DIVENIRE-PALESTINA CONTRO LA GOVERNANCE DELLA MACERIA

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DIVENIRE-PALESTINA CONTRO LA GOVERNANCE DELLA MACERIA


di Pasquale Liguori

 

Il piano Trump su Gaza - quello che promette ricostruzione mentre istituisce un consiglio di amministrazione planetario (“Board of Peace”), una forza militare internazionale e una gestione “tecnica” palestinese sotto tutela - non è un inciampo grottesco della diplomazia. È, semmai, la sua verità in purezza: la pace come rebranding dell’occupazione, la sovranità come compliance, la liberazione come procedura. È un lessico che sostituisce politica con governance e, nel farlo, prova a convertire un conflitto coloniale in un dossier di sicurezza e investimenti.

La cosa rivelatrice è proprio l’architettura: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu ha incardinato la cornice del piano, autorizzando una International Stabilization Force e collocando la “riqualificazione” di Gaza dentro una catena di comando e finanziamento esterna, destinata a durare finché l’Autorità Nazionale Palestinese - già cinghia di trasmissione amministrativo-securitaria dell’apparato coloniale - non risulti “riformata” e in grado di “riprendere controllo”. La Palestina, di nuovo, non è soggetto costituente: è oggetto di transizione, amministrato fino a nuova decisione.

C’è poi il dettaglio che, in realtà, è il centro: la cosiddetta linea gialla e le formule elastiche sulla sicurezza. Il meccanismo non chiude l’occupazione: la ridisegna nello spazio, con presenze “a terra” che restano e confini che diventano mobili, progressivamente riscrivibili. È la logica storica dei “processi di pace” che restringono il territorio palestinese mentre promettono futuro: un confine che non delimita, ma consuma.

Se questo è il quadro, l’idea di una ricostruzione da oltre 100 miliardi - la fantasia “Sunrise” di una Gaza trasformata in metropoli hi-tech, resort, riviera, ferrovia veloce e infrastrutture AI - non appare come un eccesso, ma come la forma economica del medesimo gesto: la maceria come asset, la popolazione come problema di ricollocazione, la terra come piattaforma. Non è un progetto “umanitario”: è un progetto immobiliare in abiti geopolitici.

In questa costruzione, la parola-chiave è disarmo: la pace come capitolazione amministrata. Ma persino i funzionari che la promuovono ammettono il nodo: chi disarma Hamas, come, con quale mandato e con quali costi politici? E mentre si annuncia l’imminente avvio degli organismi di governo e della forza di stabilizzazione, la realtà continua a bucare il comunicato: Israele prosegue attacchi e pressioni; la tregua resta fragile; i morti “dopo la tregua” ricordano che il genocidio può cambiare intensità senza cambiare natura.

Il piano Trump non è solo rapace, è ridicolo in senso politico, perché presume che la resistenza sia un malfunzionamento da correggere con un organigramma. L’idea che una burocrazia travestita da pace possa produrre resa è un’aberrazione: finché c’è occupazione, la resa non è un esito tecnico, è una richiesta coloniale.

Da qui la domanda: vale la pena, oggi, tentare un discorso evolutivo - sociopolitico - sulla Palestina che non abbia nulla delle pretese “bianche” (Ong, addolcimenti, pedagogie giuridiche occidentali) e che accompagni, invece, il successo della resistenza? Sì, se per “successo” intendiamo una cosa precisa e spietata: l’insistenza del politico dove l’impero vuole solo amministrazione; la capacità di non farsi ridurre a popolazione-utenza; il rifiuto di trasformare la liberazione in un capitolo di governance.

Il punto, però, non è solo smascherare la truffa semantica del piano. È capire perché proprio la Palestina costringe l’ordine internazionale a esibire, senza più pudore, i propri dispositivi: tutela, stabilizzazione, reconstruction governance, security sector reform. È come se, davanti a una soggettività che non collassa, la diplomazia fosse costretta ad ammettere la propria natura: non mediazione, ma ingegneria politica; non pace, ma amministrazione della violenza coloniale.

Qui è utile chiamare le cose col loro nome. La governance della maceria è una tecnica globale di potere. La maceria - fisica, istituzionale, psicologica - non è un incidente, ma una condizione produttiva. Produce dipendenza. Produce “beneficiari”. Produce filiere di appalto, consultazione, monitoraggio. Produce un soggetto nuovo: non il cittadino, non il resistente, ma l’utente umanitario, il destinatario di servizi. E quando il potere riesce a fabbricare un soggetto come quello, ha già vinto metà della battaglia, perché ha convertito il conflitto politico in un problema di gestione.

La Palestina, però, non entra docilmente in questa conversione. Non perché sia immune alla catastrofe, ma perché la catastrofe - paradossalmente - non basta a sciogliere il legame politico fondamentale: quello tra terra e diritto al ritorno, tra spoliazione e presenza, tra corpo e geografia. È qui che il paradigma popolo-Stato - quello che l’Europa ha esportato come forma unica del politico - si mostra per ciò che è: una gabbia, spesso funzionale all’impero. Perché promette sovranità come premio finale, mentre intanto normalizza ogni perdita: un check-point qui, una colonia là, un muro temporaneo, una zona cuscinetto, una transizione necessaria.

Criticare quella gabbia non significa fare l’estetica della dispersione o la retorica dell’“oltre lo Stato” come slogan postmoderno. Significa riconoscere un fatto più brutale: nel mondo reale, lo Stato nazionale è spesso la forma con cui si amministrano popolazioni rese eccedenti; e nella questione palestinese, la promessa dello Stato - rinviata, condizionata, contrattata - è diventata uno strumento per trasformare la liberazione in un orizzonte sempre differito. La Palestina è stata educata, per decenni, a “meritare” uno Stato; Israele ha colonizzato la terra mentre la Palestina veniva invitata a prepararsi per l’esame finale della governabilità.

Se oggi il piano Trump si permette di proporre un consiglio di amministrazione e una forza internazionale come ponte, è perché presume di poter continuare quello schema: prima la tutela, poi (forse) una sovranità condizionata.

La sola risposta all’altezza non è un appello morale: è una teoria e una pratica che riconoscano la Palestina come soggetto già politico, non come problema da stabilizzare.

Una soggettività che si fonda concretamente e non per citazionismo filosofico sulla triade - moltitudine, individuazione, divenire - come macchina concettuale convergente.

La moltitudine è il nome di un politico che non si lascia ridurre a Uno. E qui la Palestina è esemplare: non esiste un corpo sovrano unico capace di rappresentare integralmente la sua esperienza. Ci sono Gaza e Cisgiordania, campi e città, minoranze interne e diaspora; ci sono forme armate e forme comunitarie, culture e reti mutualistiche; ci sono differenze religiose e laiche, generazionali e di classe. L’Occidente ha letto tutto questo come deficit: “divisioni”, “mancanza di interlocutore”, “assenza di leadership affidabile”. Ma è la lettura tipica di chi non tollera la politica se non quando si presenta in forma statale e negoziabile. In realtà, quella pluralità è una potenza: è cooperazione senza fusione, capacità di agire senza condensarsi in un’immagine unica e, soprattutto, capacità di sopravvivere alla decapitazione istituzionale. Non si decapita una moltitudine: si prova, piuttosto, a trasformarla in popolazione amministrata. È esattamente ciò che la governance tenta di fare.

C’è un passaggio decisivo, se si vogliono evitare due trappole simmetriche: da un lato la nostalgia di un popolo compatto e mitico, dall’altro l’estetica della dispersione come se fosse automaticamente emancipativa. Il punto è smettere di trattare il soggetto politico come un’essenza già pronta (unitaria o dispersa) e cominciare a vederlo come un processo: una formazione storica che si produce e si trasforma sotto pressione, attraverso legami, fratture, ricomposizioni, invenzioni istituzionali. L’individuazione è transindividuale: emerge da un campo di potenzialità condivise (memoria, lingua, trauma, terra, simboli, pratiche) che non appartengono a nessuno come proprietà privata e non possono essere sequestrate da uno Stato come proprietà pubblica. In Palestina, quel campo è violentemente attraversato: la colonizzazione tenta di interrompere le condizioni stesse dell’individuazione collettiva, spezzando continuità territoriali, distruggendo infrastrutture, cancellando toponimi, isolando comunità. È un lavoro di dis-individuazione: non solo dominare corpi, ma impedire il formarsi di legami durevoli.

Quando lo Stato coloniale lavora per fissare e recintare, la risposta non può che essere un’altra logica: quella che sfugge alla cattura, che diviene. Divenire non è fuga dalla terra: è il modo in cui una comunità, sotto pressione estrema, inventa forme di esistenza che non coincidono con le istituzioni offerte dal dominatore. Il progetto coloniale - con i suoi muri, le sue zone, le sue linee mobili - è una gigantesca macchina di territorializzazione che vuole fissare la Palestina in due sole figure: o vittima umanitaria, o problema di sicurezza. Il divenire-palestinese, invece, è l’ostinazione a restare un terzo termine: né utente né nemico, ma soggetto politico che continua a produrre legami, istituzioni, memoria, organizzazione.

Moltitudine, individuazione, divenire: tre parole, ma un’unica dinamica. La moltitudine è la forma del soggetto. L’individuazione è la sua genesi continua. Il divenire è la sua capacità di sottrarsi alle griglie del potere senza dissolversi. Se le tieni separate, sembrano tre capitoli. Se le intrecci, diventano una teoria della resistenza come costruzione di mondo.

Il successo della resistenza non è dunque uno slogan. È, oggi, innanzitutto questo: aver impedito la conversione totale della Palestina in oggetto amministrabile. Aver impedito che la maceria diventasse definitivamente un nuovo regime di normalità umanitaria. In un mondo in cui la potenza coloniale immagina di poter decidere perfino la forma della sopravvivenza, resistere significa mantenere aperto il fatto che la Palestina non è un problema da risolvere, ma una presenza che giudica l’ordine mondiale con la sua sola persistenza.

Ma questa persistenza, per non essere ridotta a mito, deve diventare istituzione. Qui la parola chiave è comune. E va sottratta con forza al suo uso occidentale più insidioso: il comune come linguaggio da laboratorio Ong, come lessico di “community building”, come retorica partecipativa che depoliticizza. Il comune, in Palestina, non può essere un meccanismo di pacificazione. Deve essere una pratica materiale e conflittuale: terra, acqua, casa, energia, cura, scuola, archivi, infrastrutture. Deve essere la forma con cui la moltitudine sedimenta il proprio virtuosismo politico in organizzazioni durevoli.

La resistenza palestinese è piena di virtuosismo - intelligenza pratica, capacità di inventare, cooperazione sotto assedio. Ma il virtuosismo, se resta pura performance, è vulnerabile: come abbiamo visto fin troppo negli ultimi tempi, può essere spettacolarizzato, consumato e moralizzato dall’esterno. Il comune, invece, è ciò che rende quel virtuosismo non consumabile: lo trasforma in ossatura sociale, in istituzione non statale e non mercantile.

Il comune non è un’utopia gentilmente orizzontale. È un potere. È la capacità di decidere collettivamente sull’uso delle risorse e sul modo di abitare lo spazio. È la capacità di produrre norme interne (non giuridiche nel senso occidentale, ma pratiche) che stabilizzano la cooperazione. È anche - inevitabilmente - conflitto: perché ogni forma di comune autentico entra in collisione con il mercato e con lo Stato coloniale. La governance della maceria lo sa benissimo: per questo propone “ricostruzione” come appalto e “stabilizzazione” come catena di comando. Il comune è l’anti-appalto: la ricostruzione come riappropriazione.

E qui bisogna ribadire il vincolo: il comune palestinese non è pensabile senza terra. Perché la Palestina non è un’“idea”. È una geografia concreta tra fiume e mare, fatta di città, colline, uliveti, coste, villaggi cancellati. Ogni teoria della moltitudine che dimentichi la terra scivola nel moralismo: Gaza come icona, Palestina come metafora universale. È la trappola più elegante dell’Occidente: universalizzare per sottrarre materialità. La Palestina può parlare al mondo proprio perché è irriducibilmente situata. Il comune, quindi, non è solo sociale, è territoriale. È contro-cartografia. È difesa e reinvenzione dello spazio.

Occorre un anticorpo contro la tentazione occidentale di trasformare tutto in cultura e compassione: Ghassan Kanafani. Non come icona letteraria o “voce del dolore”, ma come criterio politico. Proprio perché è stato spesso addomesticato in quella forma - romanziere tragico, autore da commemorare e citare per slogan - il suo recupero è polemico: mostra come funziona la neutralizzazione. Si prende un militante e un teorico della liberazione e lo si ricolloca nell’area protetta della sensibilità, esattamente come la governance della maceria sposta la Palestina dalla strategia alla testimonianza, dal conflitto all’emozione, dalla politica all’umanitario.

La sua ossessione è l’opposto: impedire che la Palestina venga ridotta a lamento, nostalgia, identità ferita. Il problema non è ricordare il villaggio perduto; è trasformare quella memoria in organizzazione, coscienza, capacità di agire. La memoria non vale come archivio: vale come disciplina collettiva, come pratica di formazione. È già comune, perché non appartiene a un io; appartiene a un “noi” che si costruisce. E quel “noi” non è mai un popolo compatto: è un intreccio di figure attraversate da conflitti, differenze di classe, ambiguità morali; una pluralità in formazione che deve imparare a non coincidere con la sola sopravvivenza. Per questo rifiuta la figura del palestinese “presentabile”: la vittima corretta, il corpo che soffre nel linguaggio giusto, la vita che chiede permesso per esistere.

Da qui discende l’altra corrispondenza decisiva: l’umanitarismo come alibi. Non perché la sofferenza non conti, ma perché nel linguaggio giusto diventa un prodotto: ciò che permette agli altri di sentirsi buoni senza cambiare il mondo. È la versione culturale della governance della maceria: l’Occidente compra innocenza con la commozione e pretende che la Palestina resti al posto assegnato quale vittima eterna, “caso umano”, oggetto di cura. La rottura è semplice: la Palestina non chiede di essere capita; chiede di essere liberata. E liberazione non è retorica né concessione dall’alto: è processo organizzativo. È comune, è istituzione, è capacità di fare della diaspora una rete politica, dei campi una città politica, della cultura non un “ponte” conciliatore ma parte dell’armatura collettiva.

Questo filo serve anche a evitare due rischi simmetrici: la filosofia come lusso occidentale (concetti che parlano di tutto e non incidono su nulla) e la resistenza come romanticismo (eroismo senza istituzione, sacrificio senza forma). Il criterio resta materiale, e le domande diventano inevitabili: quali forme organizzative trasformano la ferita in potenza? quali istituzioni del comune impediscono che la Palestina venga ridotta a “causa” gestibile? quali pratiche producono soggettività collettiva capace di durata, senza collassare nelle identità imposte?

Se la colonizzazione è riscrittura dello spazio, allora la resistenza deve essere anche riscrittura antagonista. Qui il comune diventa una pratica di contro-geografia.

Non parliamo solo di mappe. Parliamo di accesso all’acqua, di ricucitura di percorsi, di ricostruzione di case come atto politico, di riuso collettivo di spazi distrutti. Parliamo di archivi popolari dei villaggi cancellati - non come nostalgia, ma come pretesa concreta: quella terra ha nomi, genealogie, usi. Parliamo di diritto al ritorno inteso non come formula giuridica addomesticata, ma come asse materiale: tornare significa riaprire continuità territoriali, reinserire corpi e comunità nello spazio da cui sono stati espulsi.

E qui la diaspora smette di essere un problema e diventa un orizzonte politico. In termini di moltitudine, la diaspora è deterritorializzazione subita; ma in termini di divenire può diventare deterritorializzazione attiva: diffusione di competenze, di risorse, di reti. Kanafani l’aveva compreso: la diaspora non è un “fuori” della Palestina; è un altro teatro della stessa lotta, un’estensione del campo preindividuale palestinese. La governance tenta di neutralizzarla con un gesto sottile: trasformarla in lobby, in advocacy, in raccolta fondi “per la ricostruzione”. In altre parole: convertire una potenza politica in una funzione ausiliaria del piano di stabilizzazione. Il comune, invece, chiede altro: infrastrutture transnazionali di cooperazione, non circuiti di donazione.

Questa è una differenza che va detta senza diplomazia: l’Occidente adora la solidarietà quando è reversibile e non vincolante; la tollera quando è performativa; la criminalizza quando diventa infrastruttura. È il motivo per cui ogni resistenza reale viene chiamata “radicalizzazione”, mentre ogni gesto simbolico viene chiamato “civiltà”. Il comune è ciò che rende la solidarietà irreversibile: la trasforma in istituzione.

C’è poi il piano che oggi decide tutto: la tecnologia come governo dei corpi e dello spazio. La Palestina è uno dei luoghi in cui la tecnocrazia globale appare nella sua forma più nuda: sorveglianza, droni, riconoscimenti biometrici, database, gestione algoritmica dei permessi e della mobilità. È la traduzione digitale della logica coloniale: non solo dominare, ma rendere calcolabile la vita.

Un discorso evolutivo sulla resistenza non può limitarsi a denunciare questo. Deve dire: come si costruisce un soggetto tecnologico del comune? Non nel senso ingenuo delle “soluzioni digitali”, ma nel senso politico: sottrarre l’infrastruttura alla monopolizzazione dei dominatori. Qui le parole di prima tornano come programma: la moltitudine non è solo consumatrice di tecnologie: può produrre sapere tecnico come bene comune;

l’individuazione collettiva passa anche per pratiche di sicurezza digitale, archivi condivisi, media resilienti; il divenire non è fuga, ma invenzione di contro-infrastrutture: reti autonome, memoria distribuita, contro-mappe, contro-archivi.

Questa dimensione non è futuristica. È già reale, anche quando è embrionale. E proprio per questo la governance la teme: perché un comune tecnologico riduce la dipendenza, riduce la ricattabilità, rende la Palestina meno “gestibile”.

Bisogna essere espliciti su un punto che spesso viene lasciato implicito per prudenza: esiste una “Palestina presentabile” costruita per il consumo occidentale. È la Palestina che soffre nel modo giusto, che parla nel linguaggio del diritto come liturgia, che chiede riconoscimento senza disturbare i rapporti di forza. È la Palestina che può essere invitata a un panel, che può essere finanziata per un progetto, che può diventare contenuto. È la Palestina che permette all’Occidente di sentirsi umano senza smettere di essere imperiale.

La Palestina reale - quella che resiste, che organizza, che insiste sulla terra, che non accetta la tutela - viene invece trattata come anomalia. E qui la lezione di Kanafani è feroce: la cultura, se non è parte della lotta, diventa decorazione del dominio. La filosofia, se non è parte della lotta, diventa ornamento. La solidarietà, se non costruisce comune, diventa igiene morale.

Dire “successo della resistenza” significa allora anche questo: sottrarre la Palestina a questa estetica. Restituirle la sua potenza politica non come “simbolo”, ma come laboratorio di un altro mondo possibile. Non nel senso astratto del modello esportabile, ma nel senso preciso di una domanda che la Palestina pone a tutte le moltitudini contemporanee: come si costruisce vita comune sotto dominio, senza delegare allo Stato e senza essere catturati dal mercato?

Se il piano Trump è ridicolo perché scambia la resistenza per un guasto, allora la prospettiva che si apre non è un’utopia sentimentale, ma un processo politico duro: disattivare la macchina coloniale e costruire, nello stesso tempo, una forma costituente decoloniale.

Disattivare non significa immaginare un evento messianico. Significa logorare l’impunità, erodere la pretesa di invincibilità, rendere insostenibile il costo politico e materiale della colonizzazione. E, contemporaneamente, far crescere un potere duale del comune: comitati, cooperative, reti di cura, infrastrutture culturali e mediatiche, capacità di autogoverno territoriale. È la sola alternativa alla tutela: se non costruisci istituzione dal basso, qualcun altro costruirà governance dall’alto.

Qui il comune non è “oltre la politica”: è la politica in forma non statale. E il costituente decoloniale non è una formula giuridica. È la riorganizzazione concreta dello spazio tra fiume e mare: smontare segregazioni, ricucire continuità territoriali, trasformare terra e acqua in beni comuni gestiti collettivamente, fare del ritorno non una concessione ma un processo reale. In altre parole: passare dall’ossessione del riconoscimento alla potenza dell’istituzione.

Alla fine, il punto è semplice e radicale. Il piano Trump - board, stabilizzazione, ricostruzione miliardaria - è l’ultima forma della stessa idea: la pace come appalto, la sovranità come certificazione, la Palestina come territorio da mettere a reddito dopo averlo devastato.

Divenire-Palestina è il nome del rifiuto di questa idea. Non per sostituirle un mito, ma per affermare una prospettiva politica più esigente: una moltitudine radicata nella terra, che si individua collettivamente attraverso istituzioni del comune e che continua a divenire contro le griglie del potere coloniale.

Kanafani torna come bussola: la Palestina non è una storia da raccontare bene per commuovere il mondo. È una lotta che costringe il mondo a scegliere che cosa vuole essere. La governance della maceria vorrebbe chiudere la scelta, sostituendo la politica con la procedura. La resistenza - quando ha successo - fa l’opposto: riapre la storia, impedisce la pacificazione amministrata, costruisce comune dove l’impero vuole beneficiari.

Se esiste una “proposta” palestinese al mondo, non è un modello da copiare. È un criterio per giudicare il presente: ogni volta che un potere promette ricostruzione mentre istituisce tutela; ogni volta che la pace si presenta come organigramma; ogni volta che la sovranità viene tradotta in compliance; ogni volta che una popolazione viene ridotta a utenza, la Palestina ci dice che la politica non è finita. È solo stata sequestrata. E può essere ripresa - non con la purezza morale, ma con la costruzione paziente e conflittuale del comune.

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L’inferno del genocidio a Gaza: la testimonianza che pretende responsabilità

 Il libro di Wasim Said, pubblicato da LAD edizioni, non è un racconto da compatire ma un atto di accusa che spezza la neutralità e chiama alla lotta politica.


LA PRESENTAZIONE DEL CURATORE DELLA VERSIONE ITALIANA

Pasquale Liguori

 Non è un libro “su Gaza”, non è l’ennesimo titolo che si aggiunge allo scaffale del dolore mediorientale. L’inferno del genocidio a Gaza è un documento che arriva in Italia con il peso preciso di una prova, non con la leggerezza di un prodotto culturale. Il fatto che a pubblicarlo sia LAD edizioni con la mia curatela non è un dettaglio editoriale, ma una scelta di campo: portare qui una voce che non si presta né alla retorica umanitaria né alla commozione di consumo, ma esige di essere ascoltata come atto di accusa, come frammento di verità che non intende integrarsi nella normalità del discorso pubblico, bensì incrinarla.


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