Sangue Nostrum: le responsabilità dell'Ue e il "sistema di Dublino"

Sangue Nostrum: le responsabilità dell'Ue e il "sistema di Dublino"

Immigrazione e asilo: l'ennesima, forse ultima, dimostrazione del fallimento di un'"Unione"

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di Paolo Becchi, Daniela Vitiello e Alessandro Bianchi


Ci sono questioni che devono ritornare di competenza esclusiva degli stati e questioni che possono essere affrontate solo a livello transnazionale, perché per definizione fenomeni globali. L'Unione europea riesce nell'incredibile risultato di sbagliare l'approccio in entrambi i casi: interviene e decide laddove dovrebbero essere competenti i governi, i parlamenti e le banche centrali degli stati nazionali; e poi scarica l'onere sugli stati, mentre sarebbe richiesto un meccanismo centralizzato di regolazione. La gestione dei flussi migratori e delle richieste di protezione internazionale ne è la testimonianza più lampante. 
 
Il cosiddetto "sistema di Dublino" è il punto di partenza per comprendere la questione. Istituito nel 1990 con l’adozione di una Convenzione da parte di dodici paesi membri delle allora Comunità europee (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito), è stato “comunitarizzato” con il Regolamento Dublino II (343/2003), recentemente rifuso nel Regolamento Dublino III (604/2013). 
 
Il sistema di Dublino si basa su “criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide”, determinazione che dovrebbe avvenire nel rispetto della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951 e degli altri obblighi internazionali, che gli Stati membri dell’Unione hanno assunto in materia di protezione internazionale. Fondamentale, per il corretto funzionamento del sistema, è la banca dati EURODAC (Reg. 603/2013) , che raccoglie le impronte digitali dei cittadini di paesi terzi richiedenti protezione internazionale e di quelli fermati nell’atto di varcare illegalmente i confini esterni dell’Unione e consente a uno stato membro di verificare se un clandestino che si trova nella propria giurisdizione abbia presentato una domanda di protezione in un altro stato membro. 
 
Il Regolamento Dublino II ha posto, di fatto, seri ostacoli all’effettiva tutela dei richiedenti asilo nella delicata fase dell’esame delle istanze di protezione. Inoltre, a fronte della moltiplicazione dei flussi migratori via mare, ha condotto a una distribuzione scarsamente equa delle domande tra gli stati membri. Infine, il modo in cui è stato applicato dagli stati membri ha evidenziato inefficienze, incongruenze e, in generale, una situazione di ritardi cronici nell’attuazione delle procedure.
 
Il Regolamento Dublino II ha dimostrato la propria inefficacia con il collasso del sistema di asilo greco, risultato anche dell’assenza di un meccanismo di solidarietà interno tra i paesi membri. Non era efficace perché ha previsto l'istituzione di un immenso impianto di burocrazia con costi enormi per lo smistamento dei “casi Dublino” da uno stato all'altro, per adibire luoghi di detenzione e per sopportare gli spostamenti. Sono stati perlopiù soldi sprecati. È sintomatico di tale inefficienza che Eurostat non abbia fornito statistiche sui costi e nemmeno su quanti trasferimenti vanno effettivamente in porto. Una volta aperta una pratica “Dublino”, non è possibile, quindi, sapere se andrà a buon fine, ma intanto si paga: secondo alcune stime nazionali, solo il 10% delle pratiche “Dublino” si concludono con l’effettivo trasferimento del ricorrente.
 
Una riforma era stata chiesta da tutti gli operatori del settore, ma cos'è cambiato realmente con il nuovo Regolamento Dublino III? È stata “estesa” la nozione di “famiglia” ai fini del ricongiungimento del richiedente, ma intatta è rimasta la ratio del sistema di Dublino, che è quella di limitare i flussi c.d. “secondari” di cittadini di paesi terzi da un paese membro dell’Unione all’altro. Né può dirsi accresciuta l’efficienza sistemica della cooperazione di Dublino. Al contrario. Il meccanismo non era efficace con Dublino II, non è efficace con Dublino III. Infatti, nel nuovo sistema è ancora possibile, per uno stato membro che non effettui il trasferimento entro i limiti temporali previsti, sottrarsi all’assunzione della responsabilità per l’esame di una domanda, o, se si vuole, “aggirare” le disposizioni volte ad assicurare che il trasferimento avvenga effettivamente (v. Reg. di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione europea, art. 9, par. 2).
 
Non stupisce, quindi, che già vi siano stati appelli, nei fora internazionali rilevanti, alla revisione del neonato Regolamento Dublino III. Nell'ultima risoluzione dell'OSCE “on Comprehensive Immigration Reform”, adottata sulla base di un testo presentato dalla senatrice del Movimento Cinque Stelle Cristina De Pietro, l’Assemblea parlamentare dell’Organizzazione ha appunto chiesto agli stati parti che sono anche membri dell’Unione, di impegnarsi per una riforma generale delle politiche europee di immigrazione e asilo (par. 19). Il par. 1.1, lett. g) della risoluzione OSCE afferma che il meccanismo di allarme previsto dall’articolo 33 del nuovo Regolamento di Dublino non rappresenta una risposta sufficiente e di lungo periodo alle deficienze del sistema (punto ii) e aggiunge che i beneficiari rimangono perlopiù confinati nel paese di primo asilo in seguito all'applicazione dei criteri del regolamento per l’individuazione dello stato competente all'esame della domanda (punto iii).
 
Si tratta dei due aspetti emblematici di tutto quello che non funziona del cosiddetto "sistema di Dublino". L'articolo 33 istituisce un "meccanismo di allerta" nel caso in cui l’applicazione del regolamento, e quindi lo “smistamento” dei richiedenti tra i paesi membri sulla base dei criteri in esso previsti, sia ostacolata da una “speciale pressione” sul sistema di asilo di uno stato membro e/o da problemi nel funzionamento del sistema di asilo di uno stato membro. Si tratta di situazioni in cui si trovano tutti quei paesi, Italia in primis, che rappresentano il primo approdo transfrontaliero di chi fugge da tutti quei teatri di crisi, molto spesso prodotti da chi poi si lava le mani della gestione del flusso incontrollato di disperati. L'articolo 33 si limita a istituire un meccanismo di monitoraggio che riflette la strategia con cui l'UE esercita la propria competenza in materia di immigrazione e asilo, che è una strategia rinunciataria rispetto a qualsiasi ipotesi di gestione realmente europea del problema. 
 
L'articolo 33 prevede un meccanismo in due fasi, in cui gioca un ruolo importante l'EASO, l'Agenzia dell'UE incaricata di offrire supporto agli Stati membri in materia di asilo. La prima fase si sostanzia nell’intervento “preventivo” della Commissione, che se (sulla base delle informazioni ottenute dall'EASO) stabilisce che l'applicazione del Regolamento Dublino III è ostacolata per i motivi sopra indicati, rivolge raccomandazioni allo stato membro interessato, invitandolo a  presentare un piano d'azione. Lo stato interessato informa, quindi, il Consiglio e la Commissione della sua intenzione di presentare tale piano d'azione preventivo al fine di porre rimedio alla situazione di emergenza, ma non è previsto un termine entro cui è obbligato a farlo. Inoltre, nella fase di emergenza deve comunque garantire, sempre senza alcun sostegno da parte dell’Unione, “la protezione dei diritti fondamentali dei richiedenti la protezione internazionale”. 
 
Il piano viene, poi, sottoposto al Consiglio e alla Commissione che ne informa il Parlamento europeo. Spetta, comunque, solo allo stato in questione adottare tutte le misure appropriate per affrontare la situazione emergenziale, tanto nel caso in cui l’emergenza dipenda dalle carenze del sistema di asilo nazionale, tanto nell’ipotesi in cui il collasso di tale sistema sia conseguenza di una “speciale pressione”, vale a dire del fatto che lo stato in questione rappresenta, appunto, il primo approdo transfrontaliero di chi fugge da teatri di crisi per chiedere protezione internazionale. E qualora lo stato membro interessato non riesca, con i suoi soli sforzi, a risolvere gli ostacoli al funzionamento del sistema di Dublino, tutto ciò che l’articolo 33 prevede è l’apertura di una seconda fase, questa volta “operativa”, che si risolve nella richiesta della Commissione, allo stato stesso, di redigere un nuovo piano d’azione, questa volta non preventivo, ma “per la gestione della crisi”. In questo caso è previsto un termine: lo Stato deve intervenire al più tardi entro tre mesi dalla richiesta della Commissione. Successivamente alla presentazione del piano, almeno ogni tre mesi, lo Stato interessato deve fornire una relazione sull'attuazione del piano, in cui siano specificate le azioni intraprese per rimuovere gli ostacoli al corretto funzionamento del meccanismo di Dublino (ad es., la durata della procedura, le condizioni di trattenimento, la capacità di accoglienza in relazione all'afflusso). L'ultimo comma dell'articolo 33 prevede poi che “Per tutta la durata del processo, Consiglio e Parlamento possono esaminare e fornire orientamenti in merito a eventuali misure di solidarietà che ritengano opportune”. Quello che il Regolamento non disciplina è una eventuale terza fase: quella che si aprirebbe se dopo il piano d'azione la situazione non dovesse migliorare ovvero addirittura peggiorasse fino a degenerare in una "crisi" migratoria.
 
In ultima analisi, il Regolamento Dublino III non prevede un meccanismo solidale di “burden sharing”, né una forma di aiuto economico agli Stati soggetti a una “speciale pressione” di richiedenti protezione, vale a dire ai paesi della frontiera esterna meridionale dell’Europa. La gestione dei flussi migratori da teatri di crisi, come Libia, Siria, Egitto, non può essere un problema statale, ma richiede un approccio integrato e solidale. Nell'adottare delle soluzioni pseudo nazionali per problemi transanzionali, l'Unione europea ha, al contrario, istituito un sistema fallimentare. Inoltre, i criteri indicati dai Regolamenti di Dublino, non aggiornati in seguito all’evoluzione delle rotte migratorie, oggi perlopiù marittime, danno luogo a risultati di allocazione delle domande di protezione non equi. Tali criteri potevano avere un senso all’epoca della Convenzione di Dublino, che era stata pensata per gestire l'emigrazione tipica degli anni '90, vale a dire movimenti transfrontalieri di persone che si spostavano via terra. 
 
A fronte di queste considerazioni, appaiono alquanto insulse le parole del Ministro dello sviluppo tedesco, Gerd Müller, che lo scorso martedì 15 luglio, a margine di un incontro informale con gli altri ministri europei a Firenze, ha dichiarato che intende combattere "la peggior crisi di rifugiati negli ultimi 50 anni” con più soldi e più personale. Le parole di Müller, ironia della sorte, sono arrivate lo stesso giorno in cui Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui attacca in maniera durissima gli sprechi e le inefficienze delle politiche di immigrazione e asilo europee. Tra il 2007 e il 2013, si legge nel rapporto, l'UE ha speso circa due miliardi di euro per costruire la sua “fortezza” e proteggere i confini. In confronto, solo 700 milioni di euro sono stati spesi per sviluppare i sistemi d'asilo e migliorare la situazione dell’accoglienza dei richiedenti. “È macabro che l'Unione Europea stia spendendo miliardi nel chiudersi in una fortezza e non un singolo centesimo su dei piani di salvataggio solidale tra i paesi nel Mediterraneo”, ha spiegato il Segretario Generale di Amnesty International in Germania, Selmin Çalışkan.
 
Di soldi l'Europa ne ha sperperati a sufficienza e mai per affrontare la radice dei problemi. L’Europa coltiva e alimenta il potere di una burocrazia sempre più inutile e e militarizza i propri confini con strumenti di controllo del territorio tanto sofisticati quanto inefficaci. Sulla pericolosità di una agenzia come Frontex, che ha un budget annuale di 80 miliardi di euro senza alcun controllo e trasparenza, ritorneremo in un nuovo articolo, ma quello che deve essere qui chiaro è che sui problemi dell’immigrazione e dell’asilo, l'Unione europea deve dimostrare di avere un approccio solidale e centralizzato.

Nelle condizioni attuali, a breve gli stati del sud, quelli in ginocchio economicamente per la partecipazione ad un'unione monetaria insostenibile e fallimentare, collasseranno nella gestione dei flussi migratori. In Grecia è già accaduto ed in Italia è solo questione di mesi. Il tutto mentre dei poveri disperati che fuggono da paesi dove non è più possibile vivere per crisi, il caso della Libia è emblematico, molto spesso prodotte da quei paesi che poi si lavano le mani del loro destino da esseri umani. Per il colpevole atteggiamento dell'Unione Europea, queste persone continuano a morire in mare o di stenti e disperazione, in quei lager dove vengono confinati al loro arrivo. 
 
Purtroppo le risoluzioni internazionali, come quella dell'OSCE, sono molto spesso parole vuote per gli stati. Ma l'Italia deve richiamarsi ad essa e chiedere al più presto una riforma del sistema di Dublino in cui siano previsti meccanismi europei di supporto economico a quei paesi che affrontano una “speciale” (e incolpevole) pressione sul proprio sistema di asilo o di redistribuzione, in altri stati membri, dei richiedenti di cui lo stato membro competente non riesce a farsi carico, nonché una revisione dei criteri di allocazione delle domande di protezione che non penalizzi alcuni stati a vantaggio di altri. Se quest'ultimi dovessero rifiutarsi, avremo l'ennesima, forse ultima, dimostrazione del fallimento di un'Unione, che rappresenta ormai solo le istanze dei paesi forti. 

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