La crisi di sistema italiana, tra Falsari e realtà

La crisi di sistema italiana, tra Falsari e realtà

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di Claudio Conti - Contropiano
 

L’ultimo weekend dell’anno, tradizionalmente, vede i giornali proporci ponderosi articoli di “bilancio” dei dodici mesi appena trascorsi, con qualche tentativo di azzardare “soluzioni” alla perenne crisi italiana.


Ogni tradizione è tutt’altro che innocente e quindi abbiamo scelto di proporvi due articoli completamente opposti, pur provenendo da due testate che sono parte integrante della “buona borghesia” nazionale. La quale non deve attraversare un periodo facile, se è oscillante tra due visioni – e interessi – così lontane.


La diversità è anche nel tipo di testata, oltre che nell’Autore. La prima è un antico e noto – ma non “prestigioso” – quotidiano italico, che affida “l’articolessa” a un notissimo protagonista della politica nazionale con riconosciute competenze economiche. L’altra è un quotidiano “di nicchia”, specializzato sui temi economici e dunque letto da “addetti ai lavori” (imprenditori e operatori finanziari), che si affida invece a un analista dalla penna feroce, piuttosto incline a guardare le cose in faccia, per come sono. Che è poi quello che chiede il “lettore tipo” di quel giornale (gente che deve investire o gestire cifre importanti e dunque ha bisogno di informazioni vere, non di “narrazioni”).


Date queste premesse, avrete già capito che il primo editoriale è scritto da un Falsario in servizio permanente effettivo, il secondo ci aiuta a districarci nella nebbia. Ma è bene conoscerli entrambi, perché per combattere i luoghi comuni (ideologia pura, ossia “falsa coscienza”) del primo occorre conoscere, se non padroneggiare, le informazioni e la logica del secondo.


Anche il Falsario, comunque, deve partire a un fatto vero per dare l’impressione della serietà al suo argomentare. Sarà l’unica cosa vera del suo articolo e quindi citiamola:


da quasi 25 anni la nostra vita economica si è distaccata da quella di tutti gli altri grandi paesi mondiali e, nei diciannove anni di questo secolo, non vi è stata alcuna crescita. Nella pur sfortunata storia d’Italia non abbiamo mai avuto un periodo di stagnazione così prolungato. E lo abbiamo avuto in una fase di discreta, anche se rallentata, crescita dell’economia mondiale.”


Un quarto di secolo è un periodo lunghissimo, nella modernità. Nel Novecento, in un arco di tempo così, si è riusciti a fare due guerre mondiali con in mezzo la più grande crisi economica riportata sui libri di Storia. Se dunque la crisi italiana ha una biografia così lunga dobbiamo prendere coscienza che siamo di fronte a qualcosa di più di un “malessere economico”. Siamo in presenza di una crisi storica, quasi di civiltà, che spezza in modo drammatico – più o meno come una guerra – la linea di sviluppo del nostro paese.


Ci si aspetterebbe dunque che un quadro così grave venisse affrontato con la necessaria serietà. Invece il Falsario la butta subito sul moralismo d’accatto, sulla colpevolizzazione della popolazione tutta, in modo rigorosamente generico (così non si sa mai di chi può essere “la colpa”). Leggiamolo: “La ragione dell’anomalo comportamento italiano la si deve attribuire al fatto che non abbiamo saputo dare una risposta ai cambiamenti della storia. Il primo cambiamento è quello demografico. Insieme alla Germania e alla Spagna abbiamo il più basso tasso di natalità d’Europa”.


Anche al primo anno della più squinternata facoltà universitaria insegnano che l’andamento demografico è conseguenza dei cicli economici e non viceversa, specie in una società avanzata in cui non si fanno più dieci figli sperando che ne sopravviva qualcuno. In altre parole: se le generazioni in età fertile non fanno figli ci deve essere una ragione ancora più forte dell’etologico istinto di riproduzione.


Il Falsario si rivela subito tale provando a spiegare il perché: “La necessaria risposta a questo problema è duplice: in primo luogo un aiuto alle famiglie con strumenti finanziari e con l’offerta di servizi per i nascituri e per i nati. Servizi che debbono essere certi e duraturi nel tempo. Gli interventi una-tantum non hanno alcun effetto”.


Per lui, insomma, non si fanno figli perché il governo non assicura abbastanza bonus bebè, pannolini a sconto e asili nido (che in effetti ridurrebbero in piccola parte costi e stress dei neo-genitori).


Vi sembra un’analisi seria? Chiunque conosca – o sia – una persona in piena “maturità riproduttiva” vede che il primo motivo della “sterilità involontaria” è nella precarietà del lavoro, nei salari da fame (e neanche sempre pagati), nel livello degli affitti, nell’impossibilità di avere un mutuo casa senza poter offrire le “garanzie” richieste. Se i pasti fondamentali te li assicura la mamma e per i vestiti ti rifornisci alle bancarelle dell’usato o attendi il regalo di Natale…


Per “riprodursi” – e riprodurre dunque la forza-lavoro complessiva – occorre un’occupazione stabile e un salario che garantisca almeno la sopravvivenza in una società industriale avanzata (dove, oltre a casa, cibo e vestiario, è indispensabile avere una qualunque automobile, un telefono, una tv, ecc). E invece viviamo in un sistema in cui la normalità è un salario al di sotto di quel livello – 500/800 euro, nella media dei lavori precari – e dunque, anche se lo Stato mi passasse i pannolini gratis, io un bambino lì dentro non ce lo posso mettere…


Il Falsario lo sa benissimo, ma la sua “ricetta” contro il calo demografico ha un secondo pilastro ancora più stupido del primo: “La seconda risposta riguarda l’età pensionabile: essa, pur prendendo in considerazione le necessarie eccezioni, non può non tenere conto dello straordinario positivo aumento della maggiore durata dell’età media dei nostri concittadini.”


E’ proprio quello che avviene da un quarto di secolo (dalla prima “riforma delle pensioni”, quella firmata Lamberto Dini, nel ‘95-’96): aumento dell’età pensionabile per i “vecchietti” e lavoretti precari per i più giovani. E’ questo meccanismo genocida che – insieme ad altre “politiche di austerità” – ha bloccato da decenni la “riproduzione” della popolazione, costringendo i giovani a rinviare all’infinito la scelta di fare figli e gli anziani a restare fino alla morte su posti di lavoro che avrebbero potuto essere occupati dai primi.


Il Falsario lo sa. Ma ci vorrebbe convincere che “non lo abbiamo fatto abbastanza”…


E perché non sarebbero state fatte “abbastanza riforme”? Ma è ovvio: “il terzo ostacolo che si oppone alla nostra ripresa economica: la durata dei governi. Ci siamo spesso illusi che questo non fosse un ostacolo invalicabile, dato che erano di breve durata anche i governi dell’epoca del miracolo italiano. Era invece tutta un’altra storia perché, nella sostanza, si trattava di semplici rimpasti, dopo i quali non cambiava la linea dell’esecutivo e, spesso, non ne cambiavano nemmeno i componenti. I mutamenti di oggi toccano invece le linee fondamentali della politica e generano una continua incertezza perfino sul quadro normativo esistente. Disorientano perciò i nostri investitori, spaventano quelli stranieri e, adottando un’imprevedibile strategia con i paesi europei e con il resto del mondo, rendono più difficile il nostro ruolo nell’economia mondiale.


Giuda si sarebbe fermato un attimo, prima di buttare lì anche questa sciocchezza. Tutta la storia della “seconda Repubblica” è segnata dalla sottomissione dei governi nazionali alle prescrizioni della Commissione Europea, in un crescendo di controlli (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, ecc) che di fatto rende impossibile l’approvazione di qualsiasi “riforma” in contrasto con le indicazioni di Bruxelles.


In altre parole, i “nostri” governi sono di breve durata perché è impossibile per chiunque mantenere il consenso sociale applicando quelle politiche di austerità; e quindi le coalizioni si formano e scompongono, i partiti politici nascono e muoiono, i flussi elettorali sono totalmente “liquidi” (si passa in pochi mesi dal 41 al 4%, come Renzi, o viceversa come Salvini). L’unica cosa che resta ferma, in questa continua danza immobile, sono i vincoli europei. Ossia ciò che produce l’instabilità politica imponendo il declino economico.


Il Falsario lo sa benissimo, perché di quei governi e persino della Commissione Europea è stato componente, presidente, “consigliori”. Ma il vero obbiettivo è semplice, stupido, illusorio e profondamente anti-democratico: “il rimedio non può essere che una legge elettorale maggioritaria, progettata non per proteggere gli interessi delle forze politiche temporaneamente più forti, ma per dare stabilità ai governi e alle istituzioni”.


Ogni narrazione fasulla finisce in piscem, e questa è più fasulla di tutte. In pratica, secondo il Falsario, basterebbe una legge elettorale che blinda una maggioranza per cinque anni e tutto sarebbe risolto, anche il declino economico… Basterebbe ricordargli che quella legge elettorale c’è stata per quasi venti anni, e che anche l’attuale – di fatto – è piuttosto fortemente “maggioritaria”. Sembra sfuggirgli, al Falsario, che gli esseri umani normali (persino gli abominati “onorevoli”) possono cambiare idea, schieramento, casacca, padrone… Alla faccia del meccanismo elettorale che li ha selezionati.


E dire che il Falsario c’è passato più volte (una con D’Alema, l’altra con Mastella). Si chiama infatti Romano Prodi.


Il quadro reale


Sistemata la narrazione con la quale ci scontriamo tutti i giorni, vediamo un po’ come sta effettivamente la situazione del Paese. L’analista che fornisce dati e lettura è Guido Salerno Aletta, e l’editoriale compare su Milano Finanza.


Qui il nostro sforzo sarà soprattutto quello di “tradurre” in linguaggio corrente qualche passaggio un po’ troppo “tecnico”.


Cominciamo dalla competitività internazionale dell’Italia. L’export continua a macinare record, arrivando nei primi dieci mesi dell’anno ad un attivo di oltre 43 miliardi di euro, che sale a 76 miliardi calcolandolo al netto della bolletta petrolifera. La posizione finanziaria netta (NIIP) è ormai in pareggio: non siamo più prenditori di capitali, ma esportatori, con ben esiguo profitto per la crescita interna. Investiamo all’estero da cui traiamo rendite consistenti con un saldo positivo anche per i redditi primari della bilancia dei pagamenti correnti.”


E’ un altro mondo, rispetto alla depressione prodiana. Le esportazioni tirano tantissimo, segno che la produzione nazionale è assolutamente competitiva con quella internazionale. E ci mancherebbe pure, visto il costo del lavoro sottoterra e un know how ancora di buon livello.


Ma “La crescita dell’export italiano deriva dai mercati esterni all’Unione europea, con picchi di incremento negli Usa e Svizzera, seguiti a distanza da Francia e Gran Bretagna, mentre l’OPEC collassa e cede la Germania. Si paga il traino pluriennale come fornitori di manifattura rispetto al settore automobilistico tedesco, che non avrà facile ripresa.”


Fare i “contoterzisti” dei tedeschi ha avuto i suoi limitati vantaggi (solo per chi era agganciato a quel treno), ma ora anche quella minima festa è finita. Insistere su quel fronte sarebbe da stupidi.


Soprattutto, però, la ricchezza consolidata in capitale prende la via degli impieghi all’estero, anziché in Italia. E la ragione è l’esatto opposto di quelle suggerite dall’ex padre nobile del Pd.


Infatti: “Di converso, cala l’import dell’Italia, un fenomeno che ha pochi precedenti se non in momenti di profonda crisi. E’ la domanda interna che non regge più, per via delle continue politiche fiscali e salariali restrittive. In un anno, le importazioni sono calate del 5,8%.


Le famiglie tendono a risparmiare, a rinviare ogni spesa non strettamente necessaria, abbandonando anche la manutenzione degli immobili, spesso lasciati andare in rovina quando richiederebbero interventi straordinari. Nel settore immobiliare, la tassazione patrimoniale sulle seconde case ha ottenuto ben poche entrate fiscali, a fronte di un abbattimento del valore e dell’azzeramento della funzione di garanzia a fronte di prestiti bancari. La persistente richiesta della Commissione europea e del Fmi di reintrodurre l’Imu anche sulla prima casa dimostra l’incapacità di cogliere le relazioni sistemiche.”


La “domanda interna”, per chi non lo sapesse, dipende dal livello delle retribuzioni, oltre che da quel tanto di patrimonio accantonato. Ma se quel patrimonio è fatto di immobili – la scomparsa dell’edilizia residenziale pubblica ha costretto quasi tutti i lavoratori dipendenti a “comprare casa” – non può “compensare” i bassi salari. Anzi, richiederebbero anche quelli una spesa per manutenzione, che non c’è possibilità di fare. Il che ricade negativamente su un comparto produttivo – l’edilizia – già in forte crisi.


Naturalmente non è finita qui…


Come se non bastasse, si registra una caduta della variazione tendenziale anche dei prezzi all’importazione, del 3,8%, pilotata dalla componente energetica. Nell’Unione europea, la politica fiscale persegue obiettivi contrastanti rispetto a quelli della politica monetaria: mentre i vincoli del Fiscal Compact comportano che il tasso di disoccupazione debba essere mantenuto ad un livello elevato al fine di scoraggiare una pressione inflazionistica dei salari, la Bce continua ad ipotizzare con sempre minore convinzione un aumento annuo dei prezzi al 2%. Quando i prezzi all’importazione calano, la politica fiscale e salariale rimane restrittiva, è già un miracolo che non si ricada in deflazione.”


Qui cominciano a venir fuori le ragioni strutturali e sistemiche della crisi italiana, che hanno origine – “da quasi 25 anni” – nei trattati e nella “cultura economica” che si è imposta nell’Unione Europea. Alta disoccupazione e bassi salari sono in contrasto con una crescita dell’inflazione anche di livello molto modesto; ma se i prezzi sono attesi stabili o in calo, nessun imprenditore investe (o comunque si tiene molto più “prudente”). Il che, ovviamente, ha conseguenze ancora più depressive.


Le banche, cuore del sistema produttivo – specie di quello italiano, fondato sulla centralità dell’impresa “familiare”, quindi senza grandi capitali e senza ricorso alla capitalizzazione di borsa – fanno la loro parte nell’aggravare la situazione. E non solo per propria colpa: “Per quanto riguarda il credito alle imprese italiane, nel silenzio generale continua lo strangolamento: tra il 2011 e l’agosto scorso la contrazione è stata di 260 miliardi di euro, pari al 15% dello stock iniziale. Ad ottobre scorso, rispetto alla fine del 2017, la riduzione è stata di 84 miliardi di euro; in soli dieci mesi, rispetto alla fine del 2018, è stata di 46 miliardi di euro, pari a 3 punti di pil. Sono dati irrilevanti nel dibattito generale.”


Sempre meno credito alle imprese (e la situazione peggiorerà con il Mes…), sempre meno investimenti privati, uguale sempre meno dinamica economica positiva. Altro che pannolini e bonus bebè…


L’economia reale, intanto, continua a finanziare la rendita, attraverso il pagamento degli interessi sul debito pubblico che vengono accollati alla tassazione. Il saldo primario di bilancio pubblico rappresenta ormai da decenni un fattore recessivo: nel 2020, secondo il Nadef presentato lo scorso 30 settembre, il rapporto deficit/pil sarà del 2,2%, il peso degli interessi del 3,3% ed il saldo primario dell’1,1%. Negli anni scorsi, il rapporto interessi/pil è caduto di mezzo punto percentuale, passando dal 3,8% del 2017 al 3,3% del 2020. Il saldo primario si è contratto di quattro decimi di punto passando dall’1,5% del 2018 all’1,1% del 2020.


Il risanamento del debito pubblico attraverso l’aumento del saldo primario, che è stato teorizzato sin dal 1992, è una ricetta usurata, che va completamente ripensata. Per azzerare il deficit del 2020, pari al 2,2% del pil, si dovrebbe incrementare dello stesso ammontare il saldo primario, portandolo dall’1,1% al 3,4% . Gli effetti sul pil sarebbero disastrosi, facendoci tornare in recessione: il rapporto debito/pil peggiorerebbe per via della caduta del denominatore della frazione, come è già accaduto dal 2012. Una cura che uccide il malato, dopo averlo dissanguato da decenni.”


Traduciamo? Servirebbero investimenti pubblici, ma sono vietati dalle regole europee. Le quali, al contrario, impongono un aumento dei tagli alla spesa pubblica (l’aumento dell’avanzo primario significa che lo Stato spende molto meno di quello che incassa con le tasse; e lo fa da quasi 20 anni) per ridurre il debito in rapporto al Pil. Che però non può diminuire già solo per ragioni aritmetiche (se il Pil non cresce, il debito come proporzione sale anche se la spesa diminuisce). A queste si aggiungono le ragioni finanziarie, perché l’alto spread costringe a pagare interessi su quel debito molto più alti di quanto non sarebbe giusto.


E infatti Salerno Aletta scrive che “Occorre un meccanismo di riequilibrio: così come viene imposto il criterio della severa condizionalità per gli Stati che chiedono aiuti, è indispensabile che quelli che seguono i criteri di convergenza si vedano riconosciuta la giusta premialità attraverso l’azzeramento dello spread: questo è il Qe che serve. L’Italia, facendo il paragone con l’onere per interessi pagato dalla Francia che ha un volume di debito praticamente identico, risparmierebbe 20 miliardi di euro l’anno. Si arriverebbe al sostanziale abbattimento del deficit, che dipende solo ed esclusivamente dal maggior costo del debito.”


Messa così, il problema è: chi deve tirare la cinghia? La popolazione (italiana in questo caso, ma vale lo stesso per gli altri paesi UE) o la finanza speculativa? La risposta “europea” – e di Prodi, ossia del Pd – è chiara: i lavoratori dipendenti, i piccoli risparmiatori, le nuove generazioni, i vecchi che non devono andare in pensione fino alla morte. E non che su questo Lega, M5S, Conte, Berlusconi o Meloni la pensino diversamente…


Il che pone un problema politico serio anche a una quota importante della “borghesia” italiana, che sente ormai direttamente su di sé – sui propri patrimoni, attività, ricchezze, ecc – la pressione dell’ansia di profitto della “borghesia europea” (a centralità franco-tedesca, com’è noto).


Basti pensare alle regole bancarie fin qui difese ad oltranza dalla UE: “Neppure più soddisfacente sembra essere alla prova dei fatti la strategia normativa seguita in Europa per evitare l’azzardo morale nella gestione bancaria. Non è mai stato considerato neppure plausibile l’obiettivo di evitare aggregazioni bancarie eccessivamente ampie, quelle che in passato avevano garantito una indiretta protezione per via del fatto di essere too big to fail, in quanto il confronto con i giganti americani e cinesi avrebbe svantaggiato in partenza i competitor europei.


Neppure lontanamente è stata ravvisata la possibilità di introdurre limiti al trading in proprio ed alle attività finanziarie rispetto al credito, attraverso una sorta di Volker Rule. Si è optato sin dal 2013 per il bail-in: da una parte, è stato introdotto il divieto di aiuti di Stato al sistema bancario, e dall’altra il sistema di risoluzione unificato (BRRD), che accolla il costo del fallimento bancario agli azionisti, agli obbligazionisti ed ai depositanti per le somme ulteriori rispetto ai 100 mila euro.”


Anzi…


La riforma del MES costituisce una rete di garanzia a favore del Fondo di Risoluzione bancaria: il bail out, cacciato dalla finestra, rientra dal portone principale: d’altra parte, una dotazione complessiva nell’Eurozona di 55 miliardi di euro, all’orizzonte degli otto anni dalla sua attivazione, è una inezia.”


Traduzione: il Mes dovrà essere per forza rimpinguato con fondi degli Stati, ma gli Stati che chiederanno la sua “protezione” per le banche nazionali saranno costretti a consegnare definitivamente le chiavi del proprio bilancio a un organismo “tecnico” orientato in senso ordoliberista. Come ha giustamente sintetizzato Marco Veronese Passarella, docente alla Leeds University Business School, “Accendere un mutuo onerosissimo e perdere il lavoro per essere ammessi come soci in un’associazione che minaccia e penalizza i soci disoccupati e indebitati, sequestrando loro il portafoglio e i figli. Ecco, in sintesi, la storia macroeconomica italiana degli ultimi trent’anni”.


Il meccanismo è un po’ complesso, ma neanche tanto. Si tratta infatti di decisioni politiche spacciate per “buone pratiche economiche”, che penalizzano posizioni o pratiche finanziarie fin qui “normali”, rendendole così prede a disposizione per la speculazione finanziaria. Naturalmente quelle decisioni politiche sono altamente asimmetriche, e puntano a penalizzare alcuni sistemi economici (l’Italia, soprattutto, per dimensioni del “bottino” disponibile) e salvaguardarne altri che sono entrati da tempo in grave crisi (la Germania, of course).


Tecnicamente, Salerno Aletta lo spiega benissimo:


la decisione di penalizzare le obbligazioni bancarie subordinate, nel caso di bail-in, ha indotto i depositanti italiani a trattenere i propri depositi in forma liquida, a vista. Ciò comporta una maggiore difficoltà da parte delle banche di operare la trasformazione delle scadenze e la necessità di acquisire in contropartita asset altrettanto liquidi come i titoli Stato o di accrescere le riserve libere presso la Bce.


La decisione di penalizzare queste ultime detenzioni applicando un tasso negativo, per quanto ora parzialmente mitigata, riduce i margini di intermediazione. Anche qui, si è creata una morsa: i depositi presso la Bce, pur essendo risk free per definizione come lo sono i titoli di Stato, comportano margini negativi mentre i secondi producono rendimenti. Ma l’immissione di liquidità con il Qe ha reso negativi anche questi impieghi, in alcuni casi per tutto l’arco delle scadenze. Un riequilibrio al ribasso che scassa i conti delle banche.


Considerando il solo profilo degli impieghi bancari, la ipotesi di attribuire ai titoli di Stato un gradiente di rischio comporterebbe conseguenze drammatiche: per mantenerli in portafoglio occorrerebbe procedere ad aumenti di capitale, oppure ridurre il credito ai privati.


Per quanto riguarda il funzionamento dell’Unione economica e monetaria, per il momento è tutto. C’è davvero del metodo, in questa follia.”


Questa follia, dicevamo, ha alle spalle trattati e istituzioni continentali. Quei trattati sono stati firmati da tutti i governi italiani degli ultimi 30 anni. Quelle istituzioni hanno visto protagonisti alcuni “funzionari italiani” indicati da tutti i partiti che sono stati al governo nello stesso periodo.


Non c’è dunque nessuno – nell’attuale “classe politica” – che possa dirsi innocente.


Men che meno Romano Prodi, due volte primo ministro italiano, per cinque anni capo della Commissione Europea (prima di Barroso, Juncker e Von der Leyen).


Che infatti deve fare il Falsario e raccontare che il problema è da un’altra parte. Nei pannolini troppo costosi, per esempio…

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