Viaggio nell’università palestinese: dove gli studenti affrontano quotidianamente i check-point
Intervista all’architetto e docente Christiano Lepratti, tornato di recente dalla Cisgiordania occupata per un progetto di scambio tra l’Università di Genova e l’Arab American University of Palestine. Una missione didattica oggi più che mai significativa, che ci ricorda la responsabilità politica dell’università di non legittimare sistemi oppressivi e di apartheid, come previsto dal diritto internazionale.
di Michela Barzanò e Veronica della Rocca
- Cosa insegni alla Facoltà di Architettura di Genova e da quanti anni ci lavori?
Insegno Composizione architettonica e urbana presso l’Università di Genova da circa dodici anni. La mia attività didattica è incentrata sul progetto di architettura e di città, coniugando dimensioni tecniche e teoriche. Un’attenzione particolare è rivolta all’analisi dei contesti internazionali, alla relazione tra spazio costruito e dinamiche sociali, climatiche ed economiche, nonché al ruolo che l’architettura può assumere nei processi di trasformazione urbana
- Ora ti trovi a Ramallah, nella Cisgiordania occupata. Ci spieghi di che progetto si tratta, in quale università stai lavorando e quanto ti fermerai?
Il progetto è una collaborazione tra l’Università di Genova e l’Arab American University of Palestine (AAUP), presso il campus di Ramallah, finalizzata a sviluppare attività didattiche e di ricerca comuni sui temi del design. La sede principale dell’AAUP si trova a Jenin, mentre il campus di Ramallah ospita soprattutto corsi di laurea magistrale e programmi post-laurea.
Il mio ruolo è quello di responsabile accademico dello scambio tra le due università. Con il supporto degli Uffici di Internazionalizzazione di UniGe abbiamo ottenuto un finanziamento per ospitare a Genova 14 studenti e due docenti dell’AAUP nell’arco di tre anni. Stiamo inoltre includendo progressivamente un numero crescente di docenti italiani nelle attività. La mia permanenza a Ramallah è di un mese, una durata compatibile con gli impegni accademici a Genova.
- Avresti potuto tenere le lezioni anche online, cosa ti ha spinto a partire in un momento così difficile?
In questo contesto complesso, i miei colleghi e le mie colleghe hanno optato per la didattica a distanza, conformandosi alle linee guida della Farnesina e alle considerazioni di sicurezza formulate dalle autorità competenti. Tuttavia, la presenza diretta in loco, anche alla luce delle mie responsabilità nel progetto, rappresenta un elemento essenziale per una comprensione approfondita delle dinamiche socio-culturali e accademiche del territorio.
L’interazione personale con studenti e colleghi consente di stabilire relazioni più immediate e di maggiore significato, difficilmente replicabili attraverso modalità a distanza. Particolare importanza, in questo senso, riveste la possibilità di avere a che fare in modo diretto con la direttrice della School of Architecture and Design della AAUP, Ranad Shqeirat.
Dal punto di vista della sicurezza, al momento la situazione a Ramallah è relativamente più stabile rispetto ad altre aree della Cisgiordania, come Jenin, esposta a maggiori tensioni per la vicinanza a insediamenti di coloni israeliani. Ciò comporta per studenti e personale accademico la necessità di affrontare quotidiani spostamenti attraverso check-point e zone classificate come B e C secondo gli Accordi di Oslo, in cui l’uso di targhe palestinesi (verdi, facilmente distinguibili da quelle gialle israeliane) aumenta la vulnerabilità, esponendo a rischi di controlli e, in alcune aree, a episodi di violenza.
La scelta di partire si giustifica quindi con la necessità di assicurare continuità e qualità alla didattica, nonché una comprensione più diretta del contesto e delle sue molteplici implicazioni. La condizione dei palestinesi è infatti caratterizzata da un insieme complesso e stratificato di normative e restrizioni che incidono profondamente sulla loro mobilità, sull’accesso ai diritti, alle risorse e alla possibilità di autodeterminazione. Questo quadro, spesso ridotto a narrazioni parziali o strumentali, richiede un’analisi attenta e multidimensionale, capace di superare le semplificazioni imposte tanto dalle narrative ufficiali israeliane quanto da quelle prevalenti in Europa. Solo una conoscenza diretta e critica, in loco, svincolata dalle dinamiche di censura e propaganda, può restituire la complessità reale di una condizione che sfida le categorie giuridiche e politiche tradizionali e ne rivela le contraddizioni sistemiche.
- Da chi è frequentata l’università in cui ti trovi, chi sono gli studenti che seguono le tue lezioni?
La AAUP accoglie studenti provenienti da diverse aree della Cisgiordania, comprese zone rurali e centri urbani spesso molto distanti tra loro. Questo comporta per molti la necessità di affrontare spostamenti lunghi e incerti per poter frequentare regolarmente. La realtà dei trasporti è ulteriormente complicata dalle condizioni politiche e amministrative del territorio e dalla complessa geografia delle zone definite dagli Accordi di Oslo, con check-point che separano un’area dall’altra all’interno dei territori palestinesi e che sono presidiati da militari israeliani.
A ciò si aggiungono episodi documentati di violenza da parte di gruppi di coloni, che hanno preso di mira civili palestinesi attraverso azioni di intimidazione e vandalismo. Questi fattori rendono gli spostamenti quotidiani non solo difficili e imprevedibili, ma in alcuni casi anche pericolosi.
Nonostante queste condizioni, il livello di partecipazione studentesca è sostenuto, con motivazioni che vanno dall’emancipazione personale alla volontà di acquisire competenze utili a rispondere alle esigenze delle comunità di origine. In tale contesto, l’istituzione riveste un ruolo cruciale non solo nell’offrire un percorso tecnico-professionale, ma anche nello sviluppare capacità che possano favorire processi di sviluppo locale in un ambiente segnato da complessità socio-politiche significative. L’esperienza accademica alla AAUP si intreccia così con le dinamiche sociali e territoriali, richiedendo un adattamento continuo sia da parte degli studenti sia da parte dell’istituzione.
- La campagna Right to Education della Birzeit University ha denunciato arresti e attacchi da parte dei coloni. Quale situazione hai trovato al tuo arrivo?
La mobilità degli studenti palestinesi in Cisgiordania è una questione complessa e profondamente radicata nelle dinamiche politiche e di controllo territoriale dell’occupazione israeliana. Oltre alle restrizioni descritte in precedenza, questa limitazione della libertà di movimento rappresenta un meccanismo di esclusione sociale e culturale che incide pesantemente sulla possibilità di accedere a un’istruzione libera e di qualità.
Gli studenti palestinesi senza ID israeliano devono affrontare quotidianamente check-point militari, barriere fisiche come il muro di separazione e altre forme di controllo che rendono lunghi e pericolosi gli spostamenti anche solo all’interno della Cisgiordania. Questi ostacoli non sono solo logistici: hanno un forte impatto psicologico e sociale, alimentando un senso persistente di esclusione.
Questa situazione genera nei giovani palestinesi un forte desiderio di alternative formative in contesti meno ostili. I programmi di scambio, come quello con l’Università di Genova, rappresentano un’opportunità cruciale non solo sul piano accademico, ma anche come pausa temporanea da un contesto di oppressione, una finestra su un mondo dove le barriere territoriali e identitarie sono meno stringenti.
Analogamente, la gestione delle manifestazioni pro-Palestina in Germania ha mostrato forme di repressione e limitazione della libertà di espressione che riflettono un meccanismo più ampio di marginalizzazione delle istanze palestinesi. La ridotta mobilità degli studenti e il controllo del dissenso, pur in contesti diversi, sono parte di un sistema più ampio di restrizioni che incide sulla possibilità stessa di dialogo e di emancipazione. In questo quadro, la mobilità temporanea offerta da scambi internazionali diventa non solo un’occasione di crescita individuale, ma anche un fattore di resilienza e di costruzione di reti di conoscenza e solidarietà.
- Nel 2023 hai sottoscritto un appello per denunciare il sistema di apartheid e chiedere di interrompere le collaborazioni tra università italiane e israeliane. Pensi che l’Università di Genova stia facendo abbastanza?
La questione va considerata su due piani. Sul piano etico, credo che tutti, individui e istituzioni, dovremmo fare di più: quanto sta accadendo a Gaza rappresenta uno degli eventi più gravi della storia recente. Sul piano organizzativo, è necessario valutare attentamente la coerenza delle collaborazioni internazionali con i principi del diritto internazionale.
Come studioso e cittadino, ritengo imprescindibile riconoscere che ciò che accade nella regione di Gaza e nei territori palestinesi costituisce una tragedia contemporanea di portata storica. Le violazioni sistematiche dei diritti umani fondamentali, unite a un regime di segregazione e discriminazione definito da molte organizzazioni internazionali come apartheid, richiamano l’impegno attivo di tutti, a partire dalle istituzioni pubbliche e accademiche.
L’università ha quindi il dovere di garantire che le proprie collaborazioni internazionali siano coerenti con i principi fondanti del diritto internazionale e del diritto umanitario. Ciò richiede una valutazione rigorosa delle partnership, basata sul rispetto dei diritti umani e sulla responsabilità politica di non legittimare sistemi oppressivi.
Dal mio punto di vista, le collaborazioni scientifiche e culturali con le università palestinesi rappresentano un passaggio cruciale: non solo un atto concreto di solidarietà, ma anche un contributo alla costruzione di resilienza ed empowerment delle comunità colpite, in coerenza con i valori di giustizia e pace che dovrebbero guidare ogni attività accademica. Va in questo senso sottolineato il sostegno prezioso del
personale degli scambi internazionali dell’Università di Genova, che ha reso possibile l’avvio di questo progetto in un contesto tanto complesso.
In sintesi, UniGe ha già compiuto passi significativi, ma ha l’opportunità di rafforzare ulteriormente il proprio impegno con un approccio che unisca il rispetto del diritto internazionale a una collaborazione convinta con le università palestinesi, assumendo un ruolo ancora più rilevante nei temi di giustizia globale del nostro tempo.
- Hai insegnato per 15 anni nell’università tedesca. È vero che in Germania la repressione delle manifestazioni pro-Palestina sta assumendo toni inquietanti?
Sì. Il livello di controllo e restrizione delle manifestazioni osservato in Germania è stato sorprendentemente alto. Fin dall’inizio dei bombardamenti su Gaza, nell’ottobre 2023, sono stati documentati centinaia di episodi di repressione contro manifestazioni pro-Palestina, con divieti generalizzati di protesta, annullamenti di eventi culturali, arresti, uso eccessivo della forza da parte della polizia e perfino misure arbitrarie come il divieto di uso della lingua araba durante i cortei.
Le autorità giustificano queste azioni con la necessità di combattere l’antisemitismo, ma molte di tali misure appaiono sproporzionate e potenzialmente lesive dei principi democratici fondamentali, in particolare la libertà di espressione e di riunione pacifica. Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha espresso formale preoccupazione per la gestione delle proteste, sottolineando possibili violazioni dei diritti umani e l’uso eccessivo della forza, anche su minorenni.
La situazione riflette dunque un quadro problematico, in cui la libertà di dissenso viene fortemente compressa, con derive che ricordano modelli autoritari e mettono a rischio i valori democratici del paese.
- Pensi che questo progetto si ripeterà o avrà un seguito?
Di sicuro, la volontà è quella di dare continuità e ampliare il progetto, riconoscendovi non solo un’opportunità formativa, ma anche uno strumento strategico di cooperazione accademica e culturale. Si prevede il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di docenti italiani, con l’obiettivo di arrivare all’istituzione di un doppio titolo tra l’Università di Genova e l’AAUP.
Una collaborazione più stabile e formalizzata consoliderebbe le relazioni istituzionali e creerebbe opportunità durature per studenti e ricercatori di entrambe le realtà accademiche. In un contesto segnato da dinamiche complesse, questo tipo di alleanze rappresenta un contributo fondamentale alla promozione della mobilità accademica, dello scambio interculturale e della costruzione di reti di conoscenza transnazionali.
La prospettiva di un doppio titolo riflette inoltre l’impegno condiviso verso l’uguaglianza di accesso all’istruzione e la volontà di sottrarre lo spazio accademico alle barriere geopolitiche. Iniziative di questo tipo rafforzano il ruolo delle università come attori chiave nella promozione del dialogo, della coesione sociale e della giustizia educativa.