Terrorismo? No, Resistenza. Gaza e il rovescio morale dell’occidente
di Pasquale Liguori
La guerra a Gaza non è “soltanto” un genocidio: è una lotta contro il pensiero stesso della resistenza. Ai palestinesi viene concesso di soffrire, di rientrare nei canoni compassionevoli dei diritti umani purché restino silenti, vittime e non soggetti pensanti. È questo il cuore del dispositivo coloniale: non solo uccidere, ma impedire che la resistenza diventi pensabile, parlata. Ciò che fa davvero paura non è la violenza, ma la lucidità, la resistenza che si fa proposta, strategia, visione.
Per questo l’Occidente, che del diritto ha fatto il proprio alibi morale, non tollera la resistenza: la espelle, la degrada a terrorismo. Una resistenza così forte, radicata, irriducibile, che solo un genocidio può cercare - fallendo - di spegnerla. È questa la verità elusa: il genocidio come condizione dell’autoassoluzione occidentale. Solo pianificando la cancellazione fisica del popolo palestinese, l’Occidente può evitare di confrontarsi con la propria colpa storica, giuridica e politica.
Una colpa tanto enorme quanto codarda, che non solo agisce, ma balbetta. Balbetta sul termine “genocidio”, lo evita, lo edulcora anche di fronte a piazze più o meno affollate, convocate venti mesi dopo l’inizio dei massacri. In quelle piazze si parla senza nominare, si nomina senza accusare, si accusa senza schierarsi.
Si canta così l’illusione di una moltitudine immaginaria nelle strade del mondo, assemblata all’ultimo minuto da chi dopo tanto equilibrismo politico, ora esulta per un ottimismo che non conosce la lotta, non ha pagato il prezzo del sangue, non ha mai sfidato l’ordine imperiale. Eppure, ha il coraggio di parlare a nome della resistenza, di farsene custode mediatico, mentre i cadaveri di bambini, donne e uomini sono ancora caldi sotto le macerie.
Questa presunta moltitudine, spuria e concepita nei salotti narcisi di un’intellighenzia pacificata, non restituisce nulla alla resistenza palestinese. La scavalca, la depoliticizza, la riduce a sfondo per il proprio protagonismo tardivo, unendola a iniziative formalmente lodevoli ma intrise della più rassicurante equità occidentale - ben accettata, ben digerita, ben brandizzata. Piazze come d’incanto risvegliate, l’impavida traversata di una barchetta a vela, comunicati confusi: tutto concorre a offrire l’illusione di una svolta, di una spallata morale non al regime israeliano ma solo ai suoi leader attuali adesso paria, provando a offuscare la forza reale e irriducibile che ha impedito che calasse il sipario: la resistenza palestinese
È come se solo ora, grazie all’indignazione certificata dalle coscienze occidentali, si potesse finalmente dire che il sangue di Gaza è intollerabile ma a patto di continuare a tacere, deformare, criminalizzare quella resistenza che da decenni denuncia, a carissimo prezzo, l’oppressione globale. Non sono le piazze tardive o una famosa navigazione nel Mediterraneo a smascherare l’orrore: è la resistenza palestinese che lo ha costretto a venire alla luce. E proprio per questo, l’Occidente l’ha chiamata - e continua a chiamarla - terrorismo.
La verità è che la resistenza palestinese non ha bisogno di loro. È autonoma, fiera, armata di un pensiero che attraversa il tempo, sfida lo spazio e spezza l’ordine coloniale globale.
Questa resistenza non è solo politica o militare, ma ontologica e temporale: rompe l’ordine lineare del tempo coloniale, in cui i palestinesi sono sempre “in ritardo” rispetto alla libertà. La resistenza non attende: irrompe nell’ora presente, afferma un’altra temporalità, dove i vivi camminano anche con i morti e il ritorno non è solo geografico ma profondamente politico.
Sul piano giuridico, questa lotta cozza evidentemente con un diritto internazionale nato dal colonialismo, che legittima il potere anziché limitarlo. Termini come “autodifesa” e “sovranità” sono codificati per servire l’Occidente e non sono mai stati pensati per vedere i palestinesi. La crisi di legittimità del diritto liberale apre oggi uno spazio per nuovi linguaggi politici, fondati non sulla supplica, ma sulla costruzione di solidarietà disobbedienti.
Anche la struttura della resistenza cambia. Dopo la devastazione di Gaza, non assistiamo alla sua fine, ma a una trasformazione: la resistenza sopravvive, si riorganizza, si ridefinisce. È ancora capace, radicata, determinata a logorare nel tempo l’occupazione israeliana.
Nel frattempo, le istituzioni palestinesi ufficiali - l’ANP e i consessi derivati da Oslo, il refrain "due popoli, due stati" - sono gusci vuoti, mantenuti da inerzia e da interessi coloniali. Ma nelle strade, tra la gente, la domanda “che fare?” resta viva, anche nella sua paralisi sostanziale.
E forse è proprio questo che spaventa i dominanti: che il palestinese non stia più chiedendo di entrare nella storia, ma di riscriverla. E che lo faccia senza aspettare l’Occidente, senza implorarne il riconoscimento, ma esibendogli il proprio fallimento morale e politico.
In questo scenario, non serve inventare nulla: serve ascoltare. Le pratiche resistenti da adottare in Occidente non si costruiscono con l’arroganza del salvatore, ma con l’umiltà del ricettore. Occorre farsi attraversare dalla potenza che emana dalla resistenza palestinese, riconoscerla e interpretarla come orizzonte teorico e pratico da cui partire, non come bandiera da agitare a comando.
Non è il momento di organizzare strumentalmente il consenso, ma di disertare con coerenza, senza esitazioni e distinguo, l’ordine esistente. Di rompere con le compatibilità, con le finzioni pacificatorie, con il privilegio di poter scegliere se indignarsi o no. Il compito che attende l’Occidente non è quello di rappresentare la Palestina, ma di agire a partire da essa, come epicentro politico di una crisi che ci riguarda integralmente.
È da lì, e solo da lì, che si può iniziare a costruire un progetto che non tuteli, ma rovesci l’attuale e feroce ordine globale.