I maranza, i piccoli bianchi e la guerra razziale
Pubblicato quest’anno dalla casa editrice Derive Approdi, “Maranza di tutto il mondo, unitevi!” è la traduzione italiana del testo “Beauf et barbares” della militante “decoloniale” Houria Bouteldja. Sulla carta, la tesi fondamentale del libro parrebbe condivisibile: la necessità di costruire un “blocco storico” che unisca i “barbari delle periferie”, ossia il sottoproletariato straniero, e i “bifolchi”, la classe lavoratrice “bianca”, in nome della lotta contro l’Unione Europea per ottenere un mutamento politico, economico e sociale radicale. Qualsiasi carica rivoluzionaria contenuta dal testo è però totalmente azzerata dalla prospettiva con la quale l’autrice guarda a questo ipotetico blocco, e quindi al contenuto politico ultimo che dovrebbe veicolare.
Nonostante il frequente ricorso a termini presi in prestito dalla produzione leniniana e gramsciana, Bouteldja non è un’autrice “marxista”. Militante “decoloniale”, per lei la categoria della “razza” è prevalente su quella della classe. Sarebbero appunto le dinamiche di “razza” ad aver regolato la Storia del capitalismo sin dalla sua genesi a partire dalla colonizzazione del continente americano e della deportazione verso questo di milioni di schiavi africani. La divisione dell’umanità in razze, la cui prima espressione di avrebbe solamente con la Reconquista spagnola e le discriminazione ai danni di ebrei e mussulmani, sarebbe quindi un’azione dello Stato propedeutica allo sviluppo del capitalismo. Razza, classe e genere si determinerebbero quindi reciprocamente, rendendo così possibile l’affermazione che la classe sia “una modalità della razza”[1], e viceversa.
Per quanto sia indiscutibile che con la colonizzazione delle Americhe si sia aperta un’epoca segnata dalla gerarchizzazione dell’Umanità a favore delle popolazioni europee, la cosiddetta “epoca colombiana”, appare discutibile il ricondurre a una specificità della modernità europea l’idea di una differenza “razziale” tra le genti umane. Dai dalit indiani agli iloti della Messenia, la Storia mondiale mostra numerosi esempi, a qualsiasi latitudine, di gerarchizzazioni etniche date dalla conquista violenta di un territorio e del popolo che lo abitava da parte di un conquistatore esterno. Gli imperi coloniali europei furono i primi a sviluppare una teoria “scientifica” del razzismo, ma ciò deve essere messo in relazione con le peculiarità culturali dell’epoca prodotte dalla rivoluzione scientifica, e non con una pretesa identità tra razzismo e modernità europea.
Il frutto dell’invenzione del razzismo da parte dello Stato sarebbe la sua evoluzione in Stato-nazione. Esso si baserebbe su di un “patto razziale” per il quale le classi subalterne della razza dominante accetterebbero la loro posizione in cambio della possibilità di opprimere le razze inferiori [2]. Il proletariato sarebbe quindi legato alla borghesia dalla sua partecipazione al progetto nazionale, visto come intrinsecamente razzista e “consustanziale” all’imperialismo [3], mentre l’opposizione a quella verrebbe portata avanti in maniera completa e antagonistica solamente dalle popolazioni extraeuropee. Esse, su base razziale, sarebbero quindi le uniche capaci di vera iniziativa rivoluzionaria, essendo le classi lavoratrici “bianche” quasi biologicamente incapaci di sottrarsi al “patto razziale” e di minare così il dominio imperialista della borghesia europea.
L’analisi leninista sul social-imperialismo e sull’aristocrazia operaia viene “corretta” da Bouteldja spostando la sua base dalla classe alla razza, sostituendo il materialismo con un essenzialismo razzista del tutto speculare a quello dei sostenitori del “razzismo scientifico”.
L’autrice mistifica la realtà. La formazione degli Stati nazionali, per quanto sia stata connessa allo sviluppo della borghesia e dell’economia capitalista, si è storicamente fondata su di unità economiche, linguistiche, culturali e identitarie che hanno sempre preceduto lo sviluppo capitalistico e che in nessun caso si mostrano connesse a dinamiche coloniali. Al momento della loro formazione nazionale, quale sarebbe stata la “razza” oppressa dagli Stati di Spagna, Inghilterra, Olanda o Francia? La conquista dei territori d’oltremare, la sottomissioni di interi popoli e la formalizzazione “scientifica” della loro inferiorità biologica sono tutti fenomeni posteriori, di decenni o secoli, al loro emergere come autorità predominanti in un territorio nazionalmente definito. L’argomentazione della Bouteldja si dimostra ancora più erronea se si considera la molteplicità di Stati nazionali che si sono formati senza nessun collegamento a conquiste coloniali e oppressioni razziali di vario tipo. Grecia, Italia, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Svezia, Bulgaria, Romania, Serbia e Polonia, solo per citare alcuni esempi europei, hanno visto i rispettivi Stati nazionali emergere nella totale assenza di una dimensione coloniale, che, con l’eccezione della breve parentesi italiana, è rimasta qualcosa di sostanzialmente esterno alla Storia di questi paesi. Se si estende l’analisi ai contesti extra-europei, scopriamo come la conquista di Stati nazionali sia stata lo strumento fondamentale dei movimenti rivoluzionari per opporsi a quel ruolo subordinato in cui la gerarchizzazione coloniale e imperialista li aveva relegati.
La "consustanzialità" tra imperialismo e nazione è smentita dalla realtà di un sistema imperialista la cui più evidente caratteristica è sempre stata proprio la de-nazionalizzazione, tanto dei popoli sottomessi quanto di quelli della metropoli: i primi ridotti a servi privi di Storia, identità e capacità di autodeterminarsi; i secondi inseriti forzatamente all’interno di un’identità imperiale che, universalizzata, porta alla liquefazione di quella nazionale.
E’ altresì fortemente discutibile l’affermazione per la quale le popolazioni “non-bianche” sarebbero, in virtù della propria razza, oppositrici naturali del “blocco borghese”. Bouteldja presenta i popoli colonizzati come una realtà omogenea e compattamente contrapposta agli europei sulla base di una vera e propria guerra razziale. La realtà però mostra come davanti all’imperialismo le diverse classi in cui si trovavano divisi i popoli colonizzati abbiano avuto sempre atteggiamenti differenti, dall’aperta collaborazione alla più decisa ostilità. È proprio a partire dal riconoscimento di questa pluralità di posizioni e di interessi che Mao Zedong poté guidare la più grande rivoluzione anticoloniale della storia, e non certo facendo ricorso all’assolutizzazione di categorie a-classiste come quella di “razza”.
La distorsione prospettica dell’autrice, frutto di una certa metafisica della razza che l’accomuna più ad Alfred Rosenberg che a Vladimir Lenin, la porta a identificare negli “indigeni” il soggetto rivoluzionario per eccellenza. Con questo termine, controintuitivamente, non si vogliono indicare gli autoctoni francesi, ma gli stranieri residenti in Francia o gli immigrati di seconda, terza o quarta generazione. Il binomio indigeno/bianco viene trasportato dalla realtà coloniale alla metropoli europea, e posto così a base di quella meccanica di oppressione che starebbe alla base del “patto razziale” e dello “Stato razziale”. Gli “indigeni” sarebbero i più coerenti e conseguenti oppositori dell’ordine borghese, ossia dell’ordine razzista. E’ a loro che si deve guardare per qualsiasi prospettiva rivoluzionaria. Ma le qualità intrinseche dei “non-bianchi” si estendono al di là piano politico: essi sono “radicat[i] nella [loro] fede intatta, nella [loro] bellezza”, “liber[i] da ogni convenzione”, capaci di una ribellione “maestosa e insolente” [4] e sono, soprattutto, unici che “sanno ancora amare i figli degli altri”[5], i soli capaci di empatia. Il bianco li guarda con un misto di disprezzo e invidia, conscio di quella che a tutti gli effetti pare essere una superiorità antropologica.
Gli “indigeni”, avanguardia antimperialista [6], sono quindi destinati a guidare la lotta contro il sistema capitalista. Come si devono porre rispetto ai “bianchi”? L’autrice pone la necessità di costruire un “blocco storico” che unisca il sottoproletariato straniero alla classe lavoratrice francese, i “piccoli bianchi”. Ma il ruolo guida è assegnato indiscutibilmente al primo soggetto. Sono gli “indigeni” che devono guidare i bianchi, che, per quanto alleati, rimangono pur sempre infidi: “con i bianchi, grandi e piccoli, con le loro organizzazioni e diverse rappresentazioni, bisogna sempre stare attenti” [7]. La fazione indigena deve difendere la sua autonomia e il suo ruolo guida, il sottoproletariato deve dirigere la classe lavoratrice sulla base di un privilegio di razza. E’ chiaro come prima che una tale “alleanza” possa realizzarsi i “piccoli bianchi” vadano convinti a rompere il “patto razziale”. Essi devono essere spinti ad allearsi con gli “indigeni” contro i “grandi bianchi”: ad allearsi con il sottoproletariato contro la grande borghesia. Parrebbe una prospettiva condivisibile, ma l’impianto fondamentalmente razzista la rende inevitabilmente reazionaria.
In realtà, il sottoproletariato non ha mai ricoperto un ruolo rivoluzionario, ma si presta anzi a una duplice funzione reazionaria: in tempi ordinari, esso terrorizza e umilia la classe lavoratrice tramite violenze e criminalità; in tempi di forte tensione politica e sociale, esso fornisce alla reazione una vasta ed economica manovalanza per la soppressione di qualsiasi moto popolare. Il sottoproletariato non mostra inoltre nessuna vera tensione “antiborghese”: il suo desiderio è l’ascesa sociale all’interno del sistema borghese, il “fare soldi”, e dimostra ciò anche con la piena ed entusiastica adesione alla cultura del consumo, dell’apparenza, e dell'individualismo come dimostrano, tra le altre cose, i temi della musica trap.
Mentre i settori della classe lavoratrice di origine straniera rappresentano una componente naturale di qualsiasi reale ipotetico blocco popolare, il sottoproletariato, autoctono e straniero, non potrà mai essere considerato un alleato in un percorso rivoluzionario. L’abbandono di qualsiasi prospettiva di classe porta Bouteldja ad elevare a una funzione dirigente un soggetto tendenzialmente reazionario in nome della razza. Ciò è paradossalmente giustificato in nome dell’antirazzismo. Gli “indigeni” sono ritenuti gli unici in grado di opporsi a un sistema razzista, in quanto i “bianchi”, parte del “patto razziale”, sono ritenuti naturalmente inclini al razzismo. Dei “piccoli bianchi” può essere tollerato l’animo patriottico solo in funzione strumentale, per guadagnarli come massa di manovra per la rivoluzione razziale “indigena”. La Marsigliese e la bandiera nazionale possono essere “tollerati”, ma solo in vista di una estirpazione che non potrà mai raggiungersi con “belle parole e buoni sentimenti”[8].
La nazione non è vista come un passo necessario per la costruzione di una più grande comunità umana, che superi e includa le singole realtà nazionali, ma come, in prospettiva, un ostacolo. La storia nazionale, similmente, può essere salvata, ma solo per alcuni precisi momenti ben contestualizzati. Di essa da Bouteldja è presentata una versione unilaterale e moralistica, in cui il “peccato” del colonialismo copre qualsiasi contributo dato all’Umanità. Si tratta di puro nichilismo nazionale, dell’incapacità di comprendere lo sviluppo dialettico della Storia, e quindi di comprendere come la coesistenza di fenomeni contraddittori non sia per nulla scandalosa, ma naturale. Giustamente, si può porre in evidenza come Washington, Jefferson e Franklin fossero possessori di schiavi e per questo possa risultare quantomeno dubbia la “passione per la libertà” che gli spinse a ribellarsi contro il governo di Londra, ma è altrettanto doveroso ricordare come proprio la loro rivoluzione, quella lotta per il riconoscimento condotta da schiavisti che “non volevano essere trattati come negri”, abbia ispirato e innescato lotte similari che hanno portato all’estensione veramente universali di quei principi.
Non è un caso che Ho Chi Minh ponesse in capo alla dichiarazione d’indipendenza della Repubblica Democratica del Vietnam un omaggio ai principi rivoluzionari del 1776 e del 1789: “Tutti gli uomini sono creati uguali. Sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, tra cui la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità. Questa dichiarazione immortale è stata fatta nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America nel 1776. In senso più ampio, ciò significa: tutti i popoli della terra sono uguali dalla nascita, tutti i popoli hanno il diritto di vivere, di essere felici e liberi. Anche la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Rivoluzione francese del 1791 afferma: “Tutti gli uomini nascono liberi e con uguali diritti, e devono sempre rimanere liberi e avere uguali diritti” [9]. Similmente fece Sukarno, rievocando esplicitamente la firma della dichiarazione d’indipendenza statunitense al momento della proclamazione dell’indipendenza dell’Indonesia dal giogo coloniale [10].
Il socialismo non rappresenta la negazione del liberalismo, ma la sua sublazione. Il suo contenuto progressivo è mantenuto, portato in un contesto qualitativamente differente. I suoi limiti, il suo essere un prodotto storico e come tale soggetto alla legge dell’eterno mutamento e decadimento, non devono portare all’idea che si sia trattato di un passo “sbagliato”, privo di contributi positivi alla Storia dell’Umanità. Ideologia della classe borghese in ascesa, il liberalismo aveva un ruolo rivoluzionario. Ideologia della classe borghese marcescente nella fase imperialista del capitalismo, il liberalismo ha un ruolo reazionario. Ma questo perché un’altra ideologia ha preso il suo posto, conservando i suoi aspetti progressivi e superando i suoi limiti: il socialismo. E’ giusto e sacrosanto ricordare i crimini dei regimi liberali, le loro contraddizioni e l’ipocrisia di certe affermazioni, ma non si può considerare la Storia se non nei termini di un percorso in cui ogni momento non può essere visto come isolato, ma unicamente come parte di un movimento.
La prospettiva di Bouteldja promette l’emancipazione delle vittime del “secolo colombiano”, ma in realtà non fa che legittimare ideologicamente dinamiche reazionarie. Al posto di sostenere l’unità delle classi popolari, queste vengono frazionate in nome della razza. Al posto di sostenere la lotta per la conquista della sovranità nazionale e dell’indipendenza per i paesi del Sud del Mondo, si mitizza l’immigrazione di massa, aspetto necessario del neocolonialismo, come fenomeno rivoluzionario destinato a distruggere l’ordine razzista borghese.
Nel suo testo, Bouteldja esprime più volte preoccupazione per la crescita della popolarità della destra estrema, vista come massima rappresentante dell’ordinamento dello “Stato razziale”. Si evoca il fantasma del “fascismo”, collegandolo ai difetti congeniti dei “piccoli bianchi”, ossia il razzismo, l’omofobia e il maschilismo. La moralizzazione del fascismo, la sua riduzione a fatto di costume nasconde la sua natura di classe. Il fascismo fu, globalmente, la dittatura terroristica aperta del capitale finanziario, che si servì come strumento di masse di sottoproletari e di piccolo-borghesi proletarizzati guidati da intellettuali intenti a giustificare le condotte antisociali della propria “base” in nome di suggestioni superomistiche. Ciò che viene proposto da Bouteldja, e fatto proprio dalla cosiddetta estrema sinistra occidentale, ossia l’alleanza del sottoproletariato straniero e di certi settori di piccola borghesia declassata guidata da intellettuali volti a giustificare ogni pulsione antisociale sulla base di una retorica “libertaria”, inconsapevolmente al servizio dell’imperialismo statunitense desideroso di distruggere ogni rimasuglio di sovranità nazionale a favore di quella imperiale, è molto più simile a cosa fu, globalmente, il fascismo storico di quanto potranno mai esserlo i vari partiti “sovranisti” europei.
[1] Bouteldja H., Maranza di tutto il mondo, unitevi!, Bologna, DeriveApprodi, 2024, p. 37.
[2] Ibidem, p. 50.
[3] Ibidem, p. 53.
[4] Ibidem, p. 110.
[5] Ibidem, p. 123.
[6] Ibidem, p. 141.
[7] Ibidem, p. 126.
[8] Ibidem, pp. 140-141.
[9] Ho Chi Minh, Selected Works Vol. 3, Hanoi,Foreign Languages Publishing House, 1960, p. 17.
[10] Hatta M., Politik, kebangsaan, ekonomi, 1926-1977, Jakarta, Penerbit Buku Kompas, 2015, p. 234.

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