La vera transizione democratica in Venezuela è già avvenuta: si chiama Rivoluzione Bolivariana

In un’epoca di postdemocrazia occidentale, il Venezuela bolivariano offre un’alternativa concreta fatta di sovranità, partecipazione e resistenza all’imperialismo

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La vera transizione democratica in Venezuela è già avvenuta: si chiama Rivoluzione Bolivariana


di Fabrizio Verde

Nell’assurda motivazione dove si spiega perché il comitato norvegese scelto dal Parlamento di Oslo abbia deciso di assegnare il premio Nobel per la Pace alla violenta, estremista, fascista, antidemocratica e guerrafondaia venezuelana Maria Corina Machado si afferma che "riceverà il premio Nobel per la pace per il suo instancabile lavoro nel promuovere i diritti democratici del popolo venezuelano e per la sua lotta per raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia".

Ovviamente si tratta della cosiddetta “democrazia” formale declinata in senso liberale. Probabilmente a Oslo, Stoccolma, nel mainstream, così come nel resto del sempre più decadente occidente ignorano che una transzione alla democrazia in Venezuela già vi è stata. Questa transione risale all’avvento sulla scena politica di Hugo Chavez, capace di rompere il Patto di Punto Fijo in vigore dal 1958 che aveva istituito di fatto un rigido sistema bipartitico dove il potere veniva spartito tra i partiti Acción Democrática (AD) e COPEI che si alternavano al potere in un gioco di élite chiuse, corrotte e oligarchiche, escludendo interi strati della popolazione dalla vita politica.

Il Venezuela pre-Chávez: una “democrazia” per pochi 

Come documenta José Sant Roz nel suo fondamentale ‘4-F: La rebelión del Sur’, il Venezuela pre-Chávez era un esempio perfetto di quella che Roberto Mangabeira Unger – filosofo e politico brasiliano - definirebbe una “democrazia truccata”: un sistema che, pur mantenendo le apparenze formali della democrazia (elezioni, parlamento, costituzione), funzionava in realtà come un meccanismo di esclusione sociale e concentrazione del potere. Il Patto di Punto Fijo non era un patto per la democrazia, ma un patto contro la democrazia reale: un accordo tra élite per garantirsi la spartizione del potere, mentre il popolo — soprattutto i poveri, gli indigeni, i contadini, i lavoratori informali — restava fuori dal gioco. 

In quel sistema, la partecipazione popolare era ridotta a un voto ogni quattro anni, e persino quel voto era manipolato da una macchina clientelare e mediatica che impediva qualsiasi alternativa reale. Non c’era spazio per il dissenso, per la pluralità sociale, per le culture subalterne. La democrazia era una facciata dietro cui si nascondeva un regime oligarchico, sostenuto da Washington e dagli interessi petroliferi internazionali. I giornali di sinistra venivano chiusi e i comunisti sbatutti in galera senza troppi complimenti. Le classi popolari erano condannate alla miseria mentre le èlite vivevano nel lusso più sfrenato. A tal proposito, nel libro già citato di Jose Sant Roz, viene ben illustrato il lusso e gli sprechi dell’ex presidente Carlos Andrés Pérez (CAP) e la sua amante Cecilia Matos. Questo un passaggio illuminante di un lirbo fandamentale per capire, oltre la propoganda, cos’era il Venezuela prima di Chavez: “Il popolo schiavizzato vide la baldoria dell’incoronazione di Carlos Andrés Pérez e gli episodi della sua politica economica, in cui aveva promesso che si sarebbe tornati all’epoca delle “vacche grasse”. In quella baldoria allestita nella sala Ríos Reyna del Teatro Teresa Carreño c’era di tutto fuorché il popolo. Si incoronava il settimo presidente dell’era puntofijista, e la sala era stracolma di magnati, neoliberisti ed entusiasti democratici. Lì scorsero a fiumi ottimo vino e più di 1.300 bottiglie di whisky eccellente; furono sgozzati oltre duecento agnelli e ventiquattro cosce di manzo. Tutti erano felici… Con grande gioia e orgoglio, il dirigente copeyano Eduardo Fernández dichiarò alla stampa, uscendo dalla sala Ríos Reyna, che mai, neppure in occasione dell’incoronazione della regina d’Inghilterra, si era vista una cerimonia così spettacolare. Tutto ciò lo osservava il popolo in diretta radiofonica e televisiva, immerso in una desolazione immensa. Carlos Andrés Pérez arrivava dallo status di uno degli uomini più corrotti del continente”. 

La vera transizione democratica: l’irruzione di Chávez 

Fu dunque Hugo Chávez, con il suo colpo di Stato fallito del 1992 e poi con la sua vittoria elettorale del 1998, a innescare la vera transizione democratica in Venezuela. Non una transizione verso la democrazia liberale occidentale — già in crisi, già postdemocratica, già colonizzata dalle élite finanziarie — ma una transizione verso una democrazia sostanziale, partecipativa e popolare. 

La Costituzione del 1999, frutto di un processo costituente aperto e inclusivo, rappresentò una rottura radicale con il passato. Per la prima volta nella storia del Venezuela, le comunità indigene, afrodiscendenti, rurali e urbane ebbero voce in capitolo. Per la prima volta, la sovranità popolare non era un concetto astratto, ma un principio operativo: la democrazia non era più solo rappresentativa, ma “protagonica”, come recita l’articolo 62 dellaCostituzione bolivariana. 

Democrazia sostanziale vs. democrazia formale 

Il Venezuela bolivariano, sotto la guida del presidente Nicolás Maduro — che ha continuato a percorrere il cammino tracciato da Hugo Chávez tra le incredibili difficoltà portate dalla guerra ibrida a cui è sottoposto il paese — rappresenta un caso di studio emblematico nel panorama politico contemporaneo, non solo per quanto riguarda la sua concezione di democrazia partecipativa e sostanziale, ma anche per il modo in cui sfida le fallaci ideologie dominanti delle democrazie liberali occidentali. 

Questo modello, spesso criticato o frainteso di proposito dai media mainstream occidentali, si distingue nettamente dalle democrazie liberali formali che dominano in Europa e Nord America. Attraverso un’analisi dei recenti sviluppi politici e costituzionali in Venezuela, è possibile evidenziare come il paese stia cercando di costruire un sistema democratico che vada oltre la mera rappresentanza formale, per superarla, puntando invece su una partecipazione diretta e sostanziale dei cittadini. 

La riforma costituzionale: un processo inclusivo e partecipativo 

Uno degli aspetti più significativi del Venezuela bolivariano è il suo approccio alla riforma costituzionale. Il presidente Maduro ha promosso un processo di riforma che coinvolge attivamente la cittadinanza attraverso un dibattito pubblico ampio e inclusivo. Questo processo non è limitato a élite politiche o tecnocratiche, ma è aperto alla partecipazione di tutti i settori della società, compresi i gruppi storicamente marginalizzati come le comunità afrovenezuelane e indigene. 

Questo approccio può essere analizzato attraverso la teoria del populismo progressista, come descritto dal politologo Ernesto Laclau. Secondo Laclau, il populismo non è semplicemente una forma di movimento politico basato sull'opposizione tra "popolo" e "élite", ma piuttosto un meccanismo attraverso il quale diverse identità sociali (classe operaia, contadini, indigeni, ecc.) si aggregano attorno a un progetto comune. Nel caso venezuelano, la riforma costituzionale rappresenta proprio questo tipo di aggregazione: un tentativo di creare un contratto sociale che rifletta le esigenze e le aspirazioni di una coalizione ampia e diversificata. 

Dal burocratismo al Potere Popolare 

Un altro aspetto cruciale del modello venezuelano è la trasformazione dello Stato da una struttura burocratica e centralizzata a un sistema basato sul potere popolare e comunale. Il presidente Maduro ha insistito sulla necessità di superare le vecchie strutture burocratiche e corrotte, promuovendo invece un nuovo Stato comunale che sia più vicino alle esigenze delle comunità locali. 

Questa trasformazione è stata ulteriormente rafforzata con l'istituzione delle Camere di Autogoverno Popolare e Comunale, che permettono una comunicazione diretta e permanente tra le comunità organizzate e il governo nazionale. Questo approccio mira a rompere con la tradizionale nozione rappresentativa di Stato, privilegiando invece la partecipazione sociale attiva e la costruzione di politiche pubbliche dal basso. 

Il sociologo francese Michel Foucault, con il suo concetto di "biopotere", offre una chiave di lettura interessante per comprendere questa trasformazione. Foucault sostiene che il potere moderno non si esercita solo attraverso le istituzioni centralizzate, ma anche attraverso meccanismi diffusi e decentralizzati. Nel caso venezuelano, la creazione di strutture comunali e di partecipazione diretta può essere vista come un tentativo di democratizzare il biopotere, rendendolo accessibile alle comunità locali. 

La visione bolivariana: un modello per l’America Latina 

Il presidente Maduro ha richiamato l'attenzione sulla continuità tra il pensiero di Simón Bolívar e la Rivoluzione Bolivariana guidata da Hugo Chávez. Bolívar immaginava un'America Latina unita e libera, una visione che il Venezuela bolivariano cerca di realizzare attraverso la promozione di una democrazia partecipativa e la ferma resistenza di fronte alla protervia di imperialismo e neoliberismo. 

Maduro ha descritto tre "anelli di forza" concepiti da Bolívar per l'unificazione e la liberazione dell'America Latina, sottolineando come questa visione sia ancora rilevante oggi, di fronte a nuove forme di aggressione imperialista. La riforma costituzionale in corso è vista come un mezzo per adattare questa visione alle sfide contemporanee, garantendo che la Costituzione rifletta i cambiamenti sociali, politici ed economici degli ultimi decenni. 

A questo punto, è utile introdurre la teoria del pensiero decoloniale. Politologi come Aníbal Quijano e Immanuel Wallerstein sostenevano che i paesi latinoamericani siano ancora influenzati da relazioni di dipendenza economica e politica nei confronti delle potenze globali. La visione bolivariana del Venezuela può essere interpretata come una strategia per rompere queste catene di dipendenza, promuovendo un'autonomia economica e politica basata sulla sovranità nazionale e sull'integrazione regionale. 

Il Venezuela e il mondo multipolare 

Il Venezuela bolivariano non è solo un laboratorio di innovazione democratica all'interno delle sue frontiere, ma rappresenta anche un attore chiave nella costruzione di un mondo multipolare, caratterizzato da una maggiore diversità di poteri politici ed economici. In questo contesto, il paese ha sviluppato relazioni strategicamente importanti con blocchi geopolitici come il BRICS+, contribuendo al consolidamento di un sistema internazionale meno dipendente dalle strutture dominanti occidentali. 

Il Venezuela, pur non essendo formalmente membro del BRICS, intrattiene rapporti stretti con i suoi membri, specialmente con Russia, Cina e Iran, potenze che hanno fornito sostegno politico ed economico durante le crisi interne del paese. Queste relazioni vanno al di là dell'aspetto economico: rappresentano un'alleanza strategica basata sui principi di sovranità nazionale, non ingerenza e cooperazione sud-sud. 

Una democrazia sostanziale in azione 

Mentre le democrazie liberali occidentali lottano con problemi di esclusione politica e crescente disuguaglianza — mostrando al contempo un volto decisamente autoritario, come dimostrano le repressioni dei movimenti sociali, le leggi antiterrorismo usate contro i dissidenti, e la crescente militarizzazione della polizia — il modello venezuelano offre una visione alternativa, basata sulla concessione di maggiore potere alle comunità locali e sulla resistenza alle forme di imperialismo e neoliberismo. 

Come ha sottolineato Colin Crouch, la postdemocrazia è una realtà in molti paesi occidentali, ma il Venezuela bolivariano dimostra che un’altra democrazia è possibile, una democrazia che sia veramente del popolo, per il popolo e con il popolo. 

Conclusione: la farsa del Nobel e la verità della democrazia 

Assegnare un premio Nobel per la pace a chi rappresenta l’opposizione più estrema, violenta e antidemocratica del Venezuela — una figura che ha apertamente sostenuto colpi di Stato, il genocidio israeliano a Gaza, sanzioni economiche e persino interventi militari stranieri — non è solo un atto di ipocrisia, ma un segnale della crisi morale e intellettuale dell’Occidente. 

Il Venezuela non ha bisogno di una “transizione alla democrazia”. Ne ha già vissuta una, profonda, radicale, popolare. E continua a difenderla, nonostante le sanzioni, i sabotaggi, le minacce e le menzogne del mainstream. 

La vera democrazia non è quella che si misura con i sondaggi di Gallup o con le dichiarazioni dei think tank di Washington. La vera democrazia è quella che si costruisce nelle piazze, nei consigli comunitari, nelle assemblee popolari, nei territori. Ed è esattamente questa la democrazia che il Venezuela bolivariano sta costruendo — e che l’Occidente, nella sua arroganza coloniale, rifiuta di vedere.  

 

 

Fabrizio Verde

Fabrizio Verde

Direttore de l'AntiDiplomatico. Napoletano classe '80

Giornalista di stretta osservanza maradoniana

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