Nonostante le navi da guerra: diario di viaggio dal Venezuela che resiste

Nessun inferno qui: solo un popolo che costruisce il futuro sotto minacce e sanzioni

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Nonostante le navi da guerra: diario di viaggio dal Venezuela che resiste


di Fabrizio Verde

"Non permetteremo che nessun impero ci umili. Il Venezuela è sovrano, libero e indipendente"

Nicolás Maduro

 

Fine agosto. Il Mar dei Caraibi, solitamente teatro di crociere da sogno e tramonti da cartolina, si trasforma in un palcoscenico di tensione geopolitica. Gli Stati Uniti, con una mossa che ricorda i peggiori anni della Guerra Fredda, schierano navi da guerra e un sottomarino nucleare a poche miglia dalle coste venezuelane. Il pretesto ufficiale è la lotta al narcotraffico — un’accusa vecchia come il colonialismo, completamente falsa per quanto riguarda il Venezuela, ripetuta con la stessa retorica moralista che ha giustificato colpi di Stato, sanzioni e ingerenze in mezzo mondo. Ma il messaggio è chiaro, esplicito, brutale: Caracas deve piegarsi alle volontà imperiali o sarà piegata con la forza delle cannoniere. 

In quel clima di minaccia aperta, mentre i media occidentali dipingono il Venezuela come un “regime” sull’orlo del collasso, io decido di partire per il Venezuela. Un viaggio programmato da tempo in un paese bellissimo, il cui spirito ribelle non viene scalfito dalle azioni ostili di Washington. Nonostante le sirene d’allarme, nonostante i consigli di “prudenza” non ho mai esitato. Anzi. Partire proprio in quel momento è diventato un atto politico, una forma di solidarietà concreta verso un popolo che da oltre vent’anni resiste all’assedio economico, mediatico e militare di un impero tracotante. Il mio biglietto aereo non era solo un passaporto per Caracas: era un gesto di fiducia nella Rivoluzione Bolivariana, nella sua capacità di resistere, di organizzarsi, di sognare ancora un’altra America possibile. Quella immaginata dal Libertador Simon Bolivar prima, e in tempi più recenti dal Comandante Hugo Chavez.

Atterro all’aeroporto internazionale Simón Bolívar di Maiquetía in una calda mattina di fine agosto. L’aria è densa, non solo per il classico clima tropicale, ma per una strana energia: non c’è panico, non c’è rassegnazione. C’è, invece, una calma determinata, quasi militare, anzi civico-militare come l’unione che caratterizza la Rivoluzione Bolivariana. Nelle strade, sui muri, sui manifesti, campeggia lo slogan: “Patria o Muerte, Venceremos”. Non è retorica vuota. È un programma di vita e resistenza. 

Mi sposto a Maracay, una delle città più importanti del paese, e assisto a qualcosa che i telegiornali europei non mostreranno mai: l’unione civico-militare in azione. Non si tratta di trovate propagandistiche, ma di un tessuto sociale vivo, organizzato, radicato. In ogni città, nelle piazze dedicate al Libertador Simón Bolívar, il popolo venezuelano si presenta per l’arruolamento volontario nella Milizia Bolivariana. Non sono mercenari, non sono fanatici. Sono studenti, operai, contadini, madri e padri di famiglia che scelgono di difendere la propria sovranità con le armi in pugno, sì, ma soprattutto con la coscienza politica. 

La Milizia Bolivariana, istituita dal leader eterno della Rivoluzione Bolivariana, Hugo Chávez, come quinta componente delle Forze Armate Nazionali Bolivariane, rappresenta un ausilio per l’esercito convenzionale. Un corpo popolare, territoriale, radicato nei quartieri, nelle campagne, nelle fabbriche. I miliziani hanno il compito di difendere la Costituzione, sì, ma anche di partecipare alla produzione agricola, alla distribuzione di cibo, alla costruzione di case. Sono, in sostanza, l’espressione più alta di quella che Chávez definiva la “democrazia partecipativa e protagonista”, e che adesso continua ad avanzare sotto la gestione di Nicolas Maduro. 

Quello che colpisce, più di ogni altra cosa, è la normalità con cui questa mobilitazione avviene. Non c’è isteria bellica, non c’è retorica da guerra imminente. C’è, invece, una consapevolezza lucida: il Venezuela è sotto attacco, ma è pronto ad ogni evenienza. E non intende arrendersi o rinuciare alla propria indipendeza e sovranità. 

Tra le file ordinate di uomini e donne di tutte le età che firmano i moduli di arruolamento, osservo volti concentrati, mani callose, sorrisi sinceri.

In quel momento, capisco che l’arma vincente contro l’imperialismo è questa unità popolare, questa fusione tra civili e militari, tra idee e azione, tra passato e futuro. È la stessa forza che ha permesso al Venezuela bolivariano di resistere a innumerevoli tentativi di destabilizzazione e golpe, a un blocco economico illegale che ha causato lutti e sofferenze inenarrabili, a una campagna mediatica globale che lo dipinge come un inferno in terra. 

Eppure, qui, tra le strade di Maracay, l’inferno non c’è. C’è la vita. C’è la lotta. C’è la speranza. 

Una famiglia, una città, un popolo che non si arrende

La mia destinazione è la città di Maracay, capitale dello Stato di Aragua. Non come turista, non come osservatore esterno, ma come ospite di una famiglia venezuelana. Una famiglia “normale”, come tante — se per “normale” intendiamo un nucleo che lavora, sogna, lotta e ride nonostante tutto. Con loro condivido la cucina, le cene a base di arepas, pabellón criollo e altre tante bontà delle deliziosa cucina venezuelana. La musica popolare, le chiacchiere serali, la visione irrinunciabile della trasmissione ‘El Mazo Dando’ di un leader bolivariano importante e storico come Diosdado Cabello, che riesce a far riunire tanti venezuenezuelani davanti alla tv ogni mercoledì sera. È qui, tra le mura domestiche di una casa venezuelana che posso toccare con mano la resisteza quotidiana del popolo venezuelano. 

Due anni fa, durante il mio ultimo viaggio, avevo già notato questa straordinaria capacità di resistere con gioia e dignità. Oggi, nonostante l’inasprimento delle sanzioni statunitensi — definite dal Segretario Generale delle Nazioni Unite “un’arma di distruzione di massa” — lo spirito dei venezuelani non è cambiato. Anzi, sembra essersi rafforzato. Non c’è rassegnazione, non c’è vittimismo. C’è una voglia tenace di andare avanti, di costruire, di vivere — nonostante la “guerra multiforme” scatenata dall’imperialismo per cancellare la Rivoluzione Bolivariana. 

Un sabato mattina sabato mi reco presso un grande supermercato insieme agli amici che mi ospitano. Il cittadino europeo comune, inebetito dalla propaganda martellante del mainstream si aspetterebbe di trovare code, scaffali semivuoti, tensione. Invece, mi trovo di fronte a una scena che per costoro sarebbe sorprendente: negozi e supermercati sono ben riforniti di ogni tipo di merce — dai prodotti alimentari locali alle importazioni, dai generi di prima necessità ai beni di consumo. L’afflusso è maggiore del solito, sì, ma non c’è panico o confusione. Nessuno cerca di accaparrare beni, nessuno spinge. C’è solo un flusso ordinato di persone che fanno la spesa con calma, con il sorriso, con la consapevolezza di potersi permettere quello di cui hanno bisogno. 

Una persona con cui condivido la lunga fila per arrivare alle casse, che costeggia praticamente tutto il supermercato, mi spiega: “Ieri il governo ha accreditato un bonus speciale sulle carte del sistema Patria, per contrastare gli effetti della guerra economica. È un aiuto diretto alle famiglie, soprattutto a quelle con figli, anziani o disabili. Così oggi tutti vengono a fare la spesa”. 

Rifletto su queste parole. In un momento in cui il Venezuela è strangolato da sanzioni illegali che bloccano l’accesso al sistema finanziario internazionale, il governo non solo non abbandona i suoi cittadini, ma interviene attivamente per proteggerli. Distribuisce aiuti economici mirati, sostiene la produzione nazionale, garantisce l’accesso ai beni essenziali.   

E allora mi chiedo: dove, in Occidente, esiste qualcosa di simile? Nei “civili” paesi democratici, dominati da folli e ottuse politiche neoliberiste, i governi tagliano la spesa sociale, privatizzano la sanità, lasciano i poveri alla deriva. In Italia, in Francia, negli Stati Uniti, migliaia di persone vivono per strada, costrette a chiedere l’elemosina per sopravvivere. A Maracay, non ho visto un solo senzatetto. Nessuno accovacciato all’angolo di una strada con un cartello in mano. Nessun accampamento sotto i ponti.   

Non è un caso. È il risultato di politiche sociali attive, di un modello che mette al centro l’essere umano e non il profitto. È la prova che, anche in condizioni estreme, uno Stato può scegliere di stare dalla parte del popolo. 

Ma non è solo questione di cibo o di bonus. Maracay stessa mi appare più bella, più pulita, più ordinata rispetto a due anni fa — eppure già allora mi aveva colpito per la sua vivacità. Le strade sono asfaltate, i marciapiedi curati, i parchi ben tenuti. I murales colorati celebrano la storia patria, i volti di Bolívar, Chávez, Guaicaipuro. Non c’è degrado urbano, non c’è abbandono.   

Merito, in gran parte, della governatrice dello Stato di Aragua, Joana Sánchez, del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Una giovane dirigente politica capace di guidare con mano ferma e visione chiara un territorio strategico del paese. Le sue politiche di riqualificazione urbana, di promozione della produzione locale e di partecipazione comunitaria stanno dando frutti tangibili. Non si tratta di ‘facciate per turisti’, ma di un processo reale di trasformazione sociale, radicato nei consejos comunales e nelle comunas. Ad Aragua così come in tutto il paese.

Camminando per il centro di Maracay, tra bancarelle di frutta fresca e ragazzi che giocano allegri nei cortili, sento una cosa chiara: il Venezuela non è in crisi. È in lotta. E sta vincendo, passo dopo passo, non con le armi, ma con la dignità, con l’organizzazione, con la solidarietà. 

Mentre l’Occidente affoga nel cinismo, nella disuguaglianza, nella crisi economica e morale, il Venezuela — malgrado tutto — avanza. Non con la tracotanza che caratterizza i potenti in declino, ma con la tenacia dei popoli liberi che non si arrendono e che non hanno intenzione di rinunciare alle propria indipendenza.   

E forse è proprio per questo che gli Stati Uniti temono così tanto la Repubblica Bolivariana del Venezuela. Vogliono in primis appropriarsi del petrolio e per questo parlano di “regime” tirannico e “narcostato”. Ma ancora di più hanno paura dell’esempio. Hanno paura che il mondo veda che un altro mondo è possibile — e che quel mondo nasce qui, tra le strade di città come Caracas e Maracay, tra le mani di una nonna che distribuisce arepas, tra i sogni di un ragazzo che si arruola non per uccidere, ma per proteggere la sovranità e la pace. Un percorso di sviluppo indipendente che ha portato Caracas ad essere l’avanguardia in America Latina del nuovo mondo multipolare.

 

Fabrizio Verde

Fabrizio Verde

Direttore de l'AntiDiplomatico. Napoletano classe '80

Giornalista di stretta osservanza maradoniana

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