo, diceva Andreotti, che stare sempre sull’attenti non è salutare; ma appunto, erano altri tempi).

Digressione a parte, qualcuno ha voluto intendere la vicenda del Capitano di fregata come un segnale di fedeltà agli Usa, dopo gli sbandamenti pregressi. Ma, dati appunto i voti pubblici di Draghi, messa solo così. la spiegazione è un po’ deboluccia.

Soccorre, al solito, dare un’occhiata all’agenda. E l’agenda dice che, il giorno prima della bomba del terribile fregatagate, Macron e la Merkel si erano dati convegno con Putin, in streaming ovviamente, che ormai va di moda anche tra noi adulti.

Reunion importante, dato che negli ultimi tempi tra Unione europea e Russia ci si era legnati parecchio, col rischio che ci si cancellava a vicenda dal novero degli amici di facebook. Che non è un bene per nessuno.

Draghi non è stato invitato, come un Conte o un Berlusca qualsiasi, e dire che con lui la musica cambiava, dicevano, che tutti lo conoscono, tutti gli rispondono al telefono e via così. Va bé, dai…

Ecco forse il segnale stava proprio in questo che, dati i reprobi europei che avevano osato parlare col puzzone russo, l’Italia ha voluto segnalare che noi stiamo con voi, falchi e falchetti Usa. E che se anzi li volete legnare per l’onta subita, in modo soft, come si fa tra “amici”, potete contare su di noi.

Anzi, ci proponiamo come Alfieri del Credo atlantista in Europa, che ha troppi Cavalli e Regine ondivaghi (ma c’era anche da tenere a freno l’incendio ucraino, che rischia di divampare di nuovo, e bruciare la casa comune europea, questo il focus del summit digitale… va bé, dai, quisquilie).

In secondo luogo, il giorno successivo c’era una cerimonia in onore della Russia a San Marino per ringraziare Mosca per lo Sputnik inviato al Titano, alla quale doveva partecipare l’ambasciatore russo in Italia.

Il fregatagate ha rovinato la festa che poteva rilanciare le rivendicazioni italiche, dacché  qualcuno, autorità pubbliche e sanitarie, lo vuole quel vaccino. Causa scandalo, l’ambasciatore russo, in ambasce, è rimasto in ambasciata.

Segnale anch’esso, che quel vaccino non s’ha da dare. Gli italiani si curino con le medicine nostrane, che son buone e sane e parlano inglese (il costo? Un affarone…). Se lo slogan di Obama fu “Yes we can”, quello del suo canuto successore, sul punto, è “It cannot be done (nun se po’ fa’).

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