La politica dei dazi di Trump
di Loretta Napoleoni
L’amministrazione americana, ed in particolare Donald Trump, stanno portando avanti con grande successo una politica industriale sui generis: fanno pagare agli europei la re-industrializzazione degli Stati Uniti. La strategia è semplice e ruota intorno alla minaccia di imporre pensati tariffe e dazi doganali ai prodotti Made in Europe a meno che, a meno che chi li produca investa pesantemente in America. È quanto è successo, ad esempio, con l’abbassamento delle tariffe su una grossa rosa di prodotti dal 25 al 15 per cento, decurtazione applicabile solo a chi continua ad acquistare energia dagli USA ed a chi è disposto ad aprire fabbriche negli Stati Uniti; discorso analogo vale per l’industria farmaceutica europea costretta a produrre in America se vuole evitare tariffe del 100 per cento sui prodotti europei.
Se qualcuno a gennaio ci avesse detto che questo era l’obiettivo della politica tariffaria apparentemente scimbolica di Donald Trump nessuno ci avrebbe creduto. In parte perché questo tipo di ricatti commerciali funziona solo quando tra due paesi esiste una dipendenza strutturale ed in parte perché il mondo ancora oggi tende a considerare Trump un uomo poco intelligente, un palazzinaro dalla dubbia reputazione. Ebbene entrambe queste vedute sono errate. Trump è sicuramente un immobiliarista che ha avuto una vita e un passato a dir poco ‘movimentato’, ma non è assolutamente vero che non è un astuto politico e quindi non va sottovalutato.
Ancora più importante, al fine del successo della politica tariffaria, è la dipendenza strutturale tra l’Europa e gli Stati Uniti, più importante perché ci si concentra sempre e solo sulla foto della bilancia dei pagamenti dei due blocchi. Il vecchio continente gode di un surplus commerciale considerevole nei confronti degli USA mentre gli Stati Uniti godono di un surplus di servizi, prevalentemente legato al settore tecnologico. Che questo sia un dato di fatto è innegabile. Ma esiste un altro tipo di dipendenza che si riferisce alla sicurezza del blocco europeo, in particolare al ruolo che la Nato ha svolto dalla fine della seconda mondiale ad oggi, che condiziona le decisioni europee e che rappresenta per gli Stati Uniti una leva preziosa.
L’uso delle tariffe quale arma commerciale ed industriale da parte di Trump funziona grazie a questo secondo tipo di dipendenza. Il conflitto in Ucraina ha, in un certo senso, legato le mani a Bruxelles. L’Europa non può ignorare le condizioni poste dall’amministrazione Trump perché dipende militarmente dall’ombrello della Nato e dalle provvigioni militari degli Stati Uniti. Se non ci trovassimo in una situazione del genere, il margine di manovra europeo sarebbe molto maggiore. Dietro l’accettazione delle condizioni ‘commerciali’ e di ‘investimento’ c’è il bisogno di continuare a considerare gli Stati Uniti come baluardo prioritario della difesa del continente.
Il conflitto ha anche chiuso una serie di mercati all’Europa, spingendola pericolosamente verso il mercato americano, impedendole di penetrare altri mercati, ad esempio i BRICS, che crescono a ritmi elevati. Per l’amministrazione Trump questa guerra, a detta del presidente creata dall’amministrazione Biden che lo ha preceduto, è diventata un’occasione da non perdere.
Chiusa in questa tenaglia l’Europa non solo ha abbandonato i principi su cui i padri fondatori hanno costruito l’avventura dell’unione europea, i.e. il pacifismo e la demilitarizzazione del continente, ma sta rifoggiando i rapporti di forza al suo interno. Aumentato è il peso delle nazioni più vicine geograficamente all’area del conflitto, si pensi alle repubbliche Baltiche, alla Polonia, alla Svezia ed alla Finlandia, economie meno grandi rispetto a quelle tradizionali dell’Europa dell’ovest, quali Francia, Italia, Spagna e in parte anche la Germania. L’epicentro della risposta europea al conflitto ucraino si è dunque spostato verso nord est e Bruxelles tende ad incamerare una visione ‘baltica’ di quanto sta avvenendo invece di perseguire una visione continentale.
Risultato: il successo della politica dei dazi e delle tariffe americane ed il flusso di investimenti europei nell’economia reale statunitense, un fiume di denaro con il quale Trump spera di rilanciare il settore industriale nazionale, fiaccato da trent’anni di globalizzazione e delocalizzazione. Una manovra abilissima che, se riesce, come ormai sembra possibile, farà sì che a pagare gran parte dello sforzo di modernizzazione del settore industriale americano siano i soldi del contribuente europeo.