La resa armena a Baku e Ankara dal punto di visto russo
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
L'aspetto che più ha suscitato sorpresa, sin dai primi passi della resa (praticamente) senza condizioni dell'Armenia alle pretese territoriali dell'Azerbajdžan, con la svendita del Nagorno-Karabakh, è stato forse il relativo “immobilismo” russo, l'apparente “accondiscendenza” di Mosca all'evolversi della faccenda che comunque, sin dall'inizio, evidenziava i forti interessi turchi e americani nell'area.
Nessuna sorpresa, dunque, che l'atto formale della definitiva capitolazione armena – ufficialmente: “dichiarazione di intenti per la conclusione di un accordo di pace”; non ancora un accordo di pace a tutti gli effetti - sia stato sottoscritto a Washington dal presidente azero Il'kham Aliev e dal premier armeno Nikol Pašinjan; mallevadore Donald Trump, bramoso di accumulare punti nella corsa al Nobel per la pace.
Formalmente, Erevan e Baku si impegnano a cessare definitivamente tutte le ostilità, aprire a scambi commerciali e rispettare reciprocamente l'integrità territoriale. Questo, dopo essere stati in conflitto per 35 anni.
Che, in realtà, si tratti di un accordo di “lunga durata” sono in molto a dubitarne, non foss'altro per quanto è sotto gli occhi di tutti: gli interessi russi e iraniani nel Caucaso meridionale, in gran parte trascurati dall'intesa armeno-azera, in particolare per quanto riguarda la previsione di una base yankee da aprire proprio nell'area dell'ormai fatidico “corridoio di Zangezur” e la conseguente possibile perdita della base russa a Gjumri.
L'accordo di Washington trascura inoltre la questione dei rifugiati armeni, irrisolta dal momento della loro fuga dal Nagorno nel 2023; per non parlare della richiesta azera di modifica della Costituzione armena, laddove si fa riferimento all'Artsakh, per eliminare ogni “rivendicazione sulla sovranità e l'integrità territoriale dell'Azerbajdžan". Tutti aspetti che creano i presupposti per l'instabilità interna in Armenia, tenendo conto che le elezioni parlamentari del 2026 potrebbero benissimo portare al potere forze completamente diverse che, come afferma il blogger “Mejster”, potrebbero voler riprendere quanto perso dal “Gorbacëv armeno”.
Insomma, come osserva ColonelCassad, al momento l'accordo siglato a Washington è quantomeno un “insuccesso” per Mosca, oltre che una minaccia diretta per l'Iran, anche se, di fatto, tutto questo era abbastanza prevedibile, dopo l'andata al potere, sulla spinta dell'ennesima “rivoluzione colorata”, di Nikol Pašinjan, nel 2018, che ha scientemente ceduto il Karabakh, parte dei territori confinari armeni e, infine, fornendo di fatto a Turchia e Azerbajdžan un corridoio extraterritoriale. Da qui, non si possono escludere ulteriori passi, del tipo il ritiro di Erevan dal ODKB e da CSI, la cessione della base di Gjumri, l'allentamento dei rapporti con Teheran, la rinuncia a sollevare il tema del genocidio armeno da parte dei turchi, ecc. Fa appena sorridere, nota ColonelCassad, ascoltare le odierne lamentele su un Pašinjan che svende gli interessi armeni, anche a danno di quelli russi. È dal 2018 che gli osservatori più attenti stanno ammonendo su questa involuzione.
Per Mosca, quanto sta avvenendo in Armenia, è paragonabile alla comparsa della base aerea yankee a Manas, in Kirghizija (rimasta attiva dal 2001 al 2014 quale centro di transito concesso agli USA per le necessità delle truppe americane in Afghanistan), con Russia e Cina che impiegarono vari anni per eliminarla. Oggi, nel Caucaso, insieme a Mosca ci sarà Teheran a contrastare la presenza USA. Ma, per il momento, pare che Mosca non intenda forzare la situazione, in attesa degli sviluppi ucraini: da qui l'interesse occidentale a prolungare la guerra, per rafforzare le proprie posizioni nelle altre sfere di influenza attorno alla Russia.
A conti fatti, osserva Aleksandr Grišin su Komsomol'skaja Pravda, dall'intesa escono quattro vincitori: Baku, Ankara, Washington e NATO. In pratica, l'Armenia, svendendo il “corridoio di Zangezur” (proprio su proposta armena, il percorso viene denominato TRIPP: "Trump Route for International Peace and Prosperity") non ha ottenuto nulla in cambio.
Per parte loro, gli USA hanno ottenuto il pieno controllo, per 99 anni, del "corridoio": 40 km di strada, nel sud della regione armena di Sjunik, che collegano il territorio del "Grande" Azerbajdžan alla sua autonomia di Nakhicevan e potranno stanziarvi almeno un migliaio di uomini di compagnie private, armati con blindati leggeri. Baku ottiene il libero movimento di ogni merce attraverso il territorio armeno sulla “TRIPP”. Washington revoca ogni precedente restrizione alla cooperazione militare con Baku, intendendo sommergere l'Azerbajdžan di armi yankee.
Sempre grazie al “TRIPP”, la Turchia ottiene un accesso diretto al mar Caspio e quindi agli altri paesi dell'OTG (Organizzazione degli Stati Turchi) in Asia centrale, quali Kazakhstan e Turkmenistan; per Ankara si apre anche l'opportunità logistica di realizzare una propria base militare in Azerbajdžan. Di conseguenza, anche la NATO è tra i vincitori, dal momento che una base militare di un paese NATO è in pratica una base dell'Alleanza sul fronte anti-russo.
Tra i perdenti, c'è in primo luogo l'Armenia: oltre al fatto che il “TRIPP” sottrae parte del territorio armeno alla sua giurisdizione, questa è proprio la parte che garantisce le comunicazioni con le regioni di confine dell'Iran, neutrale e amico dell'Armenia. Dei vicini neutrali di Erevan, rimane solo la Georgia: tutto il resto può essere tranquillamente classificato come territorio ostile. Consentendo a condizioni d'eccezione per il transito di merci azere attraverso il proprio territorio, l'Armenia non riceve nulla in cambio: nessun vantaggio in termini di trasporto, ad esempio verso Iran o Russia, ponendo, di contro, le proprie rotte di trasporto terrestre con l'Iran sotto controllo di compagnie militari yankee. Per non parlare della “sospensione”, decisa da Erevan, dell'adesione al ODKB, che pone praticamente il destino armeno nelle mani turche e azere.
Per quanto riguarda la Russia, a parere di vari osservatori, esce indebolita da questi eventi: difficile negare una diminuzione dell'influenza russa nella regione, come pure è da prevedere, come già accennato, il ritiro a medio termine della 102ª base militare russa da Gjumri. L'inaudita campagna russofoba, scrive Grišin, lanciata dai media filogovernativi armeni, non lascia dubbi sull'obiettivo finale: il completo ritiro della Russia dall'Armenia.
Rimane comunque il dubbio che Nikol Pašinjan faccia in tempo, prima delle elezioni parlamentari del 2026, a indire un referendum sulla modifica della Costituzione nel senso previsto dall'intesa di Washington - eliminare ogni “rivendicazione sulla sovranità e l'integrità territoriale dell'Azerbajdžan" - e, quindi, a concludere un trattato di pace a tutti gli effetti con l'Azerbajdžan sotto dettatura di Turchia, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Ma, per ora, è solo un dubbio.
FONTI:
https://colonelcassad.livejournal.com/10004684.html
https://www.kp.ru/daily/27736.5/5125955/