Il Triangolo di Primakov: Una Nuova Dinamica Geopolitica

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Il Triangolo di Primakov: Una Nuova Dinamica Geopolitica

 

di Vincenzo Pellegrino

Introduzione

In un’era segnata da fratture commerciali e ambizioni multipolari, le manovre protezionistiche dell’amministrazione Trump stanno rimodellando il paesaggio globale con una forza inaspettata. L’imposizione di dazi al 50% su Brasile e India, varata nell’estate del 2025, appare inizialmente come un affondo contro i pilastri più fragili del blocco BRICS. Eppure, questa tattica cela un disegno più articolato: non mero antagonismo verso economie in ascesa, ma un’architettura per rivitalizzare l’apparato industriale statunitense, salvaguardare l’egemonia del dollaro nel sistema finanziario mondiale e mitigare l’onere del debito estero americano. Paradossalmente, tali iniziative – intrecciate a un riavvicinamento diplomatico con la Russia – stanno catalizzando l’emergere di un’alleanza eurasiatica tra Russia, Cina e India: il “triangolo di Primakov”, un paradigma concepito alla fine del secolo scorso dall’ex premier russo Evgeny Primakov per temperare l’unipolarismo occidentale.

Attraverso un intreccio di analisi storiche, insight economici e proiezioni strategiche, questo articolo cerca di fare luce sulle radici dei dazi trumpiani, le loro ripercussioni sulle nazioni coinvolte e il modo in cui, in sinergia con il reset russo-americano, accelerano la genesi di un asse capace di ridisegnare gli equilibri planetari. Emerge un quadro in cui le barriere commerciali, lungi dal frammentare i BRICS, ne forgiano una resilienza collettiva, proiettando Russia, Cina e India al centro di un ordine multipolare.

I Dazi di Trump: Architrave della Reindustrializzazione Americana

Nell’agosto 2025, l’amministrazione Trump ha eretto barriere tariffarie del 50% sulle merci brasiliane e indiane, motivandole come replica a presunte distorsioni commerciali e affinità politiche indesiderate, quali gli acquisti di greggio russo da parte di Nuova Delhi. Come delineato nel documento della Casa Bianca del 2 aprile 2025, queste contromisure incarnano una dottrina di “reciprocità” volta a erodere il cronico squilibrio commerciale statunitense, che ha svuotato le fondamenta manifatturiere del paese e incatenato le filiere produttive a interlocutori esteri. Ricorrendo all’International Emergency Economic Powers Act del 1977, Trump ha invocato un’emergenza economica radicata nei disavanzi bilaterali, puntando il dito contro le tariffe medie indiane (17% MFN) e brasiliane (11,2%), ben superiori al 3,3% americano.

Benché queste sanzioni sembrino mirate ai vertici più esposti dei BRICS, il loro nucleo strategico risiede nella creazione di un ecosistema mercantile blindato, propizio alla rinascita industriale degli Stati Uniti. Questo approccio riflette fedelmente le teorie di Friedrich List esposte nel suo “Il sistema nazionale di economia politica” (1841), che contrappongono un protezionismo nazionale illuminato all’ormai deleterio free trade britannico. List, economista tedesco influenzato dalle esperienze americane e dalla scuola hamiltoniana, argomentava che le nazioni in fase di sviluppo industriale non potessero competere equamente con potenze consolidate come la Gran Bretagna senza un intervento statale mirato. Il suo “sistema nazionale” enfatizza la protezione delle industrie nascenti attraverso dazi doganali selettivi, sussidi e politiche infrastrutturali, per nutrire la “forza produttiva” di un paese – ovvero la capacità di innovazione, accumulo di capitale e diversificazione economica – fino a raggiungere la maturità industriale. Secondo List, il free trade, codificato da Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” (1776) e perfezionato da David Ricardo con la teoria del vantaggio comparato, promuove un laissez-faire cosmopolita che beneficia solo le nazioni già industrializzate, perpetuando dipendenze per quelle agricole o emergenti: esso incoraggia la specializzazione basata su risorse naturali, ignorando le esternalità positive dell’industrializzazione come lo sviluppo tecnologico e la sovranità economica.

Al contrario, il protezionismo listiano vede i dazi non come un costo, ma come un investimento temporaneo per “educare” le industrie domestiche, favorendo l’autosufficienza e la transizione da un’economia agraria a una manifatturiera avanzata, come dimostrato storicamente dalla Gran Bretagna stessa nei suoi primi stadi di crescita (prima di “scalciare via la scala” per imporre il free trade globale). Oggi, l’amministrazione Trump adotta questo paradigma per contrastare il declino manifatturiero americano, causato da decenni di globalizzazione neoliberale che ha delocalizzato produzioni verso low-cost asiatici, riducendo la resilienza economica e amplificando vulnerabilità strategiche. Studi del Peterson Institute for International Economics rivelano come i dazi incentivino la produzione endogena in ambiti vitali – acciaio, alluminio, semiconduttori – preservando l’integrità delle catene di fornitura essenziali. Questo schema riecheggia il primo quadriennio trumpiano, quando analoghe imposte generarono 80 miliardi annui di introiti, comprimendo il deficit commerciale e irrigando occupazione in settori nevralgici.

L’ambizione economica si dispiega con nitidezza: arginare le importazioni economiche per rianimare il tessuto manifatturiero nazionale. Il Tax Foundation proietta una contrazione del deficit del 10-15% entro il 2026, pur a fronte di un’inflazione reale al 18,2% – picco dal 1934, secondo lo Yale Budget Lab – e un aggravio medio di 1.300 dollari per nucleo familiare. Parallelamente, le tariffe custodiscono il primato del dollaro come moneta di riserva (58% delle riserve globali, FMI), brandendo minacce di dazi al 100% contro chi ne mina la sovranità. Alleggerendo il disavanzo, Washington aspira a una svalutazione controllata del dollaro, alleviando così il fardello di un debito estero oltre i 35 trilioni.

A questo mosaico protezionista si integra, con sinuosa complementarità, il riavvicinamento alla Russia, un tassello che amplifica il disegno reindustrializzante e si concretizza in un incontro emblematico. Nei primi mesi del 2025, Trump ha orchestrato un reset diplomatico con Mosca, sfociato in vertici preliminari in Arabia Saudita e culminato nel summit del 15 agosto ad Anchorage, Alaska, alla Joint Base Elmendorf-Richardson. Qui, tra strette di mano calorose su un tappeto rosso e un viaggio condiviso nella limousine presidenziale americana – “The Beast” –, Trump e Putin hanno discusso per quasi tre ore di una pace in Ucraina, senza annunciare un cessate il fuoco immediato ma aprendo a un accordo più ampio che implichi concessioni territoriali da parte di Kyiv. Trump ha inizialmente puntato a un truce rapido, minacciato da “conseguenze severe” in caso di fallimento, ma post-incontro ha allineato la sua posizione a quella putiniana, privilegiando un “accordo di pace permanente” per eliminare le “cause radicate” del conflitto, come l’influenza NATO sull’Ucraina orientale.

Tale distensione non si limita a disinnescare il conflitto ucraino – con Trump che sposta l’onere su Zelensky per un incontro trilaterale futuro – ma funge da leva per diversificare le arterie di approvvigionamento americano. Come biasimato dal vicepresidente JD Vance, gli aiuti a Kiev hanno accelerato la deindustrializzazione USA; reindirizzare risorse verso investimenti domestici libera capitali per la rigenerazione manifatturiera, mentre una normalizzazione con Mosca spalanca accessi a risorse cruciali – petrolio, gas, minerali rari – a tariffe competitive, svincolando Washington dalla morsa cinese e infondendo vitalità a comparti come energia, difesa e high-tech.

Discussioni bilaterali su cooperazione artica e spazio, emerse dal summit, rafforzano questa traiettoria, con potenziali joint venture come quelle tra ExxonMobil e Rosneft per il Sakhalin-1, legate proprio ai negoziati ucraini. Questo “reverse Kissinger”, che corteggia Mosca per contrapporla a Pechino, rafforza le filiere produttive resilienti, pur scatenando controversie nel solco di una tradizione anti-russa. Eppure, tale manovra genera echi inattesi: ritorsioni brasiliane sotto l’egida della reciprocità economica e un consolidamento dei BRICS, dove dazi e diplomazia selettiva – che isolano parzialmente la Russia dall’Occidente ma la legano economicamente agli USA – spingono Brasile e India verso un abbraccio più saldo con Cina e Mosca, vivificando il triangolo di Primakov.

I BRICS: Da Coalizione Emergente a Fulcro Multipolarista

Il consorzio BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, esteso a Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi e Indonesia – incarna oggi il 43% del PIL globale a parità di potere d’acquisto e il 55% dell’umanità. Al vertice di Rio del luglio 2025, i convenuti hanno tracciato rotte per affrancarsi dal dollaro, propugnando transazioni in monete nazionali e surrogati a SWIFT, in replica alle sanzioni anti-russe post-Ucraina. Putin ha stigmatizzato l’“armificazione” del dollaro, accelerando una dedollarizzazione che guadagna slancio, ancor più dopo il summit di Anchorage, dove il riavvicinamento USA-Russia non ha dissipato le tensioni ma ha evidenziato la vulnerabilità delle sanzioni occidentali.

I dazi trumpiani infliggono colpi severi a Brasile e India, con dissipazioni stimate in 5 e 23 miliardi su beni iconici come caffè e spezie. Ciononostante, anziché disgregare il blocco, ne temprano la coesione, specialmente in un contesto dove il dialogo Trump-Putin sembra privilegiare Mosca a scapito di alleati come Kyiv, spingendo i BRICS a una controffensiva unificata. Lula ha indetto un’assise straordinaria per reindirizzare flussi verso Africa, Asia ed Europa. Il New York Times nota come solo il 12% delle esportazioni brasiliane gravi sugli USA, attenuando la vulnerabilità a Washington. Similmente, l’India intensifica sinergie con Russia e Cina in difesa, energia e materie prime critiche, sfruttando i legami energetici con Mosca per bilanciare le pressioni tariffarie.

Il commercio intra-BRICS balza del 20% nel 2025, privilegiando valute locali per schivare embarghi occidentali. Le ombre di dazi addizionali al 10% contro “avversari anti-americani” non fanno che intensificare questo vettore, elevando i BRICS a polo alternativo in un cosmo multipolare, dove il parziale riavvicinamento USA-Russia rafforza paradossalmente la necessità di un asse eurasiatico coeso.

La Rinascita del Triangolo di Primakov

Il “triangolo di Primakov” affonda le radici nel 1998, quando Evgeny Primakov, premier russo, delineò un sodalizio tra Russia, Cina e India per equilibrare l’ascendenza statunitense post-bipolare. Abbracciando il 19% delle terre emerse e il 33% del PIL mondiale, questo asse eurasiatico ambiva a pluralizzare le relazioni internazionali, contrastando l’espansione NATO e il radicalismo islamico in Asia Centrale. Sebbene frenato da frizioni, quali gli attriti confinari sino-indiani (Doklam 2017, Galwan 2020), il triangolo rinasce oggi, innescato dal protezionismo trumpiano e dal suo corollario diplomatico con Mosca.

Il summit SCO di Tianjin, dal 31 agosto al 1 settembre 2025, segna un crocevia: Putin, Xi e Modi vi tessono trame su sicurezza regionale, Indo-Pacifico e dedollarizzazione, irrobustendo il formato RIC, in un momento in cui l’incontro di Anchorage ha parzialmente riabilitato Mosca sul palcoscenico globale senza risolvere le tensioni ucraine. Lavrov evoca una “troika” per un multipolarismo autentico, mentre il forum Primakov di giugno propone vertici trilaterali periodici.

Le molle di questa resurrezione sono plurime:

  1. Coercizione americana: I dazi sospingono Brasile e India nei BRICS, con RIC quale epicentro, mentre il dialogo USA-Russia accentua la percezione di un Occidente diviso.
  2. Bilanciamento russo: Emarginata dall’Occidente nonostante Anchorage, Mosca impiega RIC per controbilanciare la dipendenza cinese e capitalizzare i nuovi canali energetici con gli USA.
  3. Calcolo pechinese: La Cina sfrutta RIC per corteggiare l’India, erodendo il Quad e contrastando un potenziale asse USA-Russia anti-cinese.
  4. Realismo indiano: Nuova Delhi adotta RIC per variegare alleanze, preservando equidistanza tra Washington, Pechino e una Mosca in transizione.
  5. Strutture condivise: SCO e BRICS fungono da telaio per il RIC, enfatizzando commercio e sicurezza in risposta alle dinamiche post-Anchorage.

Swaran Singh, su The Polity, attribuisce il vigore al dinamismo di SCO-BRICS, al disgelo sino-indiano e a un ethos multipolare. I dazi trumpiani e il summit con Putin fungono da acceleratore, propellendo i tre giganti verso un’intesa più organica.

Impatti Economici e Geopolitici: Verso un Ordine Pluricentrico

Le ramificazioni economiche dei dazi si manifestano con vigore: scambi India-Russia lievitano del 40% (prevalentemente idrocarburi), Cina-India del 15% (tecnologie). Mosca, fulcro energetico, cementa vincoli con entrambi, potenziati dal potenziale di cooperazione artica emerso ad Anchorage. Nella sfera dedollarizzante, i BRICS incubano circuiti alternativi a SWIFT, con yuan e rublo in ascesa, accelerati dalle incertezze post-summit.

Geopoliticamente, il triangolo di Primakov erode l’unipolarismo: Russia, Cina e India armonizzano posizione su dossier globali – neutralità indiana sull’Ucraina, mediazione cinese, opposizione congiunta al Quad nell’Indo-Pacifico. Pur gravato da squilibri – preminenza cinese – e minacce ibride americane (sanzioni, narrazioni), l’asse resiste, con Anchorage che, pur aprendo spiragli USA-Russia, rafforza la coesione RIC contro un multilateralismo selettivo.

Per Washington, i dazi celano pericoli: il PIIE anticipa una contrazione del PIL di 432 miliardi entro il 2028, con crepe nella credibilità del dollaro. Per il RIC, si dischiude un orizzonte: edificare un eurasiatico stabile, incarnando il 40% dell’umanità in un paradigma di simbiosi.

Conclusione: Oltre lEgemonia, Verso un Equilibrio Globale

Le strategie protezionistiche di Trump, concepite per irrobustire l’economia americana e perpetuare il dominio del dollaro, generano un paradosso epocale: anziché fiaccare i BRICS, ne accelerano l’unione, culminando nel triangolo di Primakov. Russia, Cina e India, mosse da imperativi anti-unilaterali – inclusa la distensione post-Anchorage che non risolve ma riplasma le tensioni – scolpiscono un asse eurasiatico che irradia multipolarismo attraverso sinergie economiche, baluardi securitari e pluralismo finanziario.

L’essenza innovativa di questa evoluzione giace nella sua genesi involontaria: Trump, ambendo a segregare avversari, ne favorisce la convergenza. Il triangolo, fedele alla visione primakoviana, non antagonizza l’America ma aspira a un’armonia inclusiva. Con il vertice SCO 2025 come catalizzatore, Mosca, Pechino e Nuova Delhi tracciano un cammino dove l’egemonia svanisce in favore di alleanze paritarie. Come intuì Primakov, un triangolo Mosca-Delhi-Pechino democratizza il globo – e oggi, forgiato dalle turbolenze contemporanee, quel presagio si materializza in un’alba multipolare.

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