PIU’ CONOSCENZA, MENO LAVORO. Perché l'occidente non ha alternative per la sua sopravvivenza

PIU’ CONOSCENZA, MENO LAVORO. Perché l'occidente non ha alternative per la sua sopravvivenza

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di Pierluigi Fagan 


PIU’ CONOSCENZA, MENO LAVORO. Cosa servirà di più, qui in Occidente, nei prossimi trenta anni? Credo che la formula del titolo esprima bene il necessario.

Il meno lavoro non è una libera opzione, è un fatto che già sta accadendo e accadrà sempre di più. Il lavoro tende a diminuire per varie ragioni. La prima è il raggiunto plateau della curva logistica dei bisogni e delle innovazioni. Pensiamo ancora con una mentalità novecentesca formatasi a seguire le rivoluzioni del vapore, della meccanica, dell’elettricità, della chimica. Ma oggi siamo già pieni di aerei, navi, treni, macchine, moto, frigoriferi, televisori e tutto il resto, quello che produciamo va in sostituzione spesso forzata (obsolescenza programmata) di ciò che già c’è e l’innovazione è più di forma (l’auto elettrica ad esempio) non di sostanza.

L’unica cosa davvero nuova degli ultimi cinquanta anni, sono i soli strumenti informatici, importanti certo, ma non in grado di sostenere il volume produttivo, quindi occupazionale, del passato. Per altro, poiché ormai tutto il mondo produce ed in alcuni casi anche meglio di noi, questi nuovi comparti non sono più occidentali. La meccanizzazione che ha portato la forza lavoro agricola a livelli dell’uno o due per cento del totale, altrettanto ha fatto e continua a fare nell’industria. Viepiù, unendosi all’informatizzazione, sta facendo e sempre più farà anche nel nuovo, dilatato, comparto dei servizi che, nei paesi occidentali, fa oggi il 70-80% del Pil e relativa occupazione. L’informatizzazione, il digitale, l’AI, l’on line, inventano davvero poche “cose nuove”, per lo più modificano quelle vecchie. E questa modifica, porta un saldo occupazionale in genere negativo. Del resto, nel modo economico che abbiamo, se non portassero un beneficio nel costo del lavoro e quindi nel profitto, non si affermerebbero. Pensate solo a quanti commessi/e, impiegati, distributori, logistici, ragionieri, camionisti, capannoni, negozianti e servizi annessi, vengono oggi cancellati ad ogni click su Amazon.

Infine, oltre ad una concorrenza asiatica ormai sempre meno sfidabile, ci sono i raggiunti limiti ambientali che consigliano di decelerare dall’incrementale saccheggio delle materie prime e dalla crescente e voluminosa produzione di scarti.

La necessità o anche la sola possibilità di lavoro umano quindi decresce con lo sviluppo digitale ed informatico, decresce per raggiunto iper-sviluppo, decresce qui da noi per via della concorrenza estera e decresce in forma geometrica. Un secolo fa, il governo socialdemocratico tedesco in quel della Repubblica di Weimer, portò la giornata di lavoro allo standard delle otto ore e così venne ratificato a livello mondiale dell’ International Labour Organization (1919). Un secolo, è passato un secolo da allora, è passato cambiando il mondo ma non ancora l’immagine che ne abbiamo. Di contro, quanto detto si riflette nella crescita Pil ad indici molto contenuti (media +1.9% annuo ultimi diciannove anni, dal 2000, paesi OCSE-OECD) e senza i dati 2020-2021 che saranno molto negativi abbassando ulteriormente la media già anemica. Sono venti anni che cresciamo sempre meno. Meno lavoro quindi non è un’opzione, è già un fatto.

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Il bisogno di conoscenza tende ad aumentare per varie ragioni. La prima è che la nostra parte di mondo ha qualche speranza di trattenere settori produttivi all’interno della divisione internazionale del lavoro, solo se si concentrerà sulla produzione di qualità. La qualità delle produzioni può esser materiale o intellettuale, ma anche quella materiale va prima inventata, pensata, organizzata.

Ma la seconda ragione è anche più importante. Una società in cui il lavoro mantiene un suo peso ma non è più totalizzante le 16 ore di veglia, dovrà cambiare molte delle sue istituzioni, inteso qui il termine in senso sociologico, quindi poi economico-politico. L’intera società dovrebbe consapevolmente partecipare di questa riformattazione, va riformulato il contratto sociale, un lavoro eminentemente politico, complesso e decisivo per le sorti delle nostre forme di vita associata. Questo processo auspicabilmente partecipato, necessita di maggiore conoscenza condivisa.

Ma forse la seconda è importante almeno quanto la terza. La terza ragione è che l'Occidente proviene da una lunga storia di dominio e sfruttamento del mondo, umano e naturale, il che ha facilitato molto la qualità della sua struttura interna. Oggi questo dominio non è più possibile e sempre meno lo sarà nei prossimi trenta anni. Noi occidentali, unendo anglosassoni e euro-continentali ed oceanici, eravamo il 30% del mondo nel 1900. Oggi siamo il 15%, forse meno. Tra trenta anni saremo il 12%. Ma al di là dell’essere di meno e mediamente molto più anziani, la “distanza” di potenza (includendo qui tutti i fattori del concetto: produttivi, tecnologici, militari, economici, geopolitici) tra noi ed il resto del mondo si va riducendo in maniera sensibile e non c’è motivo di non ritenere che in alcuni campi del sapere e del produrre, ci troveremo in futuro in una situazione di dipendenza più che di dominio. Infine, il libero sfruttamento della natura non ha futuro, anzi annulla la nozione stessa di futuro.

C’è da adattarsi a questo stato di cose inedito, lo stato del mondo va introiettato nelle immagini di mondo, quello appena accennato, ma anche quello del suo riflesso geopolitico, culturale, ambientale, tecnologico e sanitario. Questo argomento macro precede i temi della globalizzazione, del neoliberismo, della dittatura sanitaria, dovremmo dedicargli più attenzione. Mi si perdonerà la franchezza, spero, ma quello che anche qui si legge su teorie che vorrebbero spiegare eventi importanti come la pandemia in corso o prima la questione climatico-ambientale o il ruolo della Cina nel mondo o le migrazioni africane, tradiscono non una legittima divisione ideologica interpretativa che ci sarà sempre ed è bene ci sia, ma un fondo di assoluta ignoranza, di non-conoscenza delle cause fondamentali base degli eventi. Anche l’animosità con cui si reagisce a questa constatazione ritenendola ideologica poiché “una opinione vale l’altra” è segno di una deriva di irrealismo preoccupante, di rifiuto nevrotico mosso dall’ansia.

Oggi siamo alle prese con una pandemia dall’indice di mortalità per altro molto, molto basso, figuriamoci cosa accadrà con le pressioni migratorie, ambientali, tecnologiche, geopolitiche dei prossimi anni. “Più conoscenza” non è solo rivolto ai giovani, noi siamo sempre più anziani, tutti debbono studiare di più le cose del mondo per poi dibatterle e pervenire a decisioni su come farvi fronte. Studiare di più richiede tempo, tempo da liberare dal lavoro non più necessario.

Se vogliamo mantenere quantomeno vive se non in salute le nostre società, le loro popolazioni devono esser maggiormente in grado di partecipare alle trasformazioni adattive già oggi necessarie ma sempre più fondamentali per gestire il difficile adattamento ai tempi che vengono. Tempi complessi, i tempi moderni son finiti da settanta anni, siamo terribilmente in ritardo …

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