La previdenza del futuro secondo il rapporto Ocse

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La previdenza del futuro secondo il rapporto Ocse

 

di Federico Giusti e Emiliano Gentili

Il documento sulle dinamiche occupazionali nei trentotto Paesi dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) evidenzia preoccupazioni per l’andamento del PIL, per fare fronte alle quali si propone tutta una serie di misure. Nello specifico, in questo articolo approfondiremo gli interventi in materia previdenziale.

Sul tema, l'Ocse non la manda certo a dire: la spesa pensionistica è troppo elevata, pari al «38% della spesa sociale pubblica nei paesi OCSE, ovvero circa l'8,5% del PIL», e che a causa dell’invecchiamento delle popolazioni «si prevede che la spesa per pensioni e sanità aumenterà (…) in media di 0,09 punti percentuali del PIL all’anno fino al 2060, ovvero di un totale di 3 punti percentuali».[1]

Cosa manca a questo documento?

  • una analisi sulla insufficienza cronica del gettito contributivo per gli inadeguati versamenti datoriali;
  • la valutazione delle difficoltà imprenditoriali, che da decenni impediscono di accrescere la spesa previdenziale;
  • un commento sulla tendenza a favorire la previdenza integrativa, a scapito di quella universale;
  • un’analisi sui crescenti costi a carico dei lavoratori anziani – quasi obbligati a restare al lavoro sino a tarda età, per avere coefficienti migliori che accrescano l'assegno previdenziale. 

Gli effetti delle riforme pensionistiche

L’OCSE non ha remore a svelare il suo punto di vista sulle ultime riforme previdenziali: «Negli ultimi due decenni (…) molti paesi dell'OCSE hanno innalzato l'età pensionabile, limitato l'accesso ai regimi di prepensionamento e creato incentivi per lavorare oltre l'età pensionabile tradizionale. (…) Svezia e Repubblica Slovacca hanno rafforzato il legame tra età pensionabile e aspettativa di vita, una mossa ora adottata da un paese OCSE su quattro, tra cui Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Portogallo (…). In alcuni casi, come Danimarca, Estonia, Italia, Paesi Bassi e Svezia, l'età pensionabile normale potrebbe raggiungere i 70 anni o più per la coorte di nascita del 2000»[2].

Le soluzioni proposte lasciano decisamente a desiderare:

  • un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile, con conseguente diminuzione degli importi percepiti per classe d’età;
  • l'abolizione del pensionamento obbligatorio, ossia della età pensionabile legale, per favorire forme d’accesso al pensionamento plurime e variabili, da istituire «attraverso riforme mirate del mercato del lavoro, come procedure più flessibili di determinazione dei salari e di licenziamento»,[3] con l’obiettivo di influenzare gli stessi modelli occupazionali.

A nostro avviso la flessibilità di uscita dal mondo del lavoro e l'eliminazione di ogni età che determini un limite invalicabile per il pensionamento vanno di pari passo con la flessibilità salariale: una possibilità è che questa divenga sempre più dipendente dall’andamento della produttività del lavoratore nel corso degli anni. 

Se aumenta il tasso di occupazione fra i lavoratori anziani

L’OCSE parte da un punto fermo: «mantenere l'individuo nel mondo del lavoro aumenta il gettito fiscale e riduce i pagamenti delle prestazioni pensionistiche»[4], dal momento che si percepirà la pensione per meno anni.

Secondo il Rapporto, «Le riforme pensionistiche, come l'innalzamento dell'età pensionabile o la limitazione delle vie di uscita anticipata, hanno contribuito in modo significativo ad aumentare l'età media di uscita dal mercato del lavoro, ma questi sforzi devono essere integrati in un quadro politico più ampio che consenta attivamente alle persone anziane di rimanere o rientrare nel mondo del lavoro».[5] Del resto, «Nonostante i progressi degli ultimi decenni, i tassi di occupazione iniziano a diminuire a partire dai 50 anni e calano drasticamente dopo i 60».[6]

Se, da un lato, «L'età media di uscita dal mercato del lavoro è aumentata nella maggior parte dei paesi tra il 2002 e il 2022, in media di 3,1 anni per le donne e di 2,6 anni per gli uomini», dall’altro l’OCSE lamenta che «rimane un margine significativo per aumentare l'età media di uscita dal mercato del lavoro senza aumentare l'NRA [l’età pensionabile], poiché l'età media di uscita dal mercato del lavoro è inferiore all'attuale NRA in 25 dei 38 paesi OCSE per le donne (e in 23 paesi per gli uomini)».[7]

La direzione, dunque, è chiaramente definita: da una parte si opta per rendere il pensionamento anticipato progressivamente meno conveniente, mentre dall'altra c’è l'invito a considerare una sorta di semi-pensionamento, che consenta di continuare a lavorare part-time – con ciò riducendo, però, i versamenti contributivi e la futura pensione.

Purtroppo, com’era prevedibile, l’OCSE propone di utilizzare tale istituto per incrementare la permanenza dei lavoratori anziani al lavoro e non, come sarebbe invece opportuno, per ridurla senza però al contempo gravare eccessivamente sulle casse pubbliche. Gli esempi citati nel documento riguardano la Finlandia, dove è possibile pensionarsi al 25, 50 o 75%, e la Danimarca, Paese nel quale i dipendenti pubblici possono scegliere di interrompere i versamenti contributivi per una percentuale superiore al 15%, includendo l’importo direttamente in busta paga. L’esempio della Finlandia presenta aspetti positivi, che sarebbe possibile utilizzare come rivendicazione – opportunamente rivisti e calibrati per meglio tutelare le esigenze dei lavoratori che si avvicinino all’età pensionabile.

[1] OCSE, Prospettive occupazionali dell’OCSE 2025, pp.93-94.

[2] Ivi, p. 152.

[3] Ivi, p. 206.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 176.

[6] Ivi, p. 14.

[7] Ivi, p. 134.

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