Gaza e la cronaca dell’inadeguatezza borghese
di Pasquale Liguori
Ci sono articoli che, senza volerlo, finiscono per dire molto più sulla società che li produce che sull’evento che raccontano. L’articolo “Pensieri in marcia per Gaza. Tra rabbia e scollamento” di Giulia Pilotti su Domani, in cui narra la sua partecipazione al corteo milanese per Gaza, non è tanto un’analisi politica quanto un diario di coscienza. Eppure, ha un merito: quello di dichiarare con un candore quasi disarmante tutto ciò che solitamente viene nascosto dietro la retorica della piazza e del presunto “movimento nascente”.
L’incipit è già rivelatore: “Lunedì scorso, sotto una pioggia da monsone thailandese, ho portato mio figlio all’asilo per poi unirmi al corteo… A dirla tutta, prima sono andata a fare colazione in pasticceria, per rispondere alla domanda di Gassman ne La terrazza: a che ora è la rivoluzione? E come si viene, già mangiati?”. Non c’è riconoscimento dell’urgenza storica, né riferimento al genocidio, peraltro mai nominato nel testo. Gaza non entra in scena come ferita viva, ma come sfondo lontano. Milano è il teatro e, soprattutto, il centro resta l’io narrante, impegnato a registrare le proprie tappe quotidiane prima della marcia. È la riduzione della tragedia a cornice esistenziale, la politica come intermezzo nella routine, e già qui si delinea l’orizzonte di un gesto che non trascende l’autonarrazione.
Tra un passo e l’altro, la colonna sonora del corteo evoca ancora una volta la dimensione privata più che quella pubblica: “Aleggia intorno a noi come una canzone dei 99 Posse, io penso a due cose: la prima è che dopo circa quindici anni il testo di Rigurgito antifascista è ancora scolpito a fuoco nel mio cervello, mentre ho rimosso tutte le declinazioni di latino; la seconda è che so che manifestare è una buona idea, ma come al solito ho questo sospetto che non serva a niente.” Qui c’è la fotografia ben composta dell’ambivalenza borghese: la memoria di un brano musicale come unico patrimonio duraturo, contrapposta alla cancellazione di ogni formazione politica o culturale strutturata; la consapevolezza che “manifestare è una buona idea” subito annullata dal sospetto che sia inutile. È la testimonianza di chi sa già che il gesto sarà inefficace e, appunto, lo compie come rito che serve a confermare sé stesso. Non denuncia politica, ma autoritratto dell’impotenza.
Questa autoironia torna ancora più esplicita in un altro passaggio: “…mi chiedo se non ci siano modi migliori di questo, se la rivoluzione non possa cambiare e trovare modi più efficaci per realizzarsi. La risposta probabilmente è no, soprattutto non grazie a me, che all’altezza del Piccolo Teatro mollo il corteo per tornare a casa a tirarmi il latte, proprio come Che Guevara.” L’accostamento tra un’esigenza personale e la figura simbolica della rivoluzione è paradossale. Ma è anche rivelatore: la protesta viene vissuta come frammento individuale, parentesi interrotta dalla vita privata. Non c’è orizzonte collettivo, non c’è volontà di organizzazione. La politica si dissolve in cronaca quotidiana, la rivoluzione si riduce a un inciso ironico nella lista delle cose da fare.
L’articolo raggiunge il suo punto più lucido quando registra lo scarto insopportabile tra la realtà e il proprio benessere: “Credo ci sia un certo scollamento tra la rabbia, la tristezza, l’orrore che si prova di fronte alle notizie che leggiamo ogni giorno e il benessere che coltiviamo nelle nostre vite private, tra le foto dei piccoli cadaveri di Gaza avvolti in teli approssimativi e la copertura per la pioggia con cui quella mattina avevo foderato il passeggino di mio figlio perché non si prendesse nemmeno una goccia d’acqua.” È un riconoscimento che non lascia indifferenti: da un lato il massacro di bambini ridotti a numeri, dall’altro la premura per il proprio figlio ben protetto dalle intemperie. Il divario è dichiarato con sincerità, restando sterile. L’orrore non si traduce in lotta, ma in un sentimento che serve a spiegarsi a posteriori.
Ecco, quindi, che il senso dell’impegno si riduce a obbligo morale nei confronti del figlio: “Mettermi nella condizione di raccontare a quel bambino bello asciutto che la mamma stava coi buoni e che, quando l’Italia si fermò per protestare, lei era per le strade di Milano dalla parte giusta (almeno fino alle 12:00, poi doveva tirarsi il latte).” La politica diventa così narrazione domestica, priva di effetto reale. È l’idea che basti testimoniare la propria presenza perché un giorno se ne possa parlare in famiglia, come se l’etica del ricordo sostituisse la pratica della lotta.
L’unico accenno a radicalità emerge nella riflessione sugli scontri: “Forse i vetri spaccati della Stazione Centrale sono la risposta a queste domande, non fosse che forse non serve a niente nemmeno quello. Fossero state almeno le vetrine di Montenapoleone, Milano allora avrebbe preso nota dell’evento. Invece martedì è iniziata la Fashion Week, e la città è andata avanti a passo sostenuto, riscrivendo grossolanamente la storia.” Qui affiora un’intuizione vera: sconvolgere i luoghi del privilegio. Ma è subito ritratta nell’alveo della rassegnazione: non serve nemmeno quello e la città continua indifferente. È il lampo di una verità che resta senza conseguenze.
Nel complesso, l’articolo non dice nulla su Gaza, nulla sulla resistenza, nulla sul genocidio, ma molto sulla società occidentale che osserva e misura sé stessa. Non è un difetto dell’autrice, che almeno ha la triste onestà di dirlo utilizzando leggerezza e ironia: la politica è vissuta come esperienza personale, tra faccende e riti personali, più che come lotta. È proprio questa sincerità a renderlo prezioso: perché fotografa con chiarezza una quota rilevante di popolazione che si riversa in strada e che poi prolifera nei social, nello sciame dei like, dei cuoricini, delle isterie quotidiane, consumata dalla condizione di ebetismo alimentata dall’informazione tossica e dall’assenza di formazione politica.
Non ci si riferisce a una massa trascurabile: anzi, essa costituisce una parte parecchio rilevante della società contemporanea, logorata da routine e consumi, dalla competizione per tutto, pronta a manifestare con indignazione effimera e prontissima, poi, a rientrare nelle proprie gabbie del controllo quando e se cesseranno - provvisoriamente - i massacri. Per questo la testimonianza di Pilotti non è solo un diario personale, ma un documento sociale che pone serissimi dubbi sull’ontologia stessa del “movimento nascente” che alcuni ottimisti vogliono teorizzare e accreditare a tale popolazione. Più che soggettivazione politica, si tratta del riflesso instabile di una coscienza borghese, intermittente e incapace di farsi lotta.
A differenza del bilancio proposto nell’articolo commentato, lo sciopero di lunedì 22 settembre ha espresso tendenze interessanti, soprattutto per il suo carattere autonomo e non eterodiretto. Permane il rischio che si perda nella discontinuità. Eppure, quel poco di politicamente autentico che emerge dalle nostre parti di fronte all’immane tragedia palestinese non dovrebbe essere disperso: è il lascito di una resistenza nobile, l’unica forza capace di incrinare il mastice coloniale che salda insieme sangue e spettacolo e di aprire la strada a una politica autentica di liberazione.