Il paradosso tedesco
Con il Pil tedesco si contrae più del previsto la Germania è sempre più il "malato d'Europa"
di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico
Nel secondo trimestre del 2025 il PIL tedesco si è contratto dello 0,3%, un risultato ben peggiore delle stime preliminari. Non si tratta pero’ di un accidente statistico, bensì di una tendenza ormai diventata strutturale: sei trimestri negativi negli ultimi dieci. La Germania non cresce più, sopravvive. Il declino della locomotiva d’Europa inizia anni fa’ con la guerra in Ucraina. Il motivo? L’effetto delle sanzioni contro la Russia è stato devastante.
Berlino ha perso la sua principale fonte di energia a basso costo: il gas russo. Per decenni, quel flusso continuo attraverso i gasdotti ha costituito il pilastro nascosto della competitività tedesca. Le sue industrie – dall’acciaio alla chimica, dall’automobile alla meccanica – hanno prosperato grazie ad una fonte di energia abbondante e a buon mercato. Dopo le sanzioni la Germania si è vista costretta a rifornirsi sul mercato globale di gas liquefatto, i.e. acquista dagli Stati Uniti, a prezzi nettamente più alti ed usufruendo di infrastrutture di importazione incomplete. L’aumento dei costi energetici ha eroso i margini delle imprese, aggravato la deindustrializzazione in corso e reso evidente quanto la cosiddetta prosperità tedesca sia stata costruita su una dipendenza strutturale da fonti energetiche a basso costo.
Il confronto con gli altri grandi Paesi europei lo conferma. L’Italia, pur fortemente esposta al gas russo, ha reagito più rapidamente diversificando le forniture, stringendo accordi con Algeria, Azerbaijan e Qatar. Roma ha saputo trasformare la crisi energetica in una leva diplomatica, riducendo la dipendenza da Mosca in tempi record e contenendo gli effetti sui costi industriali. La Francia ha beneficiato del parco nucleare, che le ha garantito una base di produzione elettrica stabile e relativamente economica. Berlino, invece, si è trovata intrappolata nelle scelte del passato, ha chiuso le centrali nucleari, ma non basta, accettare di recidere i rapporti con la Russia è stato un errore strategico che oggi pesa sull’economia tedesca.
L’arrivo dei dazi americani, poi, arriva come il colpo di grazia. Le esportazioni, da sempre il cuore del modello tedesco, sono state letteralmente decimate. L’aver gonfiato i numeri all’inizio dell’anno anticipando le spedizioni verso gli Stati Uniti per evitare le tariffe non è servito a nulla.
Il Cancelliere Friedrich Merz parla di “svolta” e promette centinaia di miliardi di investimenti in infrastrutture e difesa, finanziati a debito. Una retorica da piano Marshall, ma con fondamenta instabili. Il vincolo del debt brake, per decenni la religione della finanza pubblica tedesca, è stato allentato con disinvoltura: si autorizzano spese militari e infrastrutturali fuori bilancio, come se bastasse una partita di giro contabile a trasformare il deficit in crescita. Ma le cifre sono impietose: il ministro delle Finanze Lars Klingbeil ha già ammesso un buco da 170 miliardi di euro entro il 2029. Per colmarlo serviranno tagli durissimi allo stato sociale, esattamente l’opposto della ricetta necessaria per stimolare la domanda interna.
È il paradosso tedesco: un Paese che, di fronte alla crisi, invece di reinventarsi insiste a replicare schemi fallimentari. Da un lato invoca riforme “strutturali” – maggiore flessibilità negli orari di lavoro, meno burocrazia, riduzione del costo del lavoro – misure che appartengono al manuale neoliberista scritto negli anni ’90. Dall’altro accumula debito per finanziare spese militari, incapace però di spenderlo davvero a causa della lentezza della macchina burocratica. Non è un caso che, dei fondi stanziati per la difesa dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, solo una parte minima sia stata effettivamente utilizzata.
Dietro le statistiche si cela un problema ancora più profondo: la fine del modello mercantilista tedesco. Per due decenni Berlino ha prosperato grazie alle esportazioni ed a fonti energetiche a basso costo, beneficiando della moneta unica che ne ha artificialmente mantenuto competitive le industrie. Oggi, con il protezionismo in ascesa, i prezzi dell’energia alle stelle e un mercato globale stagnante, quella strategia non funziona più. La Germania deve fare i conti con la sua debolezza strutturale: un’economia sbilanciata, un tessuto produttivo dipendente dai mercati esteri, una popolazione che invecchia e consuma poco.
La retorica di Merz, che promette di “rilanciare la locomotiva d’Europa”, appare così per quello che è: una narrazione vuota, utile a guadagnare tempo. La realtà è che la Germania non ha ancora trovato un nuovo modello di sviluppo ed il rischio, ormai tangibile, è che Berlino diventi ciò che per decenni ha accusato gli altri di essere: un malato d’Europa.