Loretta Napoleoni - Il paradosso saudita e i nuovi equilibri del Golfo
Il baricentro si è spostato. E in Medio Oriente, quando cambia il vento del denaro, cambia anche la direzione della storia.
di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico
Dieci giorni fa’, nel deserto scintillante di Riyadh, sotto i riflettori della visita presidenziale americana, abbiamo assistito ad un nuovo rituale del capitalismo globale: la danza degli annunci miliardari.
Centinaia di miliardi di dollari promessi tra strette di mano e sorrisi, mentre Trump elogiava il "rinascimento arabo", frase coniata dal nostro Renzi qualche anno fa’, e la Vision 2030 di Mohammed bin Salman brillava come una nuova stella nel cielo mediorientale. O almeno questo e’ quanto i media di regime ci hanno voluto far credere. In realtà’ sotto il tappeto rosso, il profumo dell’incenso si mescolava all’odore acre del dubbio.
L’Arabia Saudita, colosso petrolifero e politico, non è più l’eldorado finanziario di una volta. Il suo budget è in profondo deficit, il prezzo del petrolio è troppo basso per bilanciare i conti pubblici e i fondi sovrani – in particolare il mastodontico Public Investment Fund (PIF) – iniziano a scricchiolare sotto il peso di promesse sempre più ambiziose. Mentre il regno emette obbligazioni come mai prima (oltre 14 miliardi di dollari quest’anno), le attenzioni degli investitori internazionali si spostano. Non verso Occidente, ma verso Oriente lungo la penisola arabica. Da Riyadh vanno a Doha e Abu Dhabi.
Il nuovo ordine finanziario del Golfo non si scrive più in funzione della potenza saudita. Il Qatar, con una popolazione dieci volte inferiore, ha promesso 1.2 trilioni di dollari agli Stati Uniti – di cui mezzo trilione gestiti direttamente dal suo fondo sovrano. Gli Emirati Arabi Uniti, con un bilancio ben più solido e un prezzo di estrazione del petrolio più basso di quello saudita, possono permettersi di investire pesantemente in settori ad alta tecnologia come l’intelligenza artificiale e la finanza. In silenzio, senza show mediatici, queste nazioni del Golfo stanno ridefinendo le regole del gioco.
Il paradosso saudita è evidente: il paese con il maggior bisogno di investimenti esteri per sostenere la sua trasformazione economica è anche quello con meno spazio fiscale e crescente pressione interna. A differenza dei vicini, che cercano investimenti esterni per diversificare e consolidare il proprio potere finanziario globale, Riyadh deve usare ogni dollaro per sopravvivere alla sua stessa ambizione. Ogni operazione estera deve avere un impatto diretto sull’economia domestica. Il tempo dei grandi colpi di scena internazionali sembra finito.
La Vision 2030 si trasforma così da visione futurista a necessità. Gli asset manager americani accorsi nella capitale saudita durante la visita presidenziale – BlackRock, Franklin Templeton e altri – hanno firmato accordi mirati a sviluppare il mercato finanziario locale, non a espandere portafogli globali. Il cambiamento è sottile, ma cruciale.
E’ stata la globalizzazione, da tempo alleata delle monarchie del Golfo nella loro espansione finanziaria, che oggi ne ridisegna i confini. I capitali sono più mobili, certo, ma anche più selettivi. La crescente concorrenza tra piazze finanziarie, la regionalizzazione delle catene del valore e la pressione sulle economie dipendenti dalle risorse naturali stanno restringendo il margine d’azione saudita. Se ieri bastava un fondo sovrano con miliardi a disposizione per attirare i grandi nomi della finanza, oggi servono stabilità, trasparenza, infrastrutture digitali e capitale umano. Il baricentro della globalizzazione si è spostato verso chi sa offrirli: Singapore, Abu Dhabi, persino Doha. In questo nuovo mondo interconnesso, l’isolamento non è più un’opzione. E l’Arabia Saudita, pur al centro geografico del Golfo, rischia di restarne ai margini economici.
Mentre a Doha i telefoni squillano senza sosta, con investitori desiderosi di partecipare alla nuova corsa all’oro liquido – il gas – e Abu Dhabi si riempie di hedge fund attratti dalla pioggia di petrodollari, a Riyadh regna la cautela. La finanza saudita, un tempo bulimica e onnivora, oggi si affanna a far quadrare i conti e a mantenere le promesse fatte su palcoscenici troppo grandi.
Questa nuova geografia della finanza del Golfo racconta più di una semplice redistribuzione di capitale. È il segnale che il modello rentier saudita, fondato sul petrolio, sull’autoritarismo illuminato e su una modernizzazione dall’alto, sta esaurendo la sua spinta propulsiva. Il regno deve scegliere: mantenere l’immagine di potenza globale o costruire pazientemente la propria resilienza economica interna.
Il baricentro si è spostato. E in Medio Oriente, quando cambia il vento del denaro, cambia anche la direzione della storia.