Informazione e democrazia: possiamo dare lezioni ai russi?
Informazione e guerra: noi peggio dei russi? La domanda è evidentemente provocatoria, ma fino a un certo punto.
Uno degli argomenti disonestamente più addotti dalla narrazione dominante, servilmente al servizio degli interessi americani e dunque a sostegno di una escalation del conflitto e della morte, consiste nel descrivere la Russia quale paese illiberale e antidemocratico. Noi, che di democrazia saremmo gli esportatori, avremmo quasi un dovere morale di concorrere al rovesciamento delle dinamiche di potere al di la degli Urali, financo all’annientamento fisico del dittatore, di Putin.
Per carità, a parte sparuti casi probabilmente riconducibili ad un profondo disagio personale e umano, nessuno difendeva e difende la Russia da questo punto di vista. O, meglio, a difenderla tutt’al più erano proprio quelli che oggi la descrivono come la nuova Germania nazista: erano loro, mediamente, ad ignorare per interessi principalmente economici (per certa gentaglia ahimè assai più rilevanti del valore della stessa vita) quanto accaduto ad esempio ad Anna Politkovskaja il 7 ottobre 2006.
E dunque figuriamoci se possiamo cambiare idea oggi. Ma la domanda forse dovrebbe essere un’altra: siamo meglio noi e possiamo dunque esprimere una superiorità del nostro modello in quanto a riconoscimento di spazi di confronto e di dialettica democratica? Probabilmente no, anzi: per certi aspetti siamo peggio di loro.
I russi in un certo senso, paradossalmente, esprimono una loro trasparenza: se pronunci la parola “guerra” finisci in gattabuia e tutti lo sanno ed evitano di pronunciarla. La regola illiberale la vedi, la tocchi con mano, e se la sfidi rischi di pagarne fisicamente e in prima persona le conseguenze: direttamente inflitte dal potere costituito. Che poi il regime fondi le sue basi imponendosi con la violenza oppure a fronte di legittimazione politica e di consenso popolare, questo è un altro discorso. Quello russo è semplicemente un modello meno evoluto di censura, un modello antiquato, per certi aspetti desueto e meno stabile, di mera hard law. Noi siamo diventati molto più sottili, sofisticati, efficaci da questo punto di vista.
La trama, attraverso la quale l’occidente impone le proprie logiche di antisolidale neoliberalismo, è tessuta mediante fibre morbide, soffici, ma non per questo meno efficaci e violente, financo letali. Pensate alle regole del «mercato delle riforme» (Somma), alla concorrenza tra ordinamenti, e a quanta gente abbiano letteralmente affamato e ucciso in paesi più fragili quali la Grecia.
Il nostro è un sistema che si autorappresenta come democratico, raccontandosi mediante un apparato mediatico che si sforza di edificare un teatrino patetico che vorrebbe qualificarsi quale pluralismo. Alla morte fisica noi abbiamo sostituito la morte morale, quella dell’immagine: i format televisivi sono estremamente utili a sostenere tale schema. Ti coinvolgono, legittimandosi mediante un finto confronto, per poi deformare il punto di vista alternativo, ridicolizzandolo, e dopo averlo letteralmente masticato lo sputano via rafforzando la narrazione dominante.
Il nostro metodo di alterazione della verità è molto più sofisticato, assai più avanzato: illiberale e antidemocratico riesce a dipingersi come inclusivo, aperto, persino comprensivo. Siamo riusciti a stravolgere la tradizionale dinamica per la quale gli avvenimenti creavano la notizia e dunque il dibattito: noi, attraverso le notizie e il dibattito, creiamo letteralmente la nostra di realtà. E poco importa che essa sia sconnessa dalla materialità delle cose, dalla fisicità della vita: cosa c’è di più reale di quanto convince e persuade intimamente le masse?
Il mercato delle conformità, così dovremmo imparare a definirlo: un sistema nel quale le testate giornalistiche, le televisioni, i sacerdoti del potere concorrono ferocemente per dimostrarsi il più possibile utili e servili al potente di turno. E assistiamo a racconti surreali: al capo di un paese in guerra che interviene a sorpresa in un contest musicale, oppure alla politica interna che legittima la guerra rievocando un televoto (confondendolo col referendum) che ha portato alla vittoria una band ucraina nello stesso contest. Vera e propria propaganda, lavaggio del cervello collettivo, e i telegiornali nulla, anzi: tutti operosi a corroborare il gigantesco inganno.
E realtà editoriali che provano a stonare questo canto malsano (le “Grecia dell’informazione”) devono necessariamente essere aggredite e infangate, nel tentativo di demolirne la credibilità che mette a rischio la verità di regime (vi ricordate quando ci rappresentavano il popolo greco come un manipolo di pigri mangia pane a tradimento?): osservate come si affannano a ripeterci ossessivamente di non guardare i programmi di Byoblu, ad esempio. Stessa logica, stesso soft frame: nondimeno letale.
E poco conta che in uno dei talk di maggiore ascolto sia consentito ad un vecchietto eccentrico di aggredire fisicamente Vittorio Sgarbi fino a farlo cadere rovinosamente, anzi! È funzionale a dare la sensazione di assoluta libertà: a chi verrebbe mai in mente di definire antidemocratico o illiberale un paese nel quale accadono certe cose dinanzi a milioni di perone o nel quale ogni giorno vanno in onda trasmissioni radiofoniche come La Zanzara (della quale, sia chiaro, sono un ascoltatore affezionatissimo)?
Smascherare il sistema è l’unico modo per provare a impedire che certe finalità siano raggiunte: se vogliamo la pace, e noi la vogliamo davvero, è essenziale tapparci le orecchie o quantomeno legarci all’albero maestro, per poi nel proseguire la nostra navigazione il più lontano possibile da certe maledette sirene.