Le pensioni di cui non si parla
Troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per lavorare? La fotografia di un paese diseguale e senza futuro?
di Federico Giusti
Sono trascorsi ormai 20 anni da quando veniva invocato un patto generazionale, minore generosità verso gli anziani e un welfare invece attento verso le giovani generazioni. Un dibattito infarcito di luoghi comuni e approcci discutibili ma destinato a rompere alcuni equilibri e primo tra tutti quello intergenerazionale. E la rottura di certi equilibri è sempre la premessa per costruire nuove narrazioni e inserire nel dibattito pubblico alcune tematiche. E tra le conseguenze di questo pseudo dibattito non si ravvisa una sostanziale correzione del welfare ma il suo indebolimento a svantaggio degli anziani e dei giovani
Fino al secolo scorso era scontato che i contributi dei giovani tenessero in piedi l’Inps ma il numero degli occupati era (ancora) di gran lunga maggiore a quello dei pensionati e in paesi vittime della denatalità e di politiche immigratorie restrittive, si vive come un incubo l’invecchiamento della popolazione, la regressione economica che spesso si manifestano nei medesimi tempi.
Dal 2002 è cresciuta fascia di un’età pari o superiore a 65 anni passando dal 18,7% del 2002 al 24,3% del 2024. Al contempo la popolazione tra 0 e 14 anni è diminuita attestandosi al 12,2% del 2024. La decrescita è costante, non si arresta e continua anno dopo anno con la popolazione tra tra i 15 e i 64 anni che in un ventennio ha perso quasi 4 punti percentuali.
Negli ultimi 35 anni i paesi a capitalismo avanzato hanno portato avanti, chi più e chi meno, alcune politiche quali
- Innalzamento dell’età pensionabile
- Un calcolo dell’assegno previdenziale meno vantaggioso per i lavoratori ma meno dispendioso per le casse statali e datoriali
- Ricorso alla previdenza integrativa attraverso il Trattamento di fine rapporto asserendo la necessità di favorire una pensione dignitosa che il sistema pubblico non sarebbe più in grado di offrire.
Notate che i primi detrattori del pubblico sono proprio coloro che dovrebbero difenderlo, vale per la previdenza, per la sanità e per tutte le misure universali del welfare.
Se l’obiettivo dei governi via via succedutisi era quello di favorire l’ingresso dei giovani nel mondo lavorativo i risultati ottenuti sono stati assai deludenti, meritano quindi una sonora bocciatura e negli ultimi due anni gran parte delle offerte sono arrivate a over 50 in possesso di requisiti, competenze e formazione per essere subito immessi in produzione.
Qualche segnale di ripresa arriva dall’apprendistato la cui estensione a fasce di età che all’estero annoverano già lavoratori e lavoratrici esperti, apprendistato assai meno pagato di regolare contratto.
Le aziende chiedono al sindacato, alle associazioni datoriali che le rappresentano e al Governo
- Sgravi e aiuti fiscali per pagare sempre meno tasse
- Meno vincoli in materia di assunzioni e contratti e per questo auspicano il potenziamento del secondo livello di contrattazione con tutte le deroghe peggiorative rispetto al Ccnl. Scambiare aumenti contrattuali con benefit di vario tipo e in prospettiva pagare sempre meno contributi Inail e Inps
- Politiche atte a favorire l’uscita dal mondo produttivo degli anziani per sostituirli con forza lavoro già formata (e non a carico delle aziende), con contratti inferiori e peggiorativi
E sempre le aziende, e i loro cantori intellettuali e giornalistici, continuano a ripetere che il sistema previdenziale italiano è insostenibile, non possiamo permetterci tanta generosità specie ora che le risorse pubbliche devono essere indirizzate al Riarmo.
Non è sufficiente avere innalzato l’età pensionabile ormai alle soglie dei 70 anni, avere stabilito per la Pubblica amministrazione lo stesso limite anagrafico del privato (il governo di destra ha raccontato agli elettori che avrebbero cancellato la Fornero giusto per capire chi Governa e il loro grado di coerenza), hanno provato a uscite flessibili e a incentivare l’esodo ma evidentemente le offerte sono state assai meno convincenti e generose di quelle tedesche con oltre 20 mila dipendenti meccanici in uscita volontaria verso la pensione.
E l’uscita anticipata avviene con oltre 42 anni di contributi (41 per le donne) risultando quindi poco credibile, e appetibile, perché difficilmente questo lavoratore, o lavoratrice, sarà entrato nel mondo del lavoro a 20 anni e in ogni caso un quarantennio di produzione avrà usurato queste maestranze per le quali l’età pensionabile diventa scelta obbligata, anche a costo di decurtazioni dell’assegno previdenziale, per la impossibilità di sostenere ritmi e tempi di lavoro.
Tra il 2012 e il 2022 non solo è cresciuta l’aspettativa di vita ma anche l’età anagrafica della forza lavoro attiva spostando in avanti, forse più di ogni altro paese della vecchia Ue, la età pensionabile nonostante l’età media di accesso delle donne sia aumentata più lentamente negli anni e le differenze di genere siano ancora piuttosto marcati.
Ora la domanda senza risposta riguarda il costo sociale e la sostenibilità alla lunga di un sistema che ritarda l’uscita dal lavoro, offre occupazione a chi è già formato, quale sarà il costo “sociale” dell’invecchiamento della popolazione?
Detto in altri termini sarà sufficiente la previdenza integrativa a salvare l’Inps? E che ne sarà di chi perderà il posto per l’ormai imminente ristrutturazione e in un’età troppo lontana anche da un pensionamento con forti decurtazioni dell’assegno?
In Italia si parlando della necessità di istituire sistemi di tutela contro la disoccupazione che dovranno garantire tutele efficaci ai più anziani nella fase di transizione verso la pensione. Ma in sostanza vogliono riformare gli ammortizzatori sociali? Liberare le aziende da ogni problema scaricando gli oneri economici e sociali sulla collettività e sullo Stato?
Conoscendo i soggetti, ogni riforma degli ammortizzatori sociali come della materia giuslavorista o previdenziale finisce sempre con il danneggiare la forza lavoro trovando soluzioni favorevoli per le parti datoriali.
E dobbiamo anche aspettarci una sorta di precarietà ulteriore dei contratti di lavoro, si parla infatti del contratto intermittente, utilizzabile per gli under 24 e gli over 55 permettendo alle imprese una gestione flessibile del rapporto di lavoro o intervenendo magari sui contratti a tempo determinato per cancellare ogni limite e casuale e così consentire la piena assunzione dei lavoratori over 50 che, al pari dei giovani, andranno ad ingrossare le fila del lavoro precario aumentando la austerità salariale e la ricattabilità sociale di una fascia crescente della popolazione.