KANAFANI E LA TRAPPOLA DELLO “SCONFITTISMO”
di Pasquale Liguori per l'AntiDiplomatico
Una frase implicita attraversa il nostro tempo, dalle redazioni occidentali alle piazze a chiamata, fino a una parte del discorso palestinese stesso: c’è ben poco da fare. È la formula non detta di quella che potremmo chiamare l’egemonia della disperazione. Non riguarda solo i rapporti di forza militari e non, ma l’immaginario: la capacità di pensare la Palestina fuori dai registri della resa, del lutto infinito, del realismo che coincide con la rinuncia.
Ghassan Kanafani, scrivendo nel 1968 dopo la sconfitta del ’67, che Kanafani non designava con il termine ‘Naksa’, torna ad essere una bussola teorica e politica. In un suo testo sui “pensieri sul cambiamento” e sul “linguaggio cieco”, pone una distinzione decisiva: tra la sconfitta come evento storico – duro, concreto, sanguinoso – e lo “sconfittismo” come postura permanente, che colonizza il modo stesso di parlare, interpretare e immaginare il futuro.
Oggi, davanti al genocidio a Gaza, questa distinzione è più che mai vitale.
Kanafani parte da una constatazione che potrebbe essere scritta oggi: dopo una catastrofe, si aprono piattaforme – convegni, tavole rotonde, editoriali, talk show – in cui “molti professori qualificati” analizzano la sconfitta da ogni lato, ne indagano le cause, ne soppesano le responsabilità. È il momento del “risveglio dello spirito critico”, necessario per rompere l’autocelebrazione del passato.
Ma questo risveglio porta in sé un rischio: la critica può trasformarsi in una forma sofisticata di impotenza. Laddove non si congiunge a un progetto di cambiamento reale, la capacità di analisi diventa linguaggio cieco: raffinato, spesso moralmente indignato, ma separato dal terreno dove la storia si fa – la lotta, l’organizzazione, la trasformazione dei rapporti materiali di forza.
Cecità, in Kanafani, non significa mancanza di informazioni. Al contrario: è un eccesso di parole che non vedono. È il linguaggio che crede di spiegare tutto e finisce per non toccare nulla. È la lamentazione che scambia l’autoflagellazione per profondità critica. È l’ossessione per l’errore “nostro”, “dei palestinesi”, che si consuma come rito di espiazione, mentre la struttura coloniale che ha prodotto la sconfitta resta intatta, spesso assolta nei fatti.
Il risultato è un paradosso: nel nome della “responsabilità” e della “lucidità”, il discorso smette di essere uno strumento di liberazione e diventa uno strumento di adattamento. L’analisi non prepara il terreno della rivolta, ma quello della rinuncia.
Se trasponiamo questo schema al presente, Gaza appare come il luogo dove l’egemonia della disperazione ha raggiunto un grado quasi laboratoriale. La sconfitta che il sistema occidentale vorrebbe imporre ai palestinesi non è solo militare: è ontologica. Non basta distruggere le case, bisogna distruggere l’orizzonte.
Qui il “linguaggio cieco” ha molte varianti. C’è il linguaggio umanitario, che parla di “crisi”, “emergenza”, “catastrofe”, evitando come la peste le parole colonialismo, genocidio, resistenza. In questo schema, Gaza è una ferita da medicare, non una lotta da sostenere. C’è poi il linguaggio della simmetria fittizia, che riduce tutto a “ciclo di violenza”, “conflitto tra due parti”, “odio reciproco”, cancellando la radicale asimmetria tra un potere coloniale dotato di esercito, arsenale nucleare, apparato mediatico globale e un popolo soggetto a strangolamento territoriale, economico e demografico. C’è, ancora, il linguaggio delle “soluzioni politiche” che si ripetono come mantra – “due Stati”, “negoziato”, “ritorno al tavolo” – mentre si accetta, come dato non discutibile, l’integrità dell’ordine che ha prodotto e protetto il genocidio.
Ma il linguaggio cieco non è solo occidentale. Si riproduce anche dentro il campo arabo e palestinese, e persino dentro quella parte dell’opinione pubblica che si dice solidale. È la retorica del “si è sbagliato tutto”, “non sussisteva una vera strategia”, “la resistenza ci ha portato al disastro”, che spesso si esprime senza nominare il contesto: decenni e decenni di occupazione, assedi, patti di sicurezza, normalizzazioni e tradimenti.
In questo quadro, lo sconfittismo diventa una forma di governo delle coscienze: si può compatire Gaza, si può piangere per i bambini, si può maledire la “violenza in generale”; ciò che non si può più fare, nell’orizzonte consentito, è riconoscere la legittimità storica e politica della mukawama, della resistenza.
La forza di Kanafani sta nel rifiutare la fusione tra l’una e l’altro. La sconfitta del 1967, per lui, non è un tabù da negare, ma un terreno da attraversare. È ciò che rende urgente una riorganizzazione complessiva del pensiero, dell’organizzazione politica, dei rapporti tra intellettuali e movimento.
Per questo insiste sulla pluralità dei punti di vista: non c’è “un solo errore”, un solo colpevole, una formula magica. La sconfitta è il risultato di una costellazione di fattori – militari, sociali, ideologici, internazionali – che richiedono un’analisi multilaterale. Ma questa complessità, per lui, non è un alibi per l’inazione: è la condizione di possibilità di una nuova fase della lotta.
Lo sconfittismo, al contrario, è ciò che trasforma la pluralità delle analisi in un coro monotono, in cui tutte le voci, alla fine, convergono su un unico messaggio: “non c’è alternativa se non amministrare il fatto compiuto”. Può assumere toni radicali o moderati, marxisti o liberali; il suo nucleo è sempre lo stesso: amputare il futuro.
Oggi, questo dispositivo funziona in modo ancora più potente perché si intreccia con la retorica dei diritti umani, della legalità internazionale, del “mai più”. Il diritto internazionale si presenta come un orizzonte neutrale, mentre è stato sistematicamente incapace – persino, riluttante – a fermare il genocidio in corso; e tuttavia, chi chiede più di questo – cioè, chi parla di sconfitta dell’impero, restituzione della terra, fine dell’entità coloniale – viene espulso dal novero dei discorsi “responsabili”. Non è un semplice errore: è una tecnica di governo.
Dentro questo quadro, lo sconfittismo non vive solo nei testi e nei palinsesti, ma anche nelle coreografie di massa inscenate per autoassolversi. È il caso di quel pseudomovimentismo da “chiamata alla raccolta” che si ripresenta puntuale ad ogni crisi: giuristi e vip ansiosi di popolarità, opinion maker, figure istituzionali e sindacali che convocano “grandi manifestazioni per la pace” o “per Gaza” – purché Gaza resti entro i confini del compatibile.
Questa massa, in Italia, ha già dato prova di sapersi storicamente radunare a comando: ieri i girotondi liberal, le sardine, i cortei sermoneggianti delle buone eurocoscienze; in tempi più recenti le piazze convocate “per la Palestina”, magari con divieto informale o esplicito di mostrare bandiere, simboli, parole che disturbano. Manifestazioni anche oceaniche, per carità, che si dissolvono però in poche ore: si marcia, si ascoltano gli appelli dei paladini di turno, si scattano le foto da social e poi si rientra ordinatamente nei ranghi del comfort servile e consumatore, pronti a risvegliarsi al prossimo richiamo del pifferaio magico, spesso senza sapere davvero per cosa si è scesi in piazza.
Tutto questo non contraddice l’egemonia della disperazione: la nutre. Perché il cuore di queste convocazioni non è la rottura con un ordine ingiusto, ma la rianimazione simbolica di una giustizia corrotta. Invece di prendere atto che le istituzioni e le Corti internazionali sono nude – prive di autorevolezza, sputtanate dai doppi standard, rese irrilevanti da risoluzioni Onu che vengono calpestate o scritte per calpestare – si continua a chiamarle in causa come ultimo orizzonte possibile. A ogni massacro corrisponde una nuova messa laica per “difendere il diritto internazionale”, esattamente mentre quel diritto mostra di essere nato a immagine e somiglianza dell’Occidente coloniale e imperiale, e di funzionare, nei fatti, come sua infrastruttura.
Se avessero un minimo di coerenza, questi pifferai liberaldemocratici inscenerebbero esodi, non adunate: dimissioni dalle Corti che non servono a nulla, abbandono delle posizioni nelle istituzioni che hanno perso ogni significato, rifiuto di prestare il proprio nome a un impianto giuridico svuotato di ogni legittimità. Invece fanno l’opposto: lo rilegittimano continuamente, invocandolo come “unica strada”, chiedendo al boia di applicare meglio il regolamento di sicurezza sul lavoro.
E nelle piazze occidentali, le poche tracce di resistenza reale – chi osa nominare il genocidio con crudezza e senza anestesia, chi espone bandiere palestinesi dove sono sgradite o vietate, chi collega Gaza al sistema-mondo che la strangola, chi pratica forme di azione non addomesticate – vengono immediatamente additate come violente, “divisive”. E a farlo non è solo lo Stato repressivo: sono proprio gli equilibristi della pseudopace in cerca di simboli e palcoscenico, quelli che difendono il coprifuoco del discorso ammissibile, tra l’altro risoluti nel segnalare ai media e alla polizia chi “rovina la festa”.
Anche questo è sconfittismo: la piazza ridotta a sfogo controllato, la moltitudine interpretata come pubblico-follower, la resistenza delegittimata proprio da chi millanta di rappresentarla. È la versione festosa della stessa pedagogia della rassegnazione: “si può fare solo questo”.
Kanafani ci offre allora una domanda che resta bruciante: a cosa serve la critica se non è connessa a un processo di cambiamento reale? Non si tratta di opporre l’azione alla riflessione, ma di rifiutare la trasformazione della critica – e delle piazze – in generi letterari e coreografici, in esercizi di malinconia o di mobilitazione da weekend.
Oggi, chi scrive sulla Palestina rischia continuamente di cadere in questa trappola. L’analisi minuziosa dei rapporti di forza, la denuncia dell’ipocrisia occidentale, la ricostruzione storica delle responsabilità – tutto questo può, paradossalmente, convergere in una pedagogia della rassegnazione, se non si apre almeno uno spiraglio di possibilità.
Non si tratta di ottimismo facile. Kanafani non è mai stato un cantante della speranza astratta; la sua scrittura è attraversata dalla consapevolezza della morte, della perdita, della disgregazione. Ma è precisamente per questo che la sua opera – letteraria e politica – insiste sulla necessità di radicare il pensiero in un progetto collettivo: la Palestina non come allegoria del dolore, ma come processo di liberazione.
In altre parole: una critica degna di questo nome non si limita a nominare il genocidio; prova a immaginare – e a preparare – le condizioni della sconfitta di chi lo compie.
L’egemonia della disperazione ha un’altra faccia: il sequestro della memoria. Il sistema internazionale può tollerare – fino a un certo punto – la memoria delle vittime; non può tollerare la memoria della resistenza. Per questo è accettabile parlare di Gaza come “inferno”, ma non come “battaglia”; è legittimo ricordare i bambini uccisi, ma non le brigate che si oppongono sul terreno; si celebrano i “testimoni” e si censurano i combattenti.
Kanafani, ucciso da un’autobomba sionista a Beirut nel 1972, era entrambe le cose: scrittore e quadro politico, narratore e militante. La sua stessa figura è ciò che l’ordine attuale non può permettere: un intellettuale che non parla al posto del popolo, ma dentro la sua lotta.
Riprenderne il filo oggi significa sottrarsi al dispositivo che vuole relegare la Palestina ad eterna scena del lutto. Non si tratta di negare la sofferenza – sarebbe osceno – ma di rifiutare che essa diventi la forma ultima della sua presenza nel mondo.
Dire che il genocidio a Gaza è una sconfitta non significa assumere che la storia sia finita; significa riconoscere che ci troviamo in uno di quei momenti in cui il tempo si spezza: o la catastrofe viene naturalizzata come destino, o si trasforma in un punto di leva per cambiare la direzione del corso.
Un editoriale non può sostituire ciò che manca – l’organizzazione, la convergenza delle lotte, la rottura dei rapporti materiali che sostengono l’impalcatura coloniale – ma può almeno provare a non essere complice del “linguaggio cieco”.
Questo implica, oggi, alcune scelte minime ma esigenti: rifiutare le narrazioni che simmetrizzano l’asimmetria, che confondono colonizzatore e colonizzato nel medesimo calderone morale; chiamare il genocidio per nome, senza attenuarlo nelle formule anestetiche della “crisi umanitaria”; non separare Gaza dal resto della Palestina, né la Palestina dal sistema globale che trae profitto dal suo martirio; sottrarsi all’obbligo di prendere le distanze dalla resistenza come condizione di accesso allo spazio pubblico; riconoscere che il diritto internazionale, così com’è, non è il confine del pensabile, ma parte del problema; smettere di scambiare le adunate teleguidate per segni di risveglio politico, quando servono in primo luogo a restaurare la buona coscienza di chi continuerà a legittimare lo stesso ordine che pretende di criticare.
Soprattutto, significa non confondere la durezza della situazione con la cancellazione della possibilità. La sconfitta è reale; lo sconfittismo è una costruzione. È una pedagogia lenta, che insegna a intere generazioni a concepire la Palestina solo come causa morale, mai come soggetto politico capace di rovesciare un ordine.
Kanafani ci parla proprio da questo confine: dalle rovine della Naksa invita a non arrestarsi alla contabilità delle perdite, a non divinizzare la sconfitta né a normalizzarla. Ci ricorda che il linguaggio può essere un’arma disarmata quando si limita a descrivere, a spiegare, a compatire; ma può ridiventare strumento di liberazione quando rompe le gabbie del “non c’è alternativa” e torna a pensare l’impensabile: la fine del regime coloniale, la restituzione della terra, il ritorno dei profughi, la dissoluzione dell’ordine che fa del genocidio un’opzione politica praticabile.
L’egemonia della disperazione vorrebbe trasformare Gaza in un monito: ecco cosa accade a chi osa. La tradizione di cui Kanafani è una delle voci più limpide suggerisce l’opposto: Gaza è anche il luogo in cui si misura fin dove l’impero è disposto a spingersi pur di non perdere; e dunque, paradossalmente, il punto in cui la possibilità della sua sconfitta diventa più visibile.
Sta a noi decidere se parlare di questo tempo con il linguaggio cieco della rassegnazione – e con le sue piazze-spettacolo – o con la lingua, ancora da inventare, di una politica che non nega la sconfitta ma non la consegna al nemico come destino.

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