La politica contraddittoria degli Usa e dell’Ue verso la Russia
di Alessandra Ciattini - Futura Società
Usa e Ue condannano la Russia di Putin e minacciano di piegarla, riducendola in miseria. Purtroppo per loro, la realtà fattuale e gli stessi meccanismi del sistema economico dominante impediscono l’effettiva rottura con il paese euroasiatico, straordinariamente ricco di risorse. Inoltre, se questo avvenisse, per l’Europa, vaso di coccio tra vasi di ferro, sarebbe il disastro che già si sta delineando.
Il passato 28 agosto è uscito un interessante articolo sulla CNN, a firma di Laurent Kent, sul commercio tra Usa ed Europa da un lato, e Federazione Russa dall’altro, che nonostante vari anni di guerra, continua imperterrito e ammonta a svariati miliardi di dollari. Naturalmente, non avendo sbocchi al mare, né Ungheria né Slovacchia possono fare a meno del petrolio russo, che arriva loro attraverso l’oleodotto via terra Druzhba (Amicizia), bombardato in varie occasioni da Zelensky, e, pertanto, restano nel 2025 i maggiori importatori di questa risorsa energetica.
Come è noto, il grande Trump ha raddoppiato i dazi all’India, portandoli al 50%, con lo scopo dichiarato di castigare il paese asiatico per aver sostenuto la Russia nella guerra in Ucraina, mantenendo in piedi questa per lei vantaggiosa relazione commerciale. Da parte sua, l’India ha correttamente sostenuto di essere stata ingiustamente punita, dal momento che molti altri paesi continuano a commerciare tranquillamente con il paese di Putin, dichiarando che avrebbe varato “dazi secondari”. Dopo aver banchettato nel castello di Windsor con i soliti straricchi, Trump è tornato a invitare gli europei a smettere di comprare il petrolio e il gas russi e a sanzionare chi li compra, ossia soprattutto Cina e India, con le quali l’Ue non può assolutamente non mantenere convenienti relazioni commerciali. A suo parere, solo in quel momento il prezzo del greggio si abbasserebbe e Putin sarebbe costretto a desistere della sua politica aggressiva contro l’Ucraina. Utilizzando esplicitamente il ricatto, ha dichiarato che non metterà altre sanzioni alla Russia, con cui probabilmente in Alaska ha prefigurato nuovi progetti commerciali ed economici e da cui vorrebbe essere nella sua immaginazione aiutato per confrontarsi con il suo principale nemico, se gli europei non faranno altrettanto con la Russia e con i paesi che a suo parere la sostengono. Sempre inginocchiandosi religiosamente, l’Ue ha annunciato il diciannovesimo pacchetto di sanzioni, spergiurando che nel 2027 cesserà di acquistare le risorse energetiche dal paese euroasiatico.
Fatta questa indispensabile premessa, andiamo a esaminare più a fondo a che punto stanno oggi le relazioni commerciali tra il blocco euroatlantico e la Russia, grazie alle quali questo non volendo finisce per finanziare – così dicono – la guerra in Ucraina. Per fare chiarezza, utilizzeremo i dati forniti dalle istituzioni economiche più prestigiose, o almeno così descritte.
Dall’inizio dell’operazione speciale del 2022, gli scambi commerciali tra Russia e Stati Uniti sono diminuiti di circa il 90%, ma nel 2024 questi ultimi hanno comunque importato merci dal paese euroasiatico per un valore di tre miliardi di dollari. Così almeno si ricava dagli ultimi dati del Bureau of Economic Analysis e del Census Bureau statunitensi.
Contemporaneamente, l’Unione Europea, inflessibile sostenitrice delle sanzioni contro la Russia, ha importato dalla Russia beni per un valore di 41,9 miliardi di dollari, secondo i dati dell’agenzia statistica dell’entità politica, benché i suoi responsabili abbiano affermato che gli europei stanno facendo passi da gigante per ridurre la loro dipendenza dal grande paese euroasiatico, legandosi a filo doppio all’ormai inaffidabile paese d’oltreoceano. D’altra parte, se non si hanno risorse, da qualcuno bisognerà pur dipendere, mostrando che le parole non corrispondono mai ai fatti.
I dati Eurostat ci dicono che le importazioni dell’Ue dalla Russia sono diminuite dell’86% tra il primo trimestre del 2022 e il 2025. Questi dati potrebbero tranquillizzare il signor Trump e la signora Ursula, ma se analizziamo in maniera approfondita i prodotti degli scambi, purtroppo l’ottimismo si incrina.
Per esempio, per quanto riguarda i fertilizzanti, nei primi sei mesi del 2025 gli Stati Uniti ne hanno importati dalla Russia per un valore di 927 milioni di dollari, mentre nel 2024 l’ammontare delle importazioni aveva superato il miliardo di dollari, includendo prodotti indispensabili come urea, nitrato di ammonio ureico (Uan), cloruro di potassio e carbonato di potassio. Un esperto ha osservato che “la Russia costituisce uno dei più importanti fornitori mondiali di fertilizzanti e non se ne può fare a meno”.
Un altro prodotto importante fornito dalla Russia è il palladio, metallo usato in prodotti elettronici e industriali, le cui importazioni sono diminuite dal 2021. Tuttavia, dati recenti mostrano che gli Usa hanno importato nel 2024 878 milioni di dollari di palladio e nel 2025 594 milioni di dollari. Questo metallo, insieme al nichel, è prodotto dall’azienda Nornickel, la più grande produttrice mondiale di nichel e palladio, situata nella città artica di Norilsk.
Anche le importazioni di uranio e plutonio non sono cessate: fino a giugno di quest’anno la potenza supersanzionatrice ha comprato dalla Russia questi minerali per un valore di 755 milioni di dollari, addirittura aumentando gli acquisti rispetto al 2024. In sostanza, nonostante tante dichiarazioni irate e tante minacce, gli Usa continuano a mantenere relazioni commerciali con la Russia, per cui paradossalmente dovrebbero romperle definitivamente o, se fossero coerenti, dovrebbero addirittura autosanzionarsi. Tutti questi dati sono stati confermati da un recente articolo pubblicato il 15 settembre scorso da Reuters.
Un precedente articolo di “Newsweek” ci spiega come, attraverso un astuto espediente, la russa Rosneft, sanzionata dagli Usa, ha esportato 135 milioni di dollari di petrolio raffinato da greggio russo negli Stati Uniti, ossia gran parte dei 192 milioni di dollari delle sue esportazioni complessive verso la grande potenza nel periodo 2024-2025. Ha semplicemente utilizzato una raffineria situata in India di proprietà della Nayara Energy, di cui possiede quasi il 50%, essendo gli altri proprietari il gruppo italiano di investimenti energetici Hara Capital Sarl e il gruppo di investimenti russo con sede a Cipro United Capital Partners. Come si vede, il sistema economico-politico dominante crea esso stesso gli impedimenti a che funzioni come vorrebbero i suoi proprietari e gestori.
E gli intransigenti e guerrafondai europei che stanno facendo? Prima dell’operazione speciale la Russia era il principale fornitore di petrolio e gas dell’Unione Europea. In quel fatidico momento l’Ue ha vietato le importazioni via mare di petrolio russo e di prodotti petroliferi raffinati, come il gasolio. In seguito a questa decisione, secondo i dati Eurostat le importazioni di petrolio in Europa sono passate a 1,48 miliardi di euro per il primo trimestre del 2025 rispetto ai 14,06 miliardi di euro dello stesso trimestre del 2021. Non sembra qui si tenga conto del petrolio trasportato dalle cosiddette navi fantasma non solo russe che trasferiscono il greggio in alto mare a imbarcazioni cisterna.
Una ricerca del Centro Internazionale per la Ricerca sull’Energia e l’Aria Pulita informa che i principali importatori europei di combustibili fossili russi nel luglio 2025 erano Ungheria, Francia, Slovacchia, Belgio e Spagna. Ungheria e Slovacchia si distinguono per la grande quantità delle importazioni di petrolio greggio, mentre gli altri importano soprattutto gas naturale liquefatto anche russo, dato che quello naturale non ci arriva come prima a causa dei noti eventi riguardanti i gasdotti Nord Stream. Ciò nonostante, la quantità di gas naturale importato dalla Russia è aumentata, giungendo secondo Eurostat a 4,49 miliardi di euro nel primo trimestre del 2025, passando attraverso il Turkish Stream e la Bielorussia.
Al contempo, l’Ue ha ridotto la quota di importazioni del gas liquefatto russo, passando dal 22% del 2021, al 19% del 2025, divenendo acquirente di quello Usa ben più caro e inquinante, che viene venduto solo se non pagato di più da altri potenziali compratori. Per essere precisi, occorre aggiungere che l’hydraulic fracturing per ottenere petrolio e gas contamina l’acqua, l’aria per l’emissione di gas serra, aumenta la sismicità dei terreni, oltre a provocare problemi respiratori, la diminuzione del tasso di nascite ecc. Inoltre, fatto di cui non si parla, è ormai evidente che la produzione del gas di scisto negli Usa sta calando, e ciò a partire dal 2023 (tra dieci anni si esaurirà), come sta diminuendo il numero degli impianti a causa della crescita dei costi dovuta anche alle stesse sanzioni. Pertanto, è un bel problema sapere come gli Usa potranno approvvigionare tutti quei paesi che hanno costretto a distaccarsi dall’energia russa, fornita regolarmente e a basso prezzo.
Purtroppo per la classe dirigente europea, l’Ue ha continuato a importare dalla Russia i fertilizzanti, nel 2025 circa 550 milioni di euro, cifra non molto diversa da quella risalente al 2021. Se la quota di ferro e acciaio comprata al paese euroasiatico è diminuita, non si può dire lo stesso delle importazioni di nichel, impiegato per costruire acciaio inossidabile, batterie ecc.; infatti, nel primo trimestre del 2025 sono stati acquistati 260 milioni di euro di questo materiale dalla grande nazione euroasiatica.
Sempre richiamandosi a documenti ufficiali, sui quali non si fonda mai l’informazione diffusa dalla comunicazione di massa, 1.000 aziende occidentali importanti non operano più in Russia dal 2022, ma alcune sono rimaste, almeno se prestiamo fede agli elenchi compilati dalla Yale School of Management e dal Kyiv School of Economics Institute.
Le aziende Usa tuttora attive nel paese sanzionato operano nei settori alimentari, del tabacco, dei beni di consumo, tra le quali ricordiamo Philip Morris International, PepsiCo, Mars e Nestlé. Anche decine di aziende europee sono rimaste nel grande paese autocratico; si tratta di produttrici di beni di consumo (per esempio la vendita dei cosmetici è in crescita tra gli abitanti del paese in guerra), di prodotti per la casa, di rivenditori al dettaglio e di imprese di software.
Chi avrà la pazienza di dare uno sguardo alla lunga lista presente nel documento citato si renderà conto che la condizione operativa delle varie imprese è diversa: alcune sono effettivamente attive come il britannico gruppo Antal, specializzato nel reclutamento di personale in vari settori e operante in circa 35 paesi; invece, l’italiano gruppo Ariston, come ha affermato recentemente il proprietario Paolo Merloni, “mantiene la proprietà” dello stabilimento in Russia, situato nella regione di San Pietroburgo, ma “non lo gestisce”. Questa scelta è stata adottata – continua Merloni – per “rispetto verso i lavoratori russi, che hanno sempre lavorato bene”.
Lo stabilimento era stato sequestrato nel 2024 per essere poi restituito al proprietario undici mesi dopo. Un altro caso è rappresentato dalla catena tedesca di bricolage Obi, che ha ceduto i suoi negozi a un compratore russo, ma nel 2021 ha presentato la domanda di registrazione del marchio, per salvaguardare la proprietà intellettuale dei suoi prodotti. Molte imprese occidentali, in larga parte soppiantate da aziende cinesi, indiane e mediorientali, hanno adottato la stessa strategia, benché l’avvenire non sembri presentarsi roseo a breve e medio termine. Tuttavia, un sondaggio chiarisce il persistente interesse dei capitalisti occidentali verso il mercato russo e ci aiuta a comprendere tante ambiguità politiche a stento velate da dichiarazioni aggressive e allarmanti.
Ecco qui i risultati del sondaggio fatto e pubblicato dall’Associazione delle Imprese Europee (Aeb), intitolato Strategie e prospettive delle aziende europee in Russia. Nonostante tutto, i capitalisti, soprattutto europei, trovano conveniente continuare a essere presenti in Russia per “l’ampiezza del mercato locale, il suo elevato potenziale e la sua evoluzione positiva”. Altre ragioni importanti indicate dai manager europei sono: “la presenza di personale qualificato, prezzi favorevoli delle materie prime, sussidi e incentivi statali, bassi salari, bassa concorrenza e condizioni produttive attrattive per l’export”. Da sottolineare che l’Aeb riunisce oltre 380 aziende provenienti da Paesi dell’Ue, dell’Efta (Associazione Europea di Libero Scambio) e da altri Stati che operano in Russia.
Gli estensori dell’elenco delle imprese tuttora presenti in Russia cercano di tranquillizzarci, dicendoci che le tasse che le aziende del blocco euroatlantico pagano allo Stato russo sono irrilevanti, tuttavia – osservano – i loro prodotti hanno consentito alla popolazione locale di avere accesso ai beni indispensabili nella vita quotidiana, non alimentando così un atteggiamento negativo verso il governo e la situazione di guerra, facendo in definitiva un grande favore all’antipatico Putin e alla sua intransigenza bellicista.
Come si vede, pur con molte precisazioni, nel complesso si è registrata una riduzione, inevitabilmente non totale, degli scambi commerciali tra il blocco euroatlantico e la Russia, la cui conseguenza è stata naturalmente il notevole aumento delle importazioni di merci e di risorse energetiche da parte dell’India e della Cina, confermando la svolta verso il mercato orientale delineata dall’autentico ideologo di Putin Sergey Karaganov e iniziata già a partire dal 2010.
Secondo l’opinione di molti illustri analisti, non organici alle élite dominanti, la grande sconfitta da questi eventi è l’Europa, o meglio gli inetti e incapaci dirigenti dell’Ue, la quale ha già perso qualsiasi ruolo significativo in un mondo ancora fondato sulla pervicace concorrenza, in cui molto probabilmente in futuro dominerà la nuova trinità rappresentata da Cina, Russia e Stati Uniti. Tale irrilevanza significherà anche il triste impoverimento della popolazione europea, cui già stiamo assistendo, privata di tutte le tutele sociali, le cui antiche ricchezze sono e saranno sempre più vampirizzate dal suo stretto nemico-alleato, da cui l’Europa si sta distanziando anche per la decrescita del Pil. Per avere un’idea di quello che ci aspetta e che forse ci meritiamo per la nostra vergognosa passività, basta osservare la mappa del lunghissimo gasdotto (2.600 km) Power Siberia 2, che porterà attraverso la Siberia e la Mongolia il gas russo in Cina, dirigendo tutto il nostro fabbisogno energetico verso il lontano ed enigmatico oriente.