Jean Genet, la Palestina e noi
di Marcello Faletra*
Nel 1982 Jean Genet ospite dei fedayn a Beirut fu testimone dell’immane massacro fatto contro il campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, tra il 16 e il 18 settembre. 2000 morti tra donne, bambini e uomini, per mano delle milizie cristiano-maronite libanesi controllati da Ariel Sharon, il quale in un’intervista rilasciata allo scrittore Amos Oz nel 1982 non si preoccupava di definirsi “giudeo-nazista”, e orgogliosamente affermava: “Ancora oggi sono disposto a offrirmi volontario per fare il lavoro sporco per Israele, per uccidere quanti Arabi è necessario, per deportarli, per espellerli e bruciarli...”. Oggi i suoi successori sono alla fine del “lavoro sporco”.
“La stampa europea – osservava Genet - parlava del popolo palestinese con sufficienza, perfino con disprezzo”, come accade di vedere ancora oggi, quando ipocritamente classificano tutti i palestinesi come terroristi. Recatosi a Chatila il giorno dopo il massacro vede un campo disseminato di corpi spappolati: “Il primo cadavere che ho visto era un uomo di cinquanta o sessant’anni. Doveva avere avuto una candida corona di capelli, ma uno squarcio gli aveva aperto il cranio. Parte della materia cerebrale nerastra era per terra, a lato del capo”. La descrizione quasi fotografica del massacro rende il testo di Genet (Quattro ore a Shatila) uno dei documenti più impressionanti di quell’eccidio. Come le fotografie di guerra, il report di Genet, si fa testimonianza di un presente senza scadenze. Una scrittura dell’estremo, che non simula la violenza, ma la vede e cerca le parole per dirla.
Per Genet, non si trattava di dare una forma estetica all’esperienza storica, ma di far precipitare questa nella storia. La scrittura in questo caso non è un’opinione su un fatto, ma la rottura con l’opinione in quanto tale. Un massacro non è opinabile! La pornografia dell’orrore nella sua testimonianza emerge in ogni parola: “Non l’avevo notato. Le dita delle mani erano stese a ventaglio e le dieci dita erano state tranciate come da cesoie per giardino. Ridendo come giovani e cantando allegramente, probabilmente i soldati si erano divertiti a scovare e a usare quelle forbici”. Il 29 gennaio 2024 Hind Rami Iyad Rajab, una bambina di appena sei anni, dopo l’assassinio dei suoi parenti sotto i suoi occhi, è stata a sua volta deliberatamente assassinata con 335 colpi mentre chiedeva aiuto da un democratico carro armato israeliano.
Di fronte all’orrore la parola “bellezza”, cosi sventagliata oggi da ogni parte, è un’offesa - un cinico gadget estetico. Spesso le fotografie di guerra necessitano di una didascalia che li contestualizzi (luogo, data, nomi, ecc.) , ma in questo caso la scrittura, con le sue fredde descrizioni, è già documento. Genet suggerisce che la scrittura può descrivere cose che la fotografia non coglie, infatti: “La fotografia non coglie le mosche, né l’odore bianco e greve della morte; e neppure dice che per proseguire bisogna saltare da un cadavere all’altro”. Il supplizio dei morti, la loro estrema nudità spappolata, ostentata come uno scalpo, diventa l’oscena cornice allucinatoria di un modo di concepire l’altro (i palestinesi in questo caso). “Guerra alla guerra” recitava il titolo di un libro di Ernst Friedrich del 1924, e questa guerra alla guerra, scrive Genet, ha visto un protagonista fondamentale: le donne: “Più ancora degli uomini, più dei fedayan in battaglia, le donne palestinesi sembravano forti abbastanza da sostenere la resistenza e accettare le novità di una rivoluzione...Sguardo diretto che sapeva sostenere gli sguardi degli uomini, rifiuto del velo, capelli offerti alla vista, voce senza incrinature”.
Oggi non è diverso. Impietosa, gran parte della stampa europea e oltre oggi, di fronte al genocidio in atto, non è più impudica, ma ha l’impudenza dei profanatori, l’arroganza del boia. E le piazze strapiene di gente d’ogni categoria, che recentemente hanno protestato contro il genocidio in corso dei palestinesi, hanno dichiarato apertamente, a viso nudo, da che parte stare nella storia presente; non ostante avvertimenti e minacce, che dai politici al governo rimbalzavano sui quotidiani con insulti e fandonie. D’altra parte la domanda di impostura incoraggia l’offerta di falsi documenti, come quello che vedrebbe la Flotilla finanziata da Hamas. Edward Said, piu di trent’anni fa (Dire la verità), ha scritto che l’unica possibilità che gli intellettuali hanno (e gli artisti sono degli intellettuali) è di contrastare con le immagini e la scrittura ciò che viene fatto passare per norma – buoni-cattivi, democratici-terroristi, ecc..
Un frammento di Novalis – ripreso da Beuys che non lo cita - dice che ogni uomo dovrebbe essere artista. Oggi, forse, il contrario sarebbe meglio. Resta il fatto che oggi ai palestinesi una terra propria gli è negata. “Fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria”, scriveva il filosofo Adorno durante il suo esilio in un passo dei Minima Moralia. Espressione che potrebbe essere estesa a tutti i palestinesi sottoposti alla deportazione forzata o provocata dal terrorismo sionista, contro cui Hannah Arendt (sionista pentita) già nel 1942 non risparmiò giudizi di fascismo.
*Articolo apparso su Artribune n° 87 2025, ripubblicato su gentile concessione dell'Autore

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