Motivazioni economiche dietro la tregua e il destino di Gaza
di Maurizio Brignoli
Il grande vantaggio della guerra (nel nostro caso della distruzione volta a favorire pulizia etnica e genocidio) per il capitale è di distruggere il plusvalore in eccesso che determina la crisi da sovrapproduzione e di trasferire il plusvalore, dato che la guerra non ne crea di nuovo, ai vincitori e ha il grande pregio, sempre e solo per chi ne esce vittorioso, di permettere una ridistribuzione, un trasferimento (un furto) di ricchezza.
Lo sterminio israeliano di Gaza, accompagnato dalle molteplici operazioni militari in cui Israele è impegnata, è da inserirsi all’interno di un conflitto più ampio, la famosa “terza guerra mondiale a pezzi” di bergogliana memoria che si sta trasformando sempre più in un’unità completa e realizzata, di stampo interimperialistico in cui Israele svolge, almeno per ora, il ruolo di imperialismo regionale al servizio di Washington.
La ricostruzione
Su Gaza sono state riversate 200.000 tonnellate di esplosivi che hanno portato alla distruzione di case, terreni agricoli, ospedali, scuole, università, moschee, chiese, monumenti, siti storici, primari obiettivi della distruzione non solo fisica ma anche culturale e civile dei palestinesi. Il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp) il 14 ottobre ha annunciato che serviranno 20 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per iniziare la ricostruzione a Gaza, parte di un piano di ripresa complessivo quantificato dall’ultimo Interim Rapid Damage and Needs Assessment (Irdna) su Gaza da parte dell’Onu, dell’Ue e della Banca Mondiale, in 70 miliardi di dollari il cui completamento potrebbe richiedere decenni1. Solo la rimozione delle macerie è un compito improbo dato che i bombardamenti hanno prodotto almeno 55 milioni di tonnellate di detriti, sufficienti a riempire Central Park a New York fino a un’altezza di 12 metri o a costruire 13 piramidi di Giza2.
La distruzione si trasforma quindi in occasione per dare vita a un nuovo processo di accumulazione con lauti affari per le imprese israeliane, saudite, americane, inglesi, italiane, qatariote e altre che si spartiranno gli appalti per la ricostruzione, ma non si può neppure escludere che qualche buon affare potrà farlo quella borghesia compradora palestinese che collabora con Israele. Del resto Bezalel Smotrich, ministro delle finanze sionista (2022-), era stato chiaro quando a settembre aveva definito Gaza una potenziale “bonanza immobiliare”, parlando di “opportunità che si ripaga da sola” e di accordi già intercorsi con gli statunitensi: «Abbiamo pagato un sacco di soldi per questa guerra. Dobbiamo vedere come stiamo dividendo il terreno in percentuale […], la demolizione, la prima fase del rinnovamento della città, l’abbiamo già fatta. Ora dobbiamo costruire. C’è un piano aziendale, messo a punto dalle persone più professionali qui presenti, che è sulla scrivania del presidente Trump»3.
Finché il progetto genocida israeliano non avrà modo di rimettersi in moto ai palestinesi che non verranno incentivati ad andarsene (con qualche spicciolo o con le cattive) e che rimarranno nella Striscia è riservato il ruolo di forza-lavoro sottopagata.
Secondo i progetti a governare la Gaza post genicidio sarà un “Consiglio per la Pace” guidato dal presidente statunitense Donald Trump (2017-2021; 2025-) e dall’ex primo ministro britannico Tony Blair (1997-2007). Il criminale di guerra Blair, uno dei principali responsabili dell’invasione dell’Iraq e della frottola delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, si è successivamente riciclato in ricche attività di consulenza per le monarchie del Golfo. Il Tony Blair Institute, uno dei primi promotori della Riviera di Gaza, annovera fra i principali finanziatori il miliardario Larry Ellison cofondatore di Oracle, una delle maggiori compagnie tecnologiche statunitensi, neoacquirente di TikTok, e impegnato a influenzare l’opinione pubblica negli Usa a favore di Israele nonché principale finanziatore privato dell’esercito israeliano4. Ad affiancare il viceré Tony Blair sono previsti l’imprenditore e rabbino Aryeh Lightstone, uno dei fondatori della famigerata Gaza Humanitarian Foundation deputata ad affamare i palestinesi, ha parlato spesso del potenziale “molto prezioso” della “proprietà costiera” di Gaza ed è stata una figura attiva negli Accordi di Abramo; il miliardario Marc Rowan, proprietario di un fondo di investimenti e uno dei finanzieri più ricchi di Wall Street e si è distinto nel fomentare la repressione per chi simpatizzava per i palestinesi nelle università statunitensi e Naguib Sawiris, magnate egiziano e dell’industria mineraria e delle telecomunicazioni5.
Le figure che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nelle trattative volte a realizzare la tregua e a delineare il futuro di Gaza e deputate a svolgere un ruolo di primo piano nel progetto di ricostruzione imperialistica sono Steve Witkoff, inviato speciale di Trump per il Medioriente (2025-) e investitore immobiliare e Jared Kushner anche lui investitore immobiliare e già consulente anziano di Trump nel suo primo mandato (2017-2021) e altri grandi imprenditori regionali e statunitensi, con i palestinesi relegati a ruoli sussidiari6. Anche Kushner, come Blair, vanta importanti affari nel Golfo, la sua società Affinity Partners ha infatti incassato 2 miliardi di dollari dal fondo di investimenti pubblici saudita, mentre, appena dopo l’elezione di Trump, il Qatar e gli Eau avevano investito in Affinity Partners1,5 miliardi, con il Qatar che aveva già salvato Kushner da un fallito investimento immobiliare a Manhattan7. L’obiettivo di questi personaggi sta nel trasformare Gaza in una zona speciale di investimento internazionale integrata in una nuova rete economica regionale guidata dagli Stati Uniti8.
L’analista politico Ranjan Solomon ha spiegato bene il ruolo di figure come Kushner (e Witkoff): «Il ruolo di Kushner nel plasmare la politica statunitense e israeliana nei confronti della Palestina e del mondo arabo in generale non è casuale. Riflette una logica più profonda del nuovo volto dell’imperialismo: l’esternalizzazione della conquista a interessi privati ??e a mediatori di potere non eletti. Non è un attore canaglia, ma un tramite per un sistema che fonde la logica immobiliare aziendale con il potere statale per confiscare terre, reprimere popolazioni e riprogettare il futuro politico della regione. Il cosiddetto “Accordo del Secolo” di Kushner conteneva un sotto-piano sconvolgente: trasformare parti di Gaza in una “Singapore sul Mediterraneo” o in una “Riviera di Gaza”. A prima vista sembra una via di fuga dalla povertà; in realtà, è un progetto di cancellazione. I palestinesi sarebbero ridotti a lavoratori dei servizi a basso salario sulle loro terre espropriate, mentre investitori e regimi stranieri ne traggono profitti. Questa è la classica “accumulazione per espropriazione” (David Harvey): trasformare la sofferenza di un popolo in un’opportunità di capitale. Il suo slogan suonava così: La Riviera di Gaza: da prigione a cielo aperto a parco giochi per turisti. […]. La “Riviera di Gaza” rappresenta l’estetizzazione dell’occupazione: uno spettacolo di modernità che maschera il furto di sovranità. Non è un piano economico, ma un insulto alla civiltà: il sogno del colonizzatore di costringere i colonizzati a servire i turisti proprio nel luogo del loro trauma […]. Dai colpi di Stato della CIA degli anni ‘50 alla guerra in Iraq del 2003, la politica statunitense è stata quella di impedire l’emergere di qualsiasi potenza araba indipendente e unificata. I piani di Kushner si inseriscono perfettamente in questa linea. Promettendo zone di investimento, centri tecnologici e “modernizzazione”, gli Stati Uniti coltivano una classe di élite arabe legate al capitale occidentale, negando al contempo alle masse la loro capacità politica […]. Gli Accordi di Abramo dovevano essere un colpo da maestro; si stanno già sfilacciando. Persino i regimi che li hanno firmati affrontano disordini interni e si stanno orientando verso il multipolarismo […]. In questo senso, la visione di Kushner di Gaza come Riviera non rappresenta il futuro. È l’ultimo sussulto di un ordine morente, un opuscolo immobiliare per un colonialismo che non ha più una patria morale»9.
Si è di fronte dunque a un comitato di governatori coloniali di Usa e Regno Unito con un meccanismo di governo volto all’esclusione di decisioni autonome palestinesi, un modello di stampo coloniale al massimo nella versione del protettorato visto che si ipotizzano alcune figure palestinesi a svolgere un ruolo formale10. Probabilmente si tratterà di figure della borghesia compradora palestinese vicine a Fatah e quindi a Israele e Usa. La borghesia palestinese si trova a operare in una situazione dove le capacità produttive interne sono limitate e l’economia si trova in buona parte a dipendere dalle importazioni e dai capitali provenienti dall’estero, conseguentemente il capitale palestinese deriva la sua forza dalla vicinanza politica alle strutture dell’Anp quali fonti principali di flussi di capitali. La classe capitalistica palestinese è composta da una borghesia formatasi nei paesi del Golfo e che, tramite i flussi finanziari provenienti dal Golfo stesso, ha svolto un ruolo rilevante nella formazione della classe dirigente cisgiordana contribuendo a moderare le posizioni più radicali della lotta nazionale palestinese; vi è un secondo gruppo, storicamente più radicato e formatosi precedentemente alla guerra dei Sei giorni, proveniente da quella che era la grande proprietà terriera cisgiordana e infine vi sono coloro che si sono arricchiti esercitando la funzione di mediatori con gli occupanti dopo il ‘67. Il capitalismo palestinese nella sua triplice articolazione interna trae buona parte dei suoi benefici da una stretta relazione con l’Anp che gli ha garantito rendite monopolistiche nei settori di petrolio, cemento, farina, acciaio, tabacchi concedendo inoltre permessi esclusivi per l’importazione e la distribuzione di beni in Cisgiordania e nella Striscia nonché la concessione di terre demaniali a prezzi di favore. Poiché di fatto l’Anp non è uno stato indipendente, ma legato alle “concessioni” israeliane, la stessa possibilità di accumulazione capitalistica è condizionata dallo stato sionista e da un atteggiamento collaborativo con esso, con la conseguenza che i capitalisti cisgiordani non hanno la posizione di una borghesia nazionale ma di una borghesia collaborazionista. In una situazione di questo tipo è difficile trovare un’unità nazionale perché gli interessi di classe prevalgono e contrastano su quelli nazionali e tutto ciò fa il gioco di Israele. Hamas nel 2006 aveva vinto le elezioni in buona parte a causa della profonda corruzione dell’Anp. Grazie anche agli aiuti provenienti dai paesi amici, Hamas aveva cercato in qualche modo di garantire un minimo di “stato sociale”, all’interno di una coerente applicazione del corporativismo religioso, ma, in seguito alla crisi economica determinata dall’assedio sionista e dalla crisi internazionale, Hamas si è trovato in difficoltà nel garantire quel minimo di welfare in salsa islamica, il che aveva portato una perdita di consensi (fra l’altro gradualmente Hamas si era posto sempre più al servizio dei propri militanti e delle proprie clientele perdendo così altre simpatie) che sono stati poi recuperati grazie alla resistenza armata11.
Il progetto che si delinea è quello di uno spazio neocoloniale pacificato e controllato (e depoliticizzato) destinato alla circolazione, al consumo e alla produzione del capitale. Pur limitando alcune delle forme più estreme di autorità coloniale previste da Israele in progetti precedenti, il piano di Trump ne incorpora il disegno di demilitarizzazione e radicale depoliticizzazione dello spazio palestinese (è esclusa una sovranità e un’autodeterminazione palestinese) in un disegno neocoloniale più ampio (e più efficiente) per il tramite di un “comitato palestinese tecnocratico e apolitico” collaborazionista supervisionato da un Consiglio per la pace, presieduto da Trump e Blair.
Il progetto non è molto diverso da quello della “Riviera del Medio Oriente” ipotizzata da Trump pochi mesi prima – la differenza principale, e non di poco conto, sta nella rinuncia (o dilazione?) alla pulizia etnica con annessa deportazione per i sopravvissuti palestinesi – poi sviluppatasi dapprima nel prospetto Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (Great) e poi nella Gaza International Transitional Authority (Gita)12. L’idea di trasformare Gaza in un lucroso investimento immobiliare, come abbiamo visto, è entusiasticamente condivisa in ambito sionista.
«Guardare al genocidio attraverso il prisma di questi piani ci mostra la logica stessa dell’eliminazione propria del capitale, in cui una guerra di sterminio si rivela come […] una “guerra di accumulazione”: la distruzione […] è retroattivamente rivelata come ciò che Marx, nel Capitale, vol. I, definiva “la serra forzata dell’accumulazione”. Sebbene il genocidio non sia stato direttamente mosso da una strategia capitalistica di accumulazione, questi piani lo reinscrivono come parte integrante di tale strategia […]. L’attacco sincronizzato a diversi aspetti della vita di un popolo prigioniero diventa qui la condizione preliminare per i mega-progetti: i nuovi corridoi logistici e le infrastrutture per i minerali delle terre rare, gli idrocarburi fossili e le catene delle merci, ma anche per i massicci complessi tecnologici della violenza concentrata (ora “alimentata dall’intelligenza artificiale”) necessari a garantire questi modelli di circolazione e accumulazione […]. Le transizioni immaginate da questi piani per Gaza rendono la cessazione del genocidio condizionata al politicidio; si fondano sulla sottomissione dei palestinesi – che al massimo verrebbero impiegati come manodopera servile o come forze di sicurezza collaborazioniste in una strategia imperialista di accumulazione regionale che ri-funzionalizza tutti i dispositivi del colonialismo per alimentare le fantasie speculative autoritarie degli odierni miliardari e dei loro consiglieri tecnocratici»13.
Il piano degli immobiliaristi Kushner e Witkoff presentato agli investitori del Golfo prevede una ricostruzione solo sul lato orientale della Striscia, cioè, quel 53% del territorio di Gaza attualmente controllato da Israele o, per citare le parole di un consigliere di Trump, nelle “zone libere da Hamas e dal terrorismo”: «nessun denaro per la ricostruzione andrà nelle zone controllate da Hamas»14.
Questo piano di ricostruzione nella parte controllata da Tel Aviv che spazi prevede per i palestinesi? Oltre l’edificazione di luoghi esclusivi per l’oligarchia transnazionale di mega ricchi è ipotizzabile che i nuovi complessi residenziali, che rimarranno prevedibilmente sotto controllo dell’esercito israeliano, vedranno con buona probabilità i coloni israeliani occupare le nuove dimore. Per i palestinesi, in alternativa alla metà di Gaza distrutta dove languire in cerca di un riparo in un paesaggio lunare (almeno fino a che Hamas non sarà disarmato), i funzionari statunitensi hanno parlato di “Comunità alternative sicure” (con alloggi temporanei, scuole e cliniche) per indicare un piano, sostenuto da Kushner e Witkoff, che prevede degli insediamenti destinati ai palestinesi sfollati all’interno delle aree di Gaza controllate da Israele alle quali sarebbero ammessi previo esame dei servizi segreti israeliani, che se rinvenissero un’affiliazione o un semplice sostegno (del soggetto interessato o di un familiare) ad Hamas provvederebbero all’esclusione, i “privilegiati” ammessi non avranno però la libertà di scegliere se tornare nelle zone ancora sotto l’autorità di Hamas. Queste “comunità”, ma il termine giusto sembrerebbe essere “campi di internamento” destinate ai palestinesi selezionati agli altri è destinata la distruzione della Gaza che non vedrà un dollaro finché Hamas esiste, verranno a costituire delle zone controllate in cui i residenti sono confinati e monitorati, modello riserva per i pellirosse15. Per ora nessuno degli alleati arabi e musulmani ha accettato questo piano.
Giacimenti e corridoi
Oltre alla ricostruzione un altro elemento economico per nulla secondario è la questione del controllo dei giacimenti di petrolio e gas al largo della costa di Gaza per un valore stimato in oltre 500 miliardi di dollari.
La crisi economica che colpisce l’economia occidentale colpisce allo stesso modo Israele, in una tale situazione controllare le riserve e le vie di transito degli idrocarburi e la moneta con cui si valutano diventa sempre più importante all’interno dello scontro con la Cina che si è garantita grandi approvvigionamenti energetici con accordi siglati con Russia, Iran e petromonarchie, e, cosa ancor più pericolosa per gli Usa, ha posto le basi per la realizzazione del petroyuan.
Alla fine del 2010 veniva scoperto il giacimento Leviathan situato a meno di 200 chilometri dalle coste della Striscia di Gaza e di Israele, situato in parte nelle acque territoriali di Gaza, dove si trova anche il giacimento denominato Gaza Marine (1.000 miliardi di metri cubi di gas) appartenente ai palestinesi e scoperto nel 1999 dalla British Gas (ora Shell)16. Nel 1999 l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che deteneva il 10% delle quote del Gaza Marine, siglava un contratto con British Gas (60%) e con Consolidated Contractors (30%), una compagnia privata palestinese, ma Israele, puntando a impossessarsi del gas a prezzi stracciati, impediva l’operazione. Con la mediazione dell’allora primo ministro britannico Tony Blair, figura con stretti rapporti con Bp che come abbiamo visto non per caso ricompare in campo dove ci sono interessi economici da lui già gestiti in passato, si raggiungeva un nuovo accordo che permetteva a Israele di impossessarsi dei tre quarti dei futuri introiti del gas, versando la quota palestinese su un conto internazionale controllato da Usa e Regno Unito. Nel 2006, dopo aver vinto le elezioni, Hamas bocciava l’accordo. Nel 2007 Moshe Ya’alon, futuro vice primo ministro (2009-2013) e ministro della difesa israeliano (2013-2016), avvertiva che «il gas non può essere estratto senza una operazione militare che sradichi il controllo di Hamas a Gaza»17 e nel dicembre 2008 scattava contro la Striscia di Gaza l’operazione “Piombo fuso” con l’obiettivo di impossessarsi definitivamente delle riserve marittime palestinesi. Al termine di Piombo fuso i giacimenti di gas palestinesi venivano confiscati da Israele in violazione del diritto internazionale. Nel 2012 l’Anp, con l’opposizione di Hamas riprendeva i negoziati con Tel Aviv, ma gli israeliani boicottavano la trattativa impedendo ai palestinesi di trarre profitto dai giacimenti. Agli inizi del 2014, previo accordo fra Anp e Russia, veniva affidato a Gazprom lo sfruttamento dei giacimenti marini e di un giacimento petrolifero in Cisgiordania. L’accordo si avvicinava sempre più alla realizzazione effettiva nel momento in cui il 2 giugno 2014 nasceva il nuovo governo di unità nazionale palestinese, ma pochi giorni dopo scattava l’operazione “Margine di protezione” con un nuovo attacco a Gaza. Il tentativo della Russia di inserirsi nella lotta per il controllo delle riserve energetiche dell’intero Bacino di Levante (Palestina, Libano, Siria) determinava il nuovo attacco israeliano con beneplacito statunitense.
I governi israeliani hanno delineato nel corso degli anni un progetto per trasformare il loro paese in un punto di snodo per il trasporto del gas verso l’Europa. L’obiettivo di Israele è quello di impossessarsi delle immense ricchezze costituite dai giacimenti di gas che spetterebbero ai palestinesi, sia il Gaza Marine che parte del Leviathan. Il 29 ottobre 2023, due giorni dopo l’invasione su vasta scala della Striscia da parte dell’esercito israeliano, il ministro Katz ha assegnato le licenze di esplorazione dei giacimenti palestinesi alle grandi compagnie internazionali18.
I giacimenti del Mediterraneo orientale e i progetti statunitensi di una via alternativa alla Bri sono due elementi che aiutano a comprendere il massacro in atto volto a un controllo della costa palestinese. Questo aiuta a capire i progetti di sterminio funzionali anche a favorire la deportazione dei sopravvissuti.
Strettamente interconnesso col tema dei giacimenti è il fatto che la Palestina costituisce la tappa terminale, e snodo cruciale verso l’Europa, dell’India-Middle East-Europe Economic Corridor (Imec)19, una rete di ferrovie, porti, oleodotti, gasdotti, ecc. concepita con l’obiettivo di dar vita a un’alternativa alla Via della seta cinese e al Corridoio nord-sud indiano-iraniano-russo. Rimane il problema che ora come ora l’Imec è un progetto che sta sulla carta ma che non sembra avere i mezzi per competere con la Bri.
Il piano energetico israeliano si collega con il progetto del Canale Ben Gurion, alternativo al Canale di Suez, per il commercio mondiale e l’energia. Il canale permetterebbe di creare un corridoio attraverso la Palestina occupata garantendo a Israele un passaggio marittimo strategico fra il Mar Rosso e il Mediterraneo che consentirebbe di modificare i rapporti di potere regionali rafforzando ulteriormente Israele. L’eliminazione dei palestinesi dalla Striscia aprirebbe un percorso diretto verso il Mar Rosso riducendo i tempi di transito e i relativi costi e il risparmio di miliardi di dollari anche nella costruzione del canale stesso20.
Le grandi imprese
Infine vi sono gli interessi delle grandi multinazionali che sul genocidio hanno prosperato, come messo ben in evidenza dall’indagine di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui territori occupati palestinesi (2022-). La relazione di Albanese mostra come oltre 60 multinazionali abbiano guadagnato dalla distruzione della Striscia: per quanto riguarda il complesso militare-industriale, oltre alle grandi aziende israeliane di proprietà statale, importanti esportatrici mondiali di armi, figurano Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, Leonardo, Airbus che hanno fornito quanto è servito a bombardare Gaza o alle operazioni dei militari israeliani; nell’ambito del cosiddetto big tech vi sono colossi come Palantir, Google, Ibm, Alphabet, Amazon, Microsoft, Hp che forniscono gli strumenti utili alla sorveglianza dei palestinesi attraverso la raccolta dati e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale; le aziende di veicoli e macchinari pesanti come Caterpillar, Volvo, Hyundai, Rada hanno fornito i mezzi usati nell’edificazione delle colonie illegali e durante il massacro di Gaza per demolire case, ospedali, infrastrutture, ecc. Anche il saccheggio delle risorse naturali vede all’opera importanti aziende: la compagnia israeliana Mekorot detiene il monopolio delle acque palestinesi e costringe i palestinesi ad acquistare l’acqua proveniente da due grandi falde acquifere nel loro territorio, a prezzi gonfiati e con forniture intermittenti e per almeno i primi sei mesi dopo l’ottobre 2023, Mekorot ha lasciato intere aree della Striscia senza erogazione per il 95% del tempo, aiutando attivamente la trasformazione dell’acqua in uno strumento di genocidio. Chevron fornisce oltre 70% del consumo di energia israeliano ed estrae gas naturale dai giacimenti Leviathan e Tamar, insieme a Bp è il maggior fornitore di petrolio greggio di Israele in quanto principali proprietari dello strategico oleodotto azero Baku-Tbilisi-Ceyhan e del Kazakh Caspian Pipeline Consortium. Non si salva neppure il settore del turismo dove Airbnb, Tripadvisor, Booking mettono a disposizione strutture nelle colonie illegali. Come principale fonte di finanziamento per il bilancio dello Stato israeliano, i buoni del tesoro hanno svolto un ruolo fondamentale nel realizzare l’assalto a Gaza e alcune delle principali banche mondiali (Bnp Paribas e Barclays) sono intervenute per aumentare la fiducia del mercato sottoscrivendo questi buoni del tesoro internazionali e nazionali, consentendo a Israele di contenere il tasso di interesse, nonostante un declassamento del credito, mentre fondi di investimento come Blackrock (68 milioni di dollari), Vanguard (546 milioni di dollari) e la controllata di gestione patrimoniale di Allianz Pimco (960 milioni di dollari) figurano tra i 400 investitori di 36 paesi che hanno investito nei titoli israeliani. Anche le università hanno aiutato il sistema genocidiario, i laboratori del Massachusetts Institute of Technology (Mit) conducono ricerche sulle armi e sulla sorveglianza finanziate dal ministero della difesa israeliano (unico esercito straniero a finanziare la ricerca del Mit); il programma di ricerca Horizon della Commissione europea facilita attivamente la collaborazione con le istituzioni israeliane, comprese quelle complici dell’apartheid e del genocidio, dal 2014 la Commissione ha concesso oltre 2,12 miliardi di euro a entità israeliane tra cui il ministero della difesa e le università europee rafforzano questo intreccio.
«Il colonialismo di insediamento implica l’estrazione, il profitto e la colonizzazione della terra attraverso l’espulsione dei suoi proprietari. In Palestina, storicamente, le aziende hanno guidato e reso possibile il processo di spostamento e sostituzione della popolazione araba, fondamentale per la logica della cancellazione coloniale […]. Sempre più aiutato da entità aziendali, Israele ha perseguito l’espropriazione e lo sfollamento dei palestinesi, soprattutto dopo il 1967. Il settore delle imprese ha contribuito materialmente a questo sforzo fornendo a Israele le armi e i macchinari necessari per distruggere case, scuole, ospedali, luoghi di svago e di culto, mezzi di sussistenza e beni produttivi, come uliveti e frutteti, per segregare e controllare le comunità e per limitare l’accesso alle risorse naturali. Aiutando a militarizzare e incentivare la presenza illegale di Israele nei territori palestinesi occupati, il settore delle imprese ha contribuito a creare le condizioni per la pulizia etnica palestinese. Le aziende hanno svolto un ruolo chiave nel soffocare l’economia palestinese, sostenendo l’espansione israeliana nelle terre occupate e facilitando la sostituzione dei palestinesi. Le restrizioni draconiane – sul commercio e gli investimenti, la piantumazione di alberi, la pesca e l’acqua per le colonie – hanno debilitato l’agricoltura e l’industria e trasformato il territorio palestinese occupato in un mercato vincolato; aziende hanno tratto profitto dallo sfruttamento del lavoro e delle risorse palestinesi, dal degrado e dal dirottamento delle risorse naturali, dalla costruzione e dall’alimentazione di colonie e dalla vendita e commercializzazione di beni e servizi derivati in Israele, nei territori palestinesi occupati e nel mondo. L‘Accordo interinale israelo-palestinese sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza (Accordi di Oslo II) ha rafforzato questo sfruttamento, istituzionalizzando di fatto il monopolio di Israele sul 61% della Cisgiordania (Area C), ricca di risorse. Israele guadagna da questo sfruttamento, mentre costa all’economia palestinese almeno il 35% del suo pil.Le istituzioni finanziarie e accademiche hanno anche creato le condizioni per lo sfollamento e la sostituzione dei palestinesi. Banche, società di gestione patrimoniale, fondi pensione e assicurazioni hanno convogliato i finanziamenti verso l’occupazione illegale. Le università – centri di crescita intellettuale e di potere – hanno sostenuto l’ideologia politica alla base della colonizzazione della terra palestinese, hanno sviluppato armi e hanno trascurato o addirittura approvato la violenza sistemica, mentre le collaborazioni di ricerca globali hanno oscurato la cancellazione palestinese dietro un velo di neutralità accademica. Dopo l’ottobre 2023, i sistemi di controllo, sfruttamento ed espropriazione di lunga data si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenze di massa e immense distruzioni. Entità che in precedenza hanno permesso e beneficiato dell’eliminazione e della cancellazione dei palestinesi all’interno dell’economia dell’occupazione, invece di disimpegnarsi, sono ora coinvolte nell’economia del genocidio […]. Gli affari continuano come sempre, ma nulla di questo sistema, in cui le imprese sono parte integrante, è neutrale. Il duraturo motore ideologico, politico ed economico del capitalismo razziale ha trasformato l’economia di occupazione di Israele, basata sullo sfollamento e sulla sostituzione, in un’economia di genocidio. Si tratta di una “impresa criminale congiunta”, in cui gli atti di uno contribuiscono in ultima analisi a un’intera economia che guida, rifornisce e rende possibile questo genocidio»21.
Conclusioni: verso quale destino per Gaza?
La situazione che sembra delinearsi è quella in cui Israele continuerà a mantenere il controllo di circa metà della Striscia (dove non è da escludere la ricomparsa di colonie sioniste) e la ricostruzione avverrà solamente in quella parte di territorio dove stanzieranno i clan palestinesi collaborazionisti di Israele, mentre il resto dei palestinesi sarà costretto in un paesaggio lunare di macerie e distruzione e su una superficie dimezzata (più facile da controllare per Tel Aviv): «La priorità non è ricostruire una vita degna, ma neutralizzare Gaza come centro della resistenza, trasformarla in un territorio addomesticato, integrato nel circuito degli affari. Ricostruire senza restituire sovranità, investire senza restituire diritti: è il modello classico della controinsurrezione neoliberale, ora applicato su macerie ancora fumanti […]. In questo senso, la Palestina è una condensazione di contraddizioni. Mostra come la democrazia liberale sia perfettamente compatibile con l’apartheid e il genocidio, purché avvengano abbastanza lontano, purché colpiscano i soggetti giusti. Mostra come il capitalismo globale integri la distruzione di intere società nel proprio funzionamento ordinario: commesse militari, accordi energetici, sperimentazioni di tecnologie di sorveglianza che poi vengono esportate. Mostra come il linguaggio dei diritti umani possa essere usato come arma, selettiva e ipocrita»22.
Siamo di fronte a un progetto che prevede un protettorato arabo-statunitense che richiama l’Autorità provvisoria della coalizione in Iraq23, o quello del protettorato britannico, cioè un modello di occupazione in cui il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi è del tutto obliterato. Palestinesi che resteranno comunque in balia delle puntuali violazioni della tregua come da modello libanese e alla mercé delle bande jihadiste finanziate da Israele, uno dei diversi motivi per cui i gazawi si ritengono più sicuri se Hamas resta armato24. Non vi è poi assolutamente nulla che garantisca che non vi sarà una ripresa dello sterminio scientemente perseguito alla prima occasione ritenuta politicamente utile (ad esempio nel 2026 in Israele ci sono le elezioni per il rinnovo del parlamento). Interessanti, proprio perché provenienti dagli ambiti di potere statunitense, le riflessioni comparse su Foreign Affairs (rivista del Council on Foreign Relations organo di consulenza del dipartimento di stato fondato nel 1921): «La preferenza del governo israeliano per l’uso della forza militare per sbilanciare gli avversari potrebbe minare gli obiettivi statunitensi, come testimoniato dai precedenti sforzi dell’amministrazione Trump nella regione. Questa traiettoria decisa, con Israele come agente del caos e gli Stati Uniti che lo seguono con riluttanza, comporta enormi rischi. Se Netanyahu decidesse di rompere l’accordo del 9 ottobre con Hamas una volta raggiunti i suoi obiettivi iniziali, o se i negoziati sulla seconda fase dell’accordo fallissero, Israele potrebbe trascinare nuovamente gli Stati Uniti in una guerra che Washington non vuole. Non deve essere necessariamente così. Come ha dimostrato nei suoi primi mesi di mandato e nelle ultime settimane, l’amministrazione Trump è in grado di tracciare la propria rotta e persino, a volte, di utilizzare la considerevole influenza di cui dispone la Casa Bianca. L’accordo attuale dimostra che questo tipo di pressione può portare almeno a risultati positivi iniziali. Ma affinché questi sforzi abbiano successo nel lungo termine, gli Stati Uniti dovranno riconoscere fino a che punto i propri interessi a lungo termine divergano da quelli di Israele e quanto spesso la politica statunitense in Medio Oriente sia stata minata dal suo più stretto alleato nella regione. Per interrompere davvero questa dinamica, gli Stati Uniti dovranno esercitare continue pressioni su Israele affinché aderisca a un percorso che promuova la stabilità regionale anziché minarla. Altrimenti, quest’ultimo accordo potrebbe trasformarsi nell’ennesima iniziativa di pace fallita guidata dagli Stati Uniti»25.
Non bisogna farsi troppe illusioni, i progetti genocidiari sionisti non sono venuti meno, sono stati solo temporaneamente arrestati.
Sostanzialmente ci si trova di fronte a una realtà che non pone fine all’occupazione ma si limita a rimodellarla. Gli scenari ipotizzabili delineati in un’interessante raccolta di studi sono riassumibili in poche opzioni: a) un rapido passaggio dall’accaparramento graduale di terre all’annessione formale; b) un’espansione altrettanto rapida dell’occupazione che si scontra con una resistenza palestinese che porta a risposte israeliane più dure e a una maggiore volatilità regionale; c) un ritorno alle crudeli routine che caratterizzavano la realtà precedente all’ottobre 2023, peggiorate solo perché la distruzione di Gaza ha spinto la miseria umana a un nuovo livello di base; d) un misto delle precedenti alternative26: «Sono, senza eccezione, scenari desolati. In realtà, il meno negativo tra questi è un ritorno approssimativo allo status quo di prima del 7 ottobre, vale a dire, l’espansione graduale dell’occupazione per mezzo della violenza israeliana quotidiana per reprimere e soggiogare qualsiasi resistenza contro di essa, ma con l’elemento aggiunto che le rovine di Gaza significano che poco meno di due milioni di palestinesi soffriranno ancora di più di quanto non abbiano già sofferto»27.
Non sono molte le alternative offerte dai progetti arabo-israelo-statunitensi ai palestinesi e sembrano ridursi sostanzialmente al genocidio o alla rinuncia a qualsiasi aspirazione di autodeterminazione: «L’obiettivo non è la “ricostruzione”, ma piuttosto la riprogettazione dello spazio, dell’autorità e della coscienza palestinese all’interno di un nuovo quadro che faccia di Gaza un laboratorio per un progetto di “pace economica” basato sul controllo senza sovranità […]. In altre parole, il palestinese viene ridefinito nel piano Trump-Blair come beneficiario di un piano umanitario, non come portatore di diritti nazionali e come entità politica indipendente. In questo modo, l’obiettivo che l’oppressione coloniale israeliana ha costantemente fallito è stato raggiunto: smantellare la coscienza nazionale e domarla economicamente»28.
Su un piano di equilibri più ampi, cioè come scenario della Terza guerra mondiale a pezzi Usa-Ue-Israele contra Cina-Russia-Iran (con ovvie ed evidenti differenze di peso fra i vari alleati e soprattutto con una serie di equilibri in gioco che non rendono questi schieramenti monolitici, si pensi ai rapporti non conflittuali fra Mosca e Tel Aviv) la tregua siglata a Gaza – la Striscia costituisce lo scenario del confronto con l’Iran uscito indebolito per le sconfitte dell’Asse della resistenza ma sicuramente non abbattuto –, mancando qualsiasi prospettiva di ridefinizione di un quadro di sicurezza mondiale, la cosiddetta “nuova Yalta” (interimperialistica però rispetto al quella originale), può costituire soltanto una pausa tattica in una guerra strategica destinata a durare molto più a lungo29. Trump avrà comunque difficoltà all’interno da parte dei liberal-neocon ed è su questa dura lotta di potere interno agli Usa che potrebbero prevalere i guerrafondai che contano su Israele per ridisegnare il Medioriente a suon di bombe, pagando senza troppi problemi il prezzo richiesto dal sionismo della ripresa del genocidio.
Fallito il tentativo di espellere completamente la popolazione di Gaza, come delineato nei piani iniziali dell’esercito sionista30, è più probabile che, per il momento, ci troveremo di fronte a una ripresa della strategia di espulsione graduale dei palestinesi ben descritta più di sessant’anni fa dal presidente statunitense Harry Truman (1945-1953)31: «In particolare i sionisti che erano contrari a qualsiasi cosa si facesse se non avessero avuto l’intera Palestina e tutto ciò che veniva servito su un piatto d’argento, così non avrebbero dovuto fare nulla. Non si poteva fare. Dobbiamo prenderla a piccole dosi. Non puoi spostare cinque o sei milioni di persone da un paese e riempirlo con altri cinque o sei milioni e aspettarti che entrambi i gruppi siano contenti. Avevamo ogni sorta di obiezione a tutto ciò che veniva fatto. Qualcosa doveva essere fatto. Siamo andati avanti e l’abbiamo fatto e l’abbiamo fatto, e ora sta funzionando. Alla fine penso che li avremo tutti soddisfatti, ma ci vorrà ancora molto tempo per portare a termine il lavoro»32. Tutti soddisfatti gli israeliani, di sicuro non i palestinesi.
Maurizio Brìgnoli (Milano, 1966) ha collaborato con la Contraddizione, l’AntiDiplomatico, la Città futura, Il Calendario del Popolo, Informazione filosofica, Recensioni filosofiche. Ha pubblicato Breve storia dell’imperialismo, La Città del Sole, Napoli 2010; Jihad e imperialismo, L.A.D., Roma 2023.
1 Cfr. United Nations, “Gaza: $70 Billion Needed to Rebuild Shattered Enclave, Says UN”, 14 ottobre 2025.
2 Cfr. “Gaza Needs $70bn To Rebuild Following Israel’s Genocidal War: UNDP”, The Cradle, 14 ottobre 2025.
3 Cit. in Sam Sokol, “Smotrich: Gaza A Potential Real Estate ‘Bonanza,’ Israel Talking with US About Dividing It Up”, The Times of Israel, 17 settembre 2025; Roberto Iannuzzi, “Il ‘piano B’ di Trump per uscire dal vicolo cieco di Gaza”, Intelligence for the People, 3 ottobre 2025.
4 Cfr. Peter Geoghehan – May Bulman, “Inside the Tony Blair Institute”, The New Statesman, 24 settembre 2025.
5 Cfr. Oscar Rickett, “Billionaires, Zionists and A UN Official: Tony Blair’s Proposed Team for Gaza”, Middle East Eye, 3 ottobre 2025.
6 Cfr. Peter Beaumont, “Postwar Gaza Authority Potentially Led by Tony Blair ‘Would Sideline Palestinians’”, The Guardian, 29 settembre 2025.
7 Cfr. Arnaud Leparmentier, Le double vie de Jared Kushner, affairiste et émissaire de Donald Trump, son beau-père, Le Monde, 6 ottobre 2025; Dion Nissenbaum – Rory Jones, “Jared Kushner’s New Fund Plans to Invest Saudi Money in Israel”, The Wall Street Journal, 8 maggio 2022; Mandy Taheri, “Jared Kushner Says $1.5Bn From Qatar, UAE Came ‘Irrespective’ of Trump Win”, Newsweek, 22 dicembre 2024.
8 Per i dettagli dei progetti da edificare a Gaza cfr. Jamal Abu Ghalioun, “Gaza. Palestinesi in transizione: tra demolizione sistematica, ricostruzione e ristrutturazione regionale”, Contropiano, 13 novembre 2025.
9 Ranjan Solomon, “Kushner’s Mirage: The “Gaza Riviera” and the Theft of a Homeland”, Middle East Monitor, 5 ottobre 2025.
10 Cfr. Andre Damon, “‘Ceasefire’ Deal Includes Permanent Israeli Occupation of Gaza”, World Socialist Web Site, 9 ottobre 2025.
11 Cfr. Adam Hanieh, “L’illusione di Oslo”, Jacobin, 21 aprile 2013; Maurizio Brignoli, “La società palestinese. Struttura economica e forze politiche”, La contraddizione, n. 149, dicembre 2014.
12 Cfr. “Gaza International Transitional Authority (GITA) Institutional Structure”, in Liza Rozovsky, “Draft of Tony Blair’s Gaza Plan Outlines Remote Governance, Little Palestinian Representation”, Haaretz, 28 settembre 2025; “The GREAT (Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation) Trust. From a Demolished Iranian Proxy to a Prosperous Abrahamic Ally”, The Washington Post. Il documento Great porta come significativo sottotitolo “da proxy iraniano demolito a prospero alleato abramitico”.
13 Alberto Toscano, “Colonialismo accelerato: un piano contro la Palestina”, Machina, 13 ottobre 2025.
14 Cit. in Jacob Megid, “US Denies Hamas Violating Deal, Is Aiming to Set Up Safe Zone for Gazans Fleeing Group”, The Times of Israel, 16 ottobre 2025.
15 Cfr. Hana Kiros, “The Trump Administration Has a New Plan for Gaza”, The Atlantic, 10 novembre 2025; Dov Lieber – Summer Said – Alexander Ward, “A U.S. Plan Splits Gaza in Two – One Zone Controlled by Israel, One by Hamas”, The Wall Street Journal, 22 ottobre 2025; Davide Malacaria, “Gaza: si lavora alla tragica ‘bonanza’ vagheggiata da Smotrich, Piccole note, 12 novembre 2025; “US To Build Internment-Style Camps for Palestinians in Israeli-Controlled Gaza”, The Cradle, 12 novembre 2025.
16 Cfr. Felicity Arbuthnot, “Israel Gas-Oil and Trouble in the Levant”, Global Research, 13 dicembre 2013; Felicity Arbuthnot – Michel Chossudovsky, “Video: ‘Wiping Gaza Off The Map’: Big Money Agenda. Confiscating Palestine’s Maritime Natural Gas Reserves, Global Research, 4 novembre 2023.
17 Cit. in Manlio Dinucci, “Gaza, il gas nel mirino”, il manifesto, 15 luglio 2014.
18 Cfr. Dan Steinbock, “Whitewashing Gas Exploration in Post-Genocide Gaza”, Informed Comment, 17 ottobre 2025.
19 “Memorandum of Understanding on the Principles of an India – Middle East – Europe Economic Corridor”, Casa Bianca, 9 settembre 2023.
20 Sulle questioni economiche legate a Gaza cfr. Yvonne Ridley, “An Alternative to the Suez Canal Is Central to Israel’s Genocide of the Palestinians”, Middle East Monitor, 5 novembre 2023; “Ben Gurion Canal Behind Canada-US Motive for Backing Israel’s Genocide”, Internationalist 360°, 13 novembre 2023; Michael Barron, The Gaza Marine Story: The Politics and Intrigue Behind Palestine’s Untapped Gas Wealth, Nomad Publishing, Londra 2025; Maurizio Brignoli, “Le cause economiche dietro il massacro di Gaza”, l’AntiDiplomatico, 17 novembre 2023; Francesco Schettino, “Patto di Abramo, BRI e IMEC: le caratteristiche economiche della questione palestinese”, l’AntiDiplomatico, 4 dicembre 2023.
21 Cfr. From economy of occupation to economy of genocide. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, Francesca Albanese, Human Rights Council, 30 giugno 2025, pp. 5-6, 26. Sui profitti derivanti dal genocidio palestinese cfr. anche Ubai al-Aboudi – Vijay Prashad, “The Global Economic Benefit from the Genocide of Palestinians”, Peoples Dispatch, 1 agosto 2025.
22 Cfr. Pasquale Liguori, “Palestina oltre la mistificazione della pace”, l’AntiDiplomatico, 14 novembre 2025.
23 Cfr. Michele Giorgio, “È un progetto di dominio travestito da soluzione politica”, il manifesto, 8 ottobre 2025.
24 Cfr. Sudarsan Raghavan – Suha Ma’ayeh, “Hamas’s Popularity Rises in Gaza, Complicating Trump Plan to Disarm Militants”, The Wall Street Journal, 16 novembre 2025.
25 Joost R. Hiltermann – Natasha Hall, “The Gaza Deal Is Not Too Big to Fail”, Foreign Affairs, 9 ottobre 2025.
26 Cfr. Erwin van Veen (a cura di), The Future of the Occupation of the Palestinian Territories after Gaza. Scenarios, Stakeholders and “Solutions”, Palgrave MacMillan, L’Aia/Londra 2025. Cfr. anche Hossam el-Hamalawy, “The Future of the Occupation: What now for Palestine after Gaza?”, Middle East Eye, 24 ottobre 2025.
27 Erwin van Veen, “Scenarios for the Israeli Occupation of Palestine”, in Erwin van Veen (a cura di), op. cit., p. 25.
28 Bassam Saleh, “Gaza. L’illusione del giorno dopo”, Contropiano, 13 ottobre 2025.
29 Cfr. Giuseppe Gagliano, “La guerra che non finisce mai”, Analisi Difesa, 18 ottobre 2025.
30 Un documento del ministero dei servizi segreti israeliano, datato 13 ottobre 2023, raccomandava la deportazione degli abitanti di Gaza nella zona desertica del Sinai egiziano, impedendo ai palestinesi la possibilità di rimettere piede vicino ai confini israeliani. Il piano si articolava in tre fasi: 1) costringere la popolazione stanziata nel nord della Striscia (oltre un milione di persone), sottoposto a bombardamenti massici, a spostarsi verso sud; 2) far entrare l’esercito israeliano a Gaza in modo da occupare l’intera Striscia ed eliminare le postazioni di Hamas; 3) trasferire la popolazione in territorio egiziano da cui non dovrà fare più ritorno (cfr. “Una nota del ministero israeliano dell’Intelligence raccomanda l’espulsione degli abitanti di Gaza in Egitto”, Rete Voltaire, 31 ottobre 2023).
31 Cfr. Simon Chege Ndiritu, “Trump’s Peace after Vetoing 6 Draft Peace Proposals at the UN Security Council (UNSC)”, New Eastern Outlook, 25 ottobre 2025.
32 Screen Gems Collection, Harry S. Truman Library - Motion Picture MP2002-477, ca. 1961-1963.

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