Falestinistan: contro il miraggio dello Stato. Rileggere Kanafani oggi

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Falestinistan: contro il miraggio dello Stato. Rileggere Kanafani oggi

 

di Mariam Abu Samra

 

Nel 1971 Ghassan Kanafani pubblicò su Al-Hadaf un articolo intitolato “Lo spettro dello Stato Palestinese”. Questa dovrebbe essere una lettura obbligatoria per tutti quelli che oggi commentano con entusiasmo gli sviluppi “diplomatici” — dai vari “riconoscimenti dello Stato di Palestina” all’ingresso della “Palestina” nei BRICS — come se fossero nuove rivoluzionarie conquiste di questa più recente fase storica.

La retorica dei due stati, invece, è vecchia quasi quanto il progetto coloniale sionista, perché strumentale alla sua legittimazione. E infatti, già 54 anni fa Kanafani metteva in guardia su come il concetto di statualità e le varie ipotesi di creazione di uno Stato palestinese non costituissero un orizzonte di liberazione, bensì una strategia reazionaria concepita per recintare la portata anticoloniale della rivoluzione palestinese. Kanafani scrive nel post-Settembre Nero. Anche questo è indicativo. La “soluzione dello Stato” emerge e viene riproposta ogni volta che il movimento palestinese smuove e destabilizza equilibri regionali.

L’argomento è netto: il discorso sullo Stato, formulato in termini “westfaliani” (sovranità territoriale, riconoscimento esterno, normalizzazione giuridica), è usato per spostare la questione palestinese dal terreno della decolonizzazione a quello dell’amministrazione di una sconfitta, una pacificazione che controlla e depotenzia la lotta di liberazione. Kanafani distingue tre possibili progetti di “Stato palestinese”: due versioni “fantoccio” — una mini-entità su Cisgiordania e Gaza sotto impulso e tutela israeliana; un’entità palestino-giordana prodotta da un rimescolamento gradito a Israele e alle potenze occidentali — e una terza ipotesi nata da una dinamica di liberazione armata, radicalmente opposta alle prime due. Le prime due sono “frutti” della vittoria del nemico e servono a consolidarne superiorità e obiettivi strategici; la terza, al contrario, avrebbe senso solo come autorità sui territori liberati, la cui funzione non è “fare Stato” nel senso corrente, ma fungere da piattaforma per intensificare la lotta armata e la rivoluzione e rovesciare i rapporti di forza.

In altri termini: laddove il modello westfaliano pretende un soggetto statuale riconosciuto per “chiudere” il conflitto, la visione liberatoria palestinese individua nel “potere sui territori liberati” un mezzo tattico per aprire una fase più avanzata della lotta, non un fine istituzionale in sé. E Kanafani sottolinea come il linguaggio e il riferimento a questo “stato”, inteso come punto di partenza di una rivoluzionaria liberazione, vengano invece spesso utilizzati per confondere e legittimare la materializzazione di uno Stato fantoccio. Già da allora Kanafani denunciava la retorica con cui il progetto statuale, presentato come avanzamento delle istanze palestinesi, servisse di fatto a disarticolare il progetto di liberazione stesso e a facilitare le ambizioni coloniali e imperialiste in Palestina e in tutta la regione araba.

Kanafani mostra come la promessa dello “Stato a portata di mano” sia una narrazione propagandistica tanto più rumorosa quanto più impraticabile nelle condizioni reali: essa serve a frammentare la base sociale della resistenza, a dividerne le lealtà, a scippare alla rivoluzione la rappresentanza della volontà collettiva palestinese; la “bomba” piazzata sotto i suoi pilastri non è militare, ma psicopolitica. Il “progetto di Stato palestinese”, presentato come salvezza, opera in realtà come trappola: da un lato eviscera la fiducia popolare nella resistenza, dall’altro la attira a una battaglia prematura sul terreno scelto dal nemico. È una strategia d’imposizione della resa camuffata da soluzione negoziale.

Da qui l’uso — volutamente sarcastico — del termine “Falasteenistan/Palestinistan”, ripreso da un intervento di Nabil Shaath (figura storica del movimento palestinese) e adottato da Kanafani per indicare l’entità artificiale e collaborazionista che potrebbe nascere con l’attuazione del progetto statale in chiave coloniale: un fantoccio funzionale a cancellare la rivoluzione più che a “rappresentare” i palestinesi. Il punto politico è che questa entità, lungi dal soddisfare i bisogni del colonizzato, serve le strategie israeliane e imperiali e resta inadatta perfino agli interessi dei regimi arabi, salvo che nella misura in cui consente di reprimere e neutralizzare la resistenza.

Mi preme sottolineare, a questo punto, un aspetto fondamentale dell’analisi proposta in questo articolo: Kanafani, con una lucidità politica così dettagliata da sembrare preveggenza, anticipa che verranno fasi storiche in cui la prospettiva dello Stato fantoccio sarà proposta, accolta e diventerà egemonica. Lasciare che ciò accada significherebbe, secondo Kanafani, andare a combattere una guerra già persa in partenza. Oslo, di fatto, è la materializzazione di quanto Kanafani già intravedeva e la creazione dell’Autorità Palestinese è una delle sue conseguenze più drammatiche, perché cristallizza la frammentazione politica del movimento di liberazione e il depotenziamento delle sue istanze rivoluzionarie.

In questo contesto, è come se Kanafani scrivesse oggi, a noi.

Se invece di farci ammaliare dalla retorica fuorviante quanto elettrizzante del riconoscimento dello Stato inserissimo queste mosse nel quadro analitico che Kanafani delineava già negli anni ’70, ci renderemmo conto che non sono conquiste, ma dichiarazioni simboliche e performative di istituzioni co-autrici del progetto coloniale sionista e della sua attuazione genocidaria. Questa strategia non rafforza la causa palestinese: mira piuttosto ad attaccare, colpire e frammentare la resistenza e la società palestinese. Allo stesso tempo il “sistema internazionale” persegue come obiettivo principale la normalizzazione dello status quo, cioè un dominio coloniale che è insieme espressione e al tempo stesso pilastro fondante dell’ordine globale contemporaneo. La resistenza viscerale e orgogliosa dei palestinesi ha tuttavia impedito che questa strategia, mascherata da negoziato pacifico, potesse trionfare: da oltre cinquant’anni le ha sottratto la vittoria definitiva. 

Ci accorgeremmo così che il nostro entusiasmo per questi riconoscimenti non è solo ingiustificato, ma diventa strumentale alle stesse politiche imperialiste che lo sostengono. Lo stesso vale, seppure da una prospettiva diversa, per la richiesta di ingresso ai BRICS avanzata dall’Autorità Palestinese: un tentativo di una “leadership” — considerata tale solo dai suoi padroni internazionali — di capitalizzare miseramente sull’ondata di attenzione diplomatica di questo periodo e sulla popolarità della resistenza che, in realtà, essa reprime materialmente in Cisgiordania, nel tentativo di rafforzare una legittimità istituzionale che comunque vacilla. Il paradosso è che questi passi, accolti come “vittorie”, coincidono perfettamente con i piani che ci indignano, dall’“Accordo del Secolo” alle varie proposte di Trump: la creazione di un Falasteenistan/Palestinistan, una parvenza di sovranità che legittima i “fatti compiuti” della colonizzazione, proprio come Kanafani prospettava già nel ’71.

La riflessione avanzata da Kanafani non è di tipo dottrinario — non riguarda il “se” lo Stato sia desiderabile — ma è un’analisi materialista che resta oggi attualissima: sul quando, sul come e soprattutto su a chi serva parlare di Stato. Serve al nemico e ai suoi alleati regionali; funziona come propaganda che gonfia l’imminenza di una nascita impossibile per dividere e indebolire; giova a una classe collaborazionista e a un sistema di potere, e nuoce alla resistenza che incarna la volontà combattente delle masse. Solo riportando la questione sul terreno della liberazione — facendo dello “stato”, inteso come presenza e controllo del territorio in chiave decoloniale, un momento organizzativo della lotta e non il suo esito giuridico-diplomatico — si evita che la statualità diventi il nome elegante della contro-rivoluzione.

Questo è un passaggio logico fondamentale, necessario soprattutto a noi: comprendere che le categorie con cui definiamo la statualità sono troppo ristrette per l’ambizione liberatoria di un popolo che lotta. Questa presa di coscienza è oggi più urgente che mai: deve orientare le nostre mobilitazioni, dare lucidità agli intenti, definire obiettivi chiari ed evitare distrazioni.

Kanafani ci ricorda che la liberazione non è una passeggiata: richiede tempi lunghi, disciplina, pazienza, costanza. Non si illudeva di una vittoria imminente, anzi prevedeva molte sconfitte; ma richiamava alla capacità di ripartire da esse per imparare e costruire. È il romanticismo rivoluzionario che deve ispirarci: rimanere concentrati sul traguardo, non farsi abbagliare dai miraggi. La nostra bussola deve essere la Palestina e il suo esempio di resistenza. Le nostre mobilitazioni devono puntare a una trasformazione sistemica che smantelli il colonialismo in tutte le sue manifestazioni materiali ed epistemologiche.

La nostra lotta non è difensiva né passiva di fronte alle istituzioni, limitata dagli orizzonti che esse ci impongono: siamo soggetto attivo, parte delle masse che smuovono il potere. È per questo che la lotta è sui nostri territori, per forzare un cambiamento radicale nelle politiche, non per ottenere piccole concessioni che restano palliativi insignificanti nella storia lunga delle rivoluzioni. Dobbiamo emanciparci dal simbolismo e dalla solidarietà delegata, recuperare fiducia nella nostra capacità collettiva di agenti politici trasformativi: consapevoli che la Palestina è già nelle nostre lotte sociali, e che l’anticolonialismo vive nella nostra indignazione per il genocidio e per ciò che rivela dei rapporti di potere che strutturano il mondo.

Dobbiamo liberarci dai limiti performativi e autoreferenziali di un diritto internazionale che non è universale, ma architettura funzionale alla riproduzione del colonialismo e del capitalismo. Dobbiamo riconoscerci protagonisti della storia: non nella forma arrogante della solidarietà neoliberale, che ripropone l’approccio del salvatore bianco come autoassoluzione, ma come parte di una trasformazione che ci vede in prima linea, qui, nei nostri porti, nelle fabbriche, nelle piazze. Insieme, compatti e convinti, dobbiamo rivendicare i nostri diritti e credere in una liberazione che sarà tanto della Palestina quanto nostra. La bussola è la resistenza palestinese: non riconoscimenti simbolici, non concessioni pacificatrici. Kanafani ce lo diceva cinquant’anni fa. Ed è nostro dovere raccogliere il suo insegnamento, non come esercizio di memoria storica, ma come atto politico rivoluzionario.

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