Napoli canta, i balconi sospirano: Gaza tra scudetto e sudari
di Pasquale Liguori
Nelle stesse ore in cui il Napoli conquistava il suo quarto scudetto, in Italia si promuoveva un gesto simbolico: 50mila sudari da appendere ai balconi, in memoria delle vittime del genocidio israeliano a Gaza. Un’iniziativa che, più che incrinare l’ordine delle cose, finisce per confermarlo. Perché oggi la compassione bianca è diventata il nuovo deodorante morale dell’Occidente: ci commuove senza coinvolgerci, ci assolve senza esporci. Non c’è nulla di più funzionale allo status quo di una coscienza occidentale che si ripulisce l’anima con il lino bianco, evitando di sporcarsi le mani nella lotta. Lo ricordava Susan Sontag: estetizzare il dolore significa spesso renderlo innocuo, consumabile. Guardare il dolore altrui diventa così un modo per non sentirlo davvero. Una forma di consumo emotivo, attraverso immagini, simboli, hashtag, luci spente a intermittenza e lenzuola. E già, perché solo alcune vite diventano “piangibili” per l’ordine dominante. Le altre vengono ignorate, almeno finché non sono così numerose da diventare un peso anche per la coscienza del colpevole.
E così Gaza, dopo venti mesi di genocidio, entra nel radar morale degli italiani “sensibili”, ma lo fa quasi sussurrando, senza cifra, senza rabbia. Il sudario, oggi, non rappresenta Gaza: rappresenta la difficoltà ad agire, il bisogno di sentirsi dalla parte giusta senza rischiare nulla. Nessuna denuncia politica forte, persino la conta delle vittime è evocata al ribasso dal titolo che dà nome all’iniziativa: v’è solo il bianco della rimozione. Il sudario, allora, diventa il paravento morale del privilegio, permettendo di dire “ci siamo” senza esserci davvero. È la versione domestica e ordinata della lotta, cioè un attivismo che non turba, non disturba. È “mourning-washing”, una forma di lutto a uso e consumo dell’Occidente sensibile. Insomma, una pietà che arriva in ritardo, con il volto pulito e il cuore leggero. Ma la pietà non è resistenza, il pianto non è politica, il balcone non è una barricata.
A Napoli, nel frattempo, si esultava. E non solo per il calcio. La moltitudine, il soggetto collettivo, agiva, inventava, resisteva. Tra le bandiere azzurre, spuntavano striscioni e bandiere palestinesi. Non per commemorare un lutto, ma per celebrare una fratellanza, per affermare una comunanza storica fatta di marginalità, sfruttamento, resistenza. Non per moralizzare, ma per riconoscersi. Dunque, non compassione, ma connessione: solidarietà reale, quella che vede nell’altro oppresso il proprio stesso volto. Fanon lo diceva chiaramente: non si lotta per l’altro come se fosse debole, ma con l’altro, perché si è deboli insieme, alleati nello stesso campo di forza.
Napoli non ha compatito. Ha condiviso. E quella gioia collettiva, contaminata da segni di riscatto globale, è autentica, rivoluzionaria. Lo striscione coi colori della Palestina issato a Forcella nel mezzo della festa napoletana non è un fiore sul feretro, è riscatto. Diversamente dal lenzuolo steso in solitudine, quella bandiera non chiede, non supplica, non espia: è lì che la vita si fa politica. Non lutto, ma potenza e grida: siamo noi, siete voi, siamo insieme nella stessa lotta. La festa può essere sovversione, disordine che scardina e l’urlo liberatorio allo stadio Maradona o in Piazza del Plebiscito è gioia che rompe il calcolo, che fa tremare.
Ecco perché la bandiera palestinese nel cuore del delirio calcistico vale mille lenzuola stese in silenzio. Chi stende lenzuola senza disturbare nulla, non sta con Gaza: sta con sé stesso. Gaza non ha bisogno della nostra pena. Ha bisogno della nostra alleanza attiva. Non dobbiamo piangerla. Dobbiamo esserla.