Il deal Putin–Trump e il ritorno alla realpolitik
di Loretta Napoleoni
Incontro storico in Alaska tra Putin e Trump che pero’ ha lasciato la stampa mondiale a bocca asciutta. Ma questo non ha impedito ai vari network di leggere nell’assenza dei dettagli un fiasco. Persino la frase di Trump “non c’e’ accordo fin quando si raggiunge l’accordo” e’ suonata come la conferma dell’insuccesso dei negoziati. Nessuno ha menzionato il fatto che in assenza della controparte ucraina, pubblicizzare un accordo sarebbe stato di cattivo gusto.
Ed ecco che a distanza di 12 ore emergono le linee generali dell’accordo e l’Europa urla al tradimento ed i burocrati di Bruxelles parlano di “principi non negoziabili” e la NATO continua a ripetere il mantra della resistenza a oltranza. Ma la realtà, quella che non si dice nelle capitali occidentali, è che la guerra in Ucraina è già persa. Non da Kiev, che combatte fino all’ultimo uomo, ma dall’Occidente che l’ha usata come scudo politico contro un nemico fabbricato con pacchetti di sanzioni e miliardi bruciati in aiuti militari.
Il vertice in Alaska ha squarciato questa ipocrisia. Putin ha messo sul tavolo ciò che l’Occidente rifiuta di ammettere: Donetsk e Luhansk sono da tempo de facto sotto il suo controllo. Fingere il contrario significa soltanto prolungare l’agonia. Trump, con il suo realismo brutale, ha avuto il coraggio di dirlo a Zelenskyy e agli europei: smettete di inseguire un cessate il fuoco che non arriverà mai, cominciate a trattare sui territori.
L’accordo proposto – riconoscimento di Donetsk e Luhansk in cambio del congelamento delle operazioni su Kherson e Zaporizhzhia – non è un regalo a Mosca. È un compromesso che fotografa i rapporti di forza di offi e offre una tregua reale. Per la prima volta, Putin mostra di essere disposto a fermare l’espansione, se le “root causes” vengono riconosciute. Il messaggio è chiaro: la guerra non è fine a se stessa, è uno strumento di negoziazione come lo e’ sempre stato.
E allora la domanda è: chi trae vantaggio dal rifiuto di questo accordo? Non l’Ucraina, che continua a dissanguarsi. Non l’Europa, che si ritrova a importare gas e armi a prezzi gonfiati, pagando in effetti la guerra due volte. A guadagnarci è solo la NATO, che con questa crisi ha ritrovato una ragione d’essere, e l’élite finanziaria che lucra sulla ricostruzione infinita.
La pace, anche imperfetta, non interessa alle cancellerie europee: significherebbe ammettere il fallimento della strategia atlantica, la fine dell’illusione che Bruxelles abbia un ruolo geopolitico, e la rimozione del nemico esterno. Per questo gridano allo scandalo contro Trump, mentre fingono di non vedere che gli eserciti russi avanzano e che Kiev sopravvive soltanto grazie al flusso di dollari occidentali.
Il deal Putin–Trump non è la capitolazione dell’Occidente, è il ritorno alla politica vera, alla realpolitik. È la possibilità di chiudere un conflitto che altrimenti diventerà eterno, come l’Afghanistan o l’Iraq, e di ricongiungersi economicamente con un vicino importante per l’economia del vecchio continente. Non accettarlo significa condannare l’Ucraina a diventare un protettorato fallito, un cimitero armato finanziato dall’Europa e quest’ultima ad impoverirsi.
Trump e Putin hanno fatto ciò che i leader europei non hanno mai avuto il coraggio di fare: affrontare la verità. La pace si conquista con i compromessi, non con gli slogan.