Iran insubordinato, resistenza e crisi dell'impero: la paura cambia campo
di Pasquale Liguori
Nel contesto euroatlantico, il discorso pubblico è ormai ostaggio dell’egolatria del bullo americano, del susseguirsi caotico delle sue dichiarazioni che si contraddicono senza pudore, della psicosi compulsiva e collettiva del like a tutti i costi. A completare il quadro, la recente e teatrale pax trumpiana che, per non pochi esponenti della nostra "civiltà", basterebbe a candidare il suo artefice al Nobel per la pace - magari, con qualche disinvolto ritocco al curriculum del tycoon per le tracce in carriera di genocidio armato e finanziato, corruzione morale e finanziaria, ideologia fascista e razzista, fallimenti di ogni sorta, deliri cospirativi.
Eppure, proprio in questo scenario tanto grottesco quanto drammatico, si apre uno spiraglio, una possibilità diversa di leggere il mondo. Contro questo spettacolo osceno del vuoto etico, contro lo show indecoroso della decadenza occidentale, il confronto con l’Iran ha aperto una faglia epistemica: è ancora possibile un ordine politico che non sia fondato sulla menzogna, sulla distrazione di massa e sulla forza bruta travestita da mediazione.
La recente offensiva israelo-statunitense contro l'Iran, durata poco meno di due settimane, ha rappresentato un evento spartiacque non per l'intensità del conflitto in sé, ma per le sue conseguenze strutturali sul piano della legittimità globale. Non è stata solo una guerra: è stato un test storico di compatibilità tra le pretese dell'impero e la realtà di un mondo che non intende più obbedirgli. L’Iran non si è limitato a sopravvivere all’assalto: lo ha trasformato in un fallimento strategico per gli aggressori e in un atto costituente per l’ordine multipolare in via di consolidamento.
Ma c’è un elemento ulteriore, fondamentale, che imprime a questo scontro un significato ancora più radicale: Gaza. Non fermare il genocidio in corso, configurerebbe il passaggio a un ordine in cui l’impero decadente e coloniale, temendo il caos generato, lancerà un ignominioso monito al Sud del mondo: vi uccideremo senza freni, e nessuno vi salverà.
L’insubordinazione iraniana, perciò, è anche un atto di riscatto del sangue versato a Gaza. È la prova che la resistenza può essere più potente della barbarie, che un popolo può rigettare il ricatto morale colonialista senza perdere il proprio centro. È il contrappunto storico e militante a un’Occidente che tace o balbetta, mentre i bambini palestinesi rischiano di essere cancellati dalla storia.
L'operazione militare contro Teheran aveva obiettivi chiari: la decapitazione politica della leadership iraniana e la disarticolazione del consenso interno attraverso shock e paura. La risposta, invece, ha mostrato la maturità di uno Stato non solo attrezzato militarmente, ma dotato di un'architettura politica, culturale e sociale capace di trasformare l'aggressione in una riaffermazione di sovranità. Il fallimento degli aggressori è stato doppio: da un lato, non sono riusciti a imporre i propri obiettivi; dall'altro, hanno rivelato la loro crisi strategica, la loro cecità cognitiva.
In sostanza, questa guerra ha svelato la nudità dell’Occidente. Non un attore lucido e razionale, ma un blocco isterico, incapace di leggere il tempo storico. L'imperialismo, a dire il vero, si muove ormai come un automa incosciente che ripete formule logore: la minaccia nucleare, la difesa della democrazia, il diritto alla sicurezza. Ma nessuna di queste parole riesce più a produrre effetti reali. Il Sud del mondo non crede all'impero. E l’Iran lo ha dimostrato con l’azione e con la tenuta.
In certi ambienti - liberal atlantisti, neocon travestiti da progressisti, editorialisti fans dello spritz - questa tenuta viene registrata con sospetto. Il fatto stesso che un Paese possa resistere senza piegarsi, senza passare per le forche caudine del riconoscimento mediatico occidentale, viene perlopiù liquidato come propaganda. La compostezza fa paura, la lucidità disturba, la sovranità dichiarata senza intermediari viene guardata con fastidio. È il riflesso condizionato di una cultura politica che non tollera che l'efficacia si presenti in forme che non le appartengono.
Ciò che impressiona, invece, è la trasfigurazione della vulnerabilità in forza. Ogni punto debole previsto dagli aggressori - la popolazione, le infrastrutture, la leadership - ha reagito in modo inverso alle attese: non con la frammentazione, ma con la coesione. La deterrenza iraniana non è soltanto la somma di missili balistici e droni. È una cultura politica, un orizzonte di disciplina, una capacità di stare in guerra senza perdere sé stessi. È un modo di essere realtà organica in un mondo ostile.
Ma c'è di più. La reazione iraniana ha prodotto effetti sistemici: ha messo in allarme l'intero apparato di comando occidentale, ha costretto potenze alleate a defilarsi, ha imposto nuove cautele nel linguaggio mediatico, ha infranto il mito dell'invulnerabilità israeliana. Se l'obiettivo era il ritorno alla centralità imperiale, il risultato è stato il suo rovesciamento speculare: gli attori emergenti del sistema-mondo hanno preso atto che l'impero colpisce ma non vince.
La posta in gioco è ora più ampia di una guerra finalizzata a un ordine basato su sangue e terrore. È dunque il senso stesso della guerra che sta mutando. Non è più un atto fondativo e criminale dell'ordine dominante, ma un'occasione per sabotarlo. Quando la guerra imperiale fallisce, non si apre solo un vuoto: si crea uno spazio, una possibilità. E in questo varco, il Sud globale intravede la possibilità di una propria grammatica dell'insubordinazione. Una grammatica fatta di silenzio strategico, coesione nazionale, lucidità operativa e capacità di costruire alleanze fuori dal ricatto unipolare.
Ciò che emerge, dunque, non è solo un equilibrio strategico nuovo. È un soggetto storico che si afferma e si conferma. L’Iran, oggi, non è solo un Paese che ha resistito: è un precedente che ridefinisce ulteriormente i parametri di ciò che è possibile. È la prova palese che la Resistenza - palestinese, libanese, yemenita, irachena - non è una disperata reazione locale, ma una soggettività globale che sfida il dominio con la forza della dignità e del sacrificio. È proprio questo, più di ogni missile, a terrorizzare gli architetti dell’ordine mondiale.
Il futuro non è scritto. Ma è già evidente che l'impero non può più contare sul timore come unica risorsa. La paura ha cambiato campo.